Natalia Aspesi, la Repubblica 28/7/2013, 28 luglio 2013
FRIDA GIANNINI L’INCONTRO
FIRENZE – Quella notte dello scorso giugno al Twickenham Stadium di Londra c’erano cinquantamila persone, e sull’immenso palco si alternavano Rita Ora e Madonna, Jennifer Lopez e Simon Le Bon, James Franco e Jessica Chastain, ma anche il premio Nobel per la Pace Leyman Gbowee e tanti altri e, in un video, pure l’arcivescovo Desmond Tutu. L’ultima folgorazione per un pubblico impazzito fu l’apparire di Beyoncé, presentata da Salma Hayek Pinault e da Frida Giannini: tre donne belle e celebri, organizzatrici di quella indimenticabile serata di gioia e di generosità, cofondatrici, con Gucci, di “Chime for Change”, la campagna per raccogliere fondi destinati a migliorare la vita di donne e bambine di paesi disagiati: «Con più giustizia, più salute, più istruzione, per consentire loro di liberarsi dalla povertà, dalla sottomissione, dalla paura. Siamo andati in paesi dimenticati dalla società del benessere come il Malawi, e la Gucci ha deciso di puntare soprattutto sull’istruzione, perché una bambina o un bambino che escono dal buio dell’ignoranza, imparano ad avere dei diritti, a immaginare un futuro diverso da quello che gli imporrebbero l’isolamento e l’abbandono in cui sono nati. Imparare a leggere aiuta le donne africane a proteggere i loro figli, le bambine a capire come difendersi da violenze e stupri».
Frida Giannini è l’immagine nuova della donna di potere: direttore artistico di tutto ciò che porta il marchio Gucci, dagli abiti al museo fiorentino della maison, è una quarantenne di delicata, serena bellezza, che si potrebbe definire, superando la banalità, botticelliana; alta e sottile, lunghi capelli biondi lisci, occhi dorati, carnagione chiara, un’eleganza discreta, appunto neogucciana. Lavorando per il lusso sempre più lussuoso, invadendo il mondo di oggetti desiderati perché legati a una firma di antico, costoso prestigio, quindi destinati ai privilegiati di censo, che sono una moltitudine, o agli sconsiderati di gusto, che sono una folla, si può provare, se si è intelligenti e consci del mondo, il bisogno di non chiudere gli occhi sull’immenso popolo di chi si dibatte in vite di abbandono, fatica, invisibilità, dolore: il dovere di perdonarsi la fortuna e il successo occupandosi degli altri, non solo elargendo denaro, ma anche impegnandosi personalmente. Dice Frida Giannini, con autentica soddisfazione: «In quella sola notte di giugno a un concerto live con un miliardo di spettatori in centocinquanta paesi, abbiamo raccolto tre milioni di euro e attraverso Catapult li abbiamo distribuiti a 84 organizzazioni no-profit ».
La bella signora romana, padre architetto, madre docente di storia dell’arte, è cresciuta in una casa dove la cultura faceva parte della quotidianità: «Avevo molta passione per il disegno, da piccola i miei mi avevano destinato una parete di casa su cui dipingere con i pennarelli. Alle elementari mi regalarono un tecnigrafo, dopo il liceo dovevo scegliere, tra iscrivermi ad architettura o all’Accademia di belle arti. Mio padre mi portava nei cantieri, mi iscrissi ad architettura ma capii subito che quella non era la mia vocazione. Intanto sperimentavo su di me le strade del look: un giorno ero pariolina, il giorno dopo rockettara. Scelsi l’Accademia dove, malgrado la mia passione per i travestimenti, ero la più sobria. Avevo insegnanti meravigliosi, come Argan e Monicelli, e intanto nasceva in me la passione per la moda, non perdevo una rivista. Ho fatto il classico percorso, da studente a stagista in varie aziende, sempre non pagata, ho raggiunto il mio primo contratto di formazione lavoro, e poi di nuovo precaria. Sono state esperienze importanti, ho imparato a stare sempre al mio posto, con umiltà ma anche molta curiosità, molta voglia di imparare e capire. A 25 anni ho avuto la fortuna di essere chiamata da Fendi, un’azienda di donne, le cinque famose sorelle, più figlie e nipoti: non ho mai dovuto neppure agli inizi dare gomitate come deve fare una donna in un mondo di uomini».
Non erano più i favolosi anni ’90, ma la moda italiana continuava a brillare e a fare affari e i nostri grandi marchi avevano cominciato a interessare i potenti gruppi stranieri del lusso, che si contendevano i giovani creativi. La Gucci, diventata da qualche anno di proprietà del gruppo francese PPR, chiamò nel 2002 la giovane Frida come direttore stilistico della borsetteria. In azienda imperava Tom Ford, il creatore texano che aveva fatto credere alle donne che bastava un vestito da dominatrice crudele per sedurre il mondo: per questa illusione le donne lo adoravano, e il suo successo era tale che a ogni sua sfilata cadevano in deliquio. Frida era una trentenne in jeans e camicia bianca che nel marchio ipersessualizzato riportava con la sua persona, in un momento di grande cambiamento sociale ed economico, l’immagine di una nuova donna, seducente per classe, eleganza, ritegno, intelligenza. La sua carriera nell’azienda fiorentina, nata nel 1921, è stata fulminea: nel 2004 diventa direttore creativo di tutti gli accessori, dopo la rottura tra Gucci e Tom Ford, nel 2005 la nominano direttore creativo dell’abbigliamento donna,l’anno dopo anche di quello uomo. Oggi col suo gruppo stilistico di decine di persone impone la sua visione del lusso, fatto di raffinatezza, equilibrio, ricerca, rispetto della persona e dell’ambiente, su tutto ciò che porta il celebre marchio. Partendo dalle meraviglie dell’archivio storico Gucci e chiedendo ai fornitori, sempre italiani, di studiare nuovi materiali, privilegiando quelli, come dice lei “ecosensibili”: «Tutto è certificato, all’interno della nostra filiera produttiva: abbiamo almeno duemila controlli l’anno. Usiamo tessuti jeans che non abbiano subito lavaggi dannosi, né la famosa sabbiatura, molto pericolosa per chi la lavora. Usiamo nuova resine per fare gli occhiali, certe ricavate persino da semi di ricino; ci impegniamo perché tutto sia biodegradabile, come certe gomme per le sneakers, o riciclabile, come tutto il packaging. Per la conceria, cerchiamo di usare pelli non lavorate col cromo. E abbiamo creato una linea di borse con un logo speciale, Green Carpet Challenge, fatte con pelli di animali allevati in pascoli non ottenuti distruggendo la foresta amazzonica».
Non è facile assuefarsi all’idea che il lusso, giudicato dai moralisti, e spesso a ragione, come peccato, spreco, sfruttamento, gelido business, possa anche avere un fine umanitario: e per esempio la signora Giannini ha accettato di creare una linea Gucci per bambini, certo figli di genitori non indigenti e forse esagerati, (infatti va benissimo), «solo se prodotta tutta in Italia, e non in Thailandia, Pakistan o Cina, dove i controlli sono difficili: e devolvendo un milione di euro l’anno all’Unicef». Dal 2005, Gucci ha donato all’Unicef più di 14 milioni di dollari, per sostenere tra l’altro i progetti educativi per l’Aids nell’Africa subsahariana. Quindi i clienti nei nuovi paradisi della ricchezza come Russia e Cina, e pure in Europa e in Italia, in crisi ma non troppo (si è da poco inaugurato a Milano, di fronte a Brera, un sontuoso negozio Gucci a tre piani solo per uomo), che collezionano spensieratamente borse, valigie, profumi e giacche come fossero cartoline, possono sentirsi buoni, anche se non eccessivamente interessati al fatto che una parte di quello che spendono finisca per esempio nelle regioni sperdute della Cina per curare una grave malattia oculare che colpisce laggiù dodici milioni di bambini. L’azienda francofiorentina ha venduto l’anno scorso per 3,1 miliardi di euro, impiega direttamente ottomila persone nel mondo, alimentando un indotto di 45 mila, delle quali 7 mila attorno a Firenze. «Non facciamo solo cose belle, ma anche cose buone» dice sorridendo Frida Giannini. Anche buonissime, come la piccina di ormai cinque mesi, figlia sua e del presidente della maison Patrizio Di Marco. «Abbiamo un’intesa personale e professionale, io ho imparato a non farmi divorare dal lavoro e dall’ansia, arriva un momento in cui stacco, torno a casa, preparo un piatto di spaghetti, sto con la mia bambina. Fuori dall’azienda, il mio compagno e io non parliamo mai di lavoro, ma delle tante cose belle che ci interessano e ci accomunano. Abbiamo deciso per ora di non vivere insieme per non farci spegnere dalla quotidianità e avere i nostri momenti di solitudine».
Anche il cinema ringrazia il logo di due G, passione di Frida e storia del marchio negli anni ’60, quando arrivavano a Roma i divi americani e assalivano le raffinate boutique del centro. «Dal 2006 sovvenzioniamo la Film Foundation di Martin Scorsese per il restauro di capolavori soprattutto italiani, come Le amiche di Antonioni, Il gattopardo di Visconti, La dolce vita di Fellini, Il caso Mattei di Rosi. Ma crediamo anche nei giovani e nel futuro del cinema, e collaboriamo con la Biennale di Venezia al progetto College, di formazione, ricerca e sperimentazione». Alla prossima mostra vedremo le prime opere.