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 2013  luglio 27 Sabato calendario

RISCOPRIAMO L’ITALIA DELLE CAMBIALI

La cambiale. Molti giovani non sanno neppure che cosa sia, ma lo scopriranno presto se la crisi continuerà ad avanzare. I segnali di un ritorno prepotente di questo strumento del credito non mancano. Dalla Riviera romagnola giunge la notizia che nei pri­mi mesi dell’anno in corso, rispetto allo stes­so periodo del 2012, la circola­zione dei cosiddetti pagherò ha avuto un incremento del 10 per cento. Nel Paese, dal 2009 a oggi, si registra addirittura un aumento del 40 per cento delle «farfalle», come le cam­biali erano definite negli anni Cinquanta, quando il popolo ne faceva largo uso per acqui­stare a rate ciò che non poteva permettersi di saldare subito per mancanza di liquidi.
Gli italiani erano appena usciti dalla guerra mondiale, il livello della disoccupazione era altissimo, le ferrovie erano a pezzi e si viaggiava spesso su vagoni merci; i bombardamenti avevano distrutto case e stabilimenti: urgeva ricostru­ire. Nonostante il disastro, tuttavia, la gente, rias­saporato il piacere della pace e della li­bertà, era animata da un grande ottimi­smo, addirittura eufo­rica, vogliosa di vivere. Aveva fiducia nel futu­ro e nessuna paura dei debiti; si lanciava negli ac­quisti anche se non aveva in tasca una lira. Fu il trionfo delle cambiali. Ne firmavi un pacco e finalmente ti motoriz­zavi. Il sogno era la Vespa o la Lambretta, scooter a cui qual­cuno con famiglia numerosa agganciava il sidecar.
Chi aveva uno stipendio non esitava a impegnarne una parte, per molti mesi, allo sco­po di partecipare alla festa del consumismo secondo uno sti­le di importazione americana, ma reinterpretato su scala minima, commisurata alle no­stre scarse possibilità. E giù cambiali a raffica: per sostitui­re la vecchia ghiacciaia di zin­co col frigorifero, per regalarsi il televisore e ammirare i protagonisti di Lascia o raddop­pia?
(programma cult di Mike Bongiorno), per comprare lo scaldabagno elettrico e rotta­mare quello a legna. Perfino i vestiti erano accessibili a chi non aveva contanti a sufficienza. Bastava recarsi alla Confi­tal, agenzia che in cambio di «farfalle» ti consegnava dei buoni da spendere in negozi convenzionati di confezioni, tessuti e scarpe. Inutile dire che i sarti dell’epoca accetta­vano i pagherò. L’economia nazionale si res­se per alcuni lustri su monta­gne di cambiali, pezzi di carta sui quali era scritto che il si­gnor Rossi, alla data fissata, sarebbe andato in ban­ca a ritirarli, ovvia­mente versando il do­vuto. Guai a non ono­rare l’impegno. La persona che non fosse stata in grado di farlo, avrebbe perso la faccia: il suo nome veniva pubblicato sul bollettino dei protesti cura­to dalla Camera di commer­cio, una specie di lista di pro­scrizione che ogni venditore compulsava per sapere quali fossero i clienti dai quali stare alla larga. Un protestato era co­me un reietto.
In quegli anni ruggenti era motivo di vanto essere puntua­li nel ripianare i debiti, una me­daglia col valore di una garanzia di solvibilità buona per ot­tenere altro credito. Il consu­mismo galoppò e aprì la stra­da al boom che coincise con l’avvento della Fiat 600, l’utili­taria per eccellenza, alla porta­ta della piccola borghesia. Co­stava 640mila lire, circa otto stipendi di un bancario. Inuti­le sottolineare che 9 vetturette su 10 venivano ritirate in con­cessionaria previa apposizio­ne di 24 firme su altrettanti pa­gherò. A chi sgarrava, la mac­china era confiscata.
Con la Fiat 600 l’Italia decol­lò. Divenne un Paese mo­derno o almeno si av­viò a esserlo. Chi riu­scisse ad assicu­ra­rsi la mitica uti­litaria, «farfalle» o no, si considera­va ed era conside­rato un uomo arri­vato. Il progresso era praticamente una religio­ne. La gente amava tutto ciò che era nuovo e si sbarazzava con sollievo degli oggetti del passato, che rammentavano e simboleggiavano la detestata civiltà contadina. Le cucine tradizionali, con tanto di cre­denze, cassettoni della legna e tavoli ottocenteschi furono ridotti in tocchi e rimpiazzati da mobiletti di metallo, lacca­ti di bianco secondo la moda statunitense e completati da ripiani di orrenda formica, molto amata dalle signore il cui gusto era educato (o male­ducato) dagli spot di Carosel­lo.
Quegli anni furono caratte­rizzati da una smania colletti­va: non solo occorreva attrez­zarsi in modo compulsivo di elettrodomestici (lavatrici, lu­cidatrici, aspirapolveri, frulla­tori eccetera), ma anche elimi­nare qua­lsiasi arredo del­la nonna rievocativo di tempi duri, fati­che, fame, cappotti rivoltati, patimenti. Nella foga di ripulire le case da qualsiasi anticaglia, gli italiani svuo­tarono anche la memo­ria e gettarono nella pattu­miera pure le sane abitudi­ni ereditate dagli avi: il deco­ro, le buone maniere. Quasi una ribellione; si cominciò a parlare di gioventù bruciata, e non si smise più di dire: chissà dove andremo a finire.
Ed eccoci qua a rimpiange­re non tanto le cambiali, che comunque ci travolgeranno a breve perché non ci sono più euro, quanto lo spirito che ri­sollevò l’Italia dalle rovine belliche. I nostri padri avevano poco o niente, ma non erano sprovvisti della voglia di lavo­rare e della capacità di inven­tarsi un mestiere per far studia­re i figli. Noi abbiamo studiato e guardate un po’ come siamo conciati.
Vittorio Feltri