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 2013  luglio 28 Domenica calendario

L’ETERNO RITORNO DEL DOPING

Hanno preso un po’ troppo alla lettera l’invito del barone de Coubertin, Citius, altius, fortius, scelto nel 1894 come motto per i nuovi Giochi olimpici. Sono andati più veloci, più in alto, più forte. Ma troppo e son caduti sotto i colpi di controlli antidoping a sorpresa: gli ultimi della serie sono i velocisti Asafa Powell e Tyson Gay. Pronti per i Mondiali di Mosca, li vedranno in tv.
La caduta degli dei ha qualcosa di evangelico: gli ultimi saranno i primi (lo sport è riscatto sociale), e i primi ultimi. Ultimi, screditati e sbugiardati: piste macchiate di record e imbrogli. Ma perché per lo sport, che fattura miliardi e campioni, azzerare il doping è più difficile di un tuffo con doppio salto mortale?
Aspettando la vittoria. La giustizia sportiva, che non ha poteri investigativi, fa quel che può: si basa su campioni di sangue e urine, ma gli "stregoni" del doping, quelli che non inciampano nelle margherite, sanno come evitare i controlli: «L’arma che fa la differenza è la giustizia penale», dice Raffaele Guariniello, il magistrato cresciuto nei fasti di Alfredo Di Stéfano e Omar Sivori e nella determinazione di scovare le farmacie allestite nel retro degli spogliatoi. «L’Italia - prosegue - ha la migliore legge al mondo contro il doping ma la lotta si fa con perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, cioè coi sistemi della giustizia penale». La magistratura deve essere più incisiva: nel 2006, ai Giochi di Torino, il laboratorio di Orbassano scoprì solo un’atleta positiva; alla magistratura bastò una perquisizione nel ritiro dell’Austria per trovare le sacche di sangue. I controlli sono indispensabili, ma il cambio di passo verrà dalla magistratura: «Serve una procura nazionale perché il rischio è che ogni Procura veda un pezzo della storia e non l’intero disegno criminale», è la riflessione di Guariniello. Che si spinge oltre perché l’uso di sostanze bandite è un crimine internazionale: «In Europa non ci sono frontiere per i criminali, ma poliziotti e magistrati faticano a superarle. L’articolo 86 del Trattato dell’Unione prevede la figura del Pm europeo: una Procura internazionale sarebbe una pietra fondante per debellare il fenomeno», che permea ormai la vita di milioni di amatori: per emulazione, si impasticcano e rischiano la vita.
Alle spalle del Pm, fra tomoni di diritto, foto e decine di cd, anche un libro, Le lacrime degli eroi. Sembra messo lì apposta a ricordarci che le lacrime, l’ultimo atto di molti atleti pescati con le mani nella marmellata, non deve far cambiare strada: «Io - confessa Guariniello - sono un ottimista della volontà più che della ragione». E la sua storia professionale, dal processo contro la Juve alle indagini sul rapporto tra farmaci e Sla, è l’atto di fede di questo ottimismo.
Pareggiare con onore. Contro il doping anche la ricerca di scienziati al servizio di sport e salute pubblica. Il futuro è nel passaporto biologico: adottato da ciclismo e atletica, è la mappatura delle caratteristiche genetiche dell’atleta. Nel caso siano stati somministrati geni per migliorare le prestazioni, si dovrebbero trovare alterazioni nel metabolismo. «Non possiamo cantare vittoria - dice Mario Plebani, docente di Biochimica all’ateneo di Padova - è un primo passo, perché il bersaglio doping è mobile: ora bisogna trovare valori basali certi su cui rilevare eventuali alterazioni». Stessa cautela da Giuseppe Novelli, genetista di Roma Tor Vergata: «Temiamo che ci siano già atleti geneticamente dopati: questa scienza raffinata può essere arginata, ma non bloccata solo grazie a investimenti in ricerca».
Il passaporto biologico può dare una mano a giudici e avvocati. Dice Jacopo Tognon, docente all’Università di Padova, avvocato e giudice italiano del Tas (Tribunale arbitrale dello sport): «Lo scostamento dei valori rispetto al passaporto determina una presunzione al 99% di avvenuta manipolazione: i dati interpretati da medici indipendenti garantiscono una procedura ipergarantista e offrono ragionevole certezza che l’atleta sia stato alterato in modo significativo con sostanze o metodi vietati».
Strade possibili, ma prima si deve vincere il grande equivoco dello sport: «L’istituzione sportiva è interessata ai risultati, da quelli deriva il business, fatto di sponsor e diritti tv: come pretendere che essa stessa sia intransigente controllore della regolarità delle gare?», si chiede Sandro Donati, ex allenatore dell’atletica azzurra e grande esperto di lotta al doping. E prosegue: «Nella storia i controlli sono sempre stati introdotti con ritardo rispetto all’uso delle sostanze dannose per la salute: in questi ritardi, medici, dirigenti e allenatori disinvolti si sono fatti belli di risultati "sporchi", hanno consolidato le loro posizioni di potere e si guardano bene, dai posti che occupano, di dare la caccia a chi inquina lo sport. Senza dimenticare la complicità totale fra istituzioni sportive e politica, che usa lo sport come nell’antica Roma si usavano gli spettacoli dei gladiatori: per distrarre il popolo dalla miseria. La complicità, tutta italiana, è riassunta in un fatto: non è stata ancora creata un’autorità indipendente dal Coni che svolga attività antidoping, nonostante la legge 376/2000 la imponesse entro 90 giorni dall’entrata in vigore della norma». Ed era il 14 dicembre 2000.
Irrimediabilmente sconfitti. Lo sport pulito è un traguardo che ballonzola all’orizzonte: «Il doping esiste fin dall’antica Olimpia, è endemico come il crimine», spiega Stefan Szymanski, direttore del centro per il management dello sport, all’Università del Michigan, e autore, con Simon Kuper, del prezioso Soccernomics. «Il doping esiste perché si fa di tutto pur di vincere e non si riconoscono né si accettano le regole». È la maledizione ancestrale della sconfitta perché vincere è sfida, ostinazione e rivolta. E i Governi non fermano questa corsa folle: «Nel 1908 i Giochi di Londra furono Regno Unito contro Germania, ora lo sport è la battaglia Cina-Usa - continua il docente -. Come pretendere che i Governi sanzionino chi dà loro gloria e medaglie?».
La storia degli onesti che fanno guerra al doping è il paradosso di Zenone applicato allo sport: il doping è la lenta tartaruga che prosegue indefessa il suo cammino; chi insegue - medici, scienziati, magistrati - è Achille, piè veloce sì, ma sempre un passo indietro rispetto alla malefica tartaruga e al suo male subdolo. Achille riduce la distanza ma è ancora un passo indietro. È la sua maledizione.