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 2013  luglio 27 Sabato calendario

SONO DIVENTATA ITALIANA CON I PROMESSI SPOSI

Intervista a Cecile Kienge–
C’ è chi comincia a leggere perché gli hanno regalato un libro. E chi riceve un’intera libreria, a riempire la casa di famiglia a Kambove, nella provincia congolese del Katanga. È capitato a Cécile Kyenge, primo ministro italiano di colore (anzi «nera, non di colore, e ne vado fiera», ha precisato indifferente al politicamente corretto), responsabile dell’integrazione nel governo Letta, e per entrambi i motivi diventata subito bersaglio di sconcezze razziste da parte di avversari politici.

Nata in Congo da un padre poligamo con 39 figli ormai sparsi in tutto il mondo, Cécile Kyenge arriva in Italia «da irregolare» a 19 anni, per l’impossibilità di studiare medicina nel suo Paese, con la promessa di una borsa di studio dell’università Cattolica. In realtà, il sussidio «promesso» da un vescovo non esiste. Cécile dovrà faticare per iscriversi all’università. Si laurea in medicina, si specializza in oculistica, sposa un calabrese con cui ha due figli, acquisisce la cittadinanza italiana, lavora come medico a Modena e comincia un’intensa attività associativa e poi politica, nel campo dell’immigrazione, che la porterà al governo. E in quel primo durissimo anno in Italia, mentre lavora come badante per mantenersi, impara l’italiano con la lettura. Cominciamo dall’infanzia in Africa: qual è il primo ri­ cordo legato ai libri? «Frequentavo la scuola media. Un giorno mio padre, insegnante, torna a casa con una grande libreria colma di volumi. Un collega belga, dovendo partire dal Congo e non sapendo dove lasciare i suoi libri, aveva deciso di regalarceli. Così da un giorno all’altro ci siamo ritrovati una biblioteca in casa».

La sua reazione? «Io li lessi tutti, quasi non uscivo più. Finiti quelli, cominciai a frequentare una biblioteca gestita dell’ambasciata francese, uno dei pochi luoghi dove si potevano trovare libri e giornali, visto che anche le scuole avevano difficoltà a reperirli». Che cosa c’era in quella li­ breria? «Di tutto. Da Radici di Alex Haley a Dame aux camélias di Alexandre Dumas, base della Traviata di Verdi. Quelli che leggevo con più passione raccontavano le storie della schiavitù, delle comunità africane che subivano la deportazione in America». Aveva già in mente di lascia­ re il Congo? «No, era come una premonizione. Mi incuriosivano i percorsi delle persone costrette ad abbandonare la propria terra».

Per esempio? «Ero rimasta colpita da La negra bianca di Van Slyke Helen, la storia di una bambina bianca fuori e nera dentro, nata da una schiava che lavorava presso una famiglia americana e da un padre che non l’aveva mai riconosciuta. La sua doppia identità scoperta da adulta, il conflitto interiore che generava, provocarono in me un’attrazione per quel libro».

Se lo portò in Italia? «Viaggiai con una sola valigia, in cui a malapena riuscii a mettere le mie cose. Per i libri non c’era posto». E in Italia, quali sono state le prime letture? «Uno dei primi libri comprati è stato Il Piccolo principe . L’avevo già letto in francese, era uti-

le per la traduzione e per capire l’italiano. In quei primi anni i romanzi classici come i Promessi Sposi o i Malavoglia , così come la Divina Commedia , erano letture compiute a scopo didattico e hanno rappresentato per me il primo approccio a lingua e cultura italiane. In particolare in Manzoni ho apprezzato il riferimento agli umili come punto di vista privilegiato per raccontare la storia del Paese e la denuncia di una particolare condizione umana, sociale e storica dell’epoca».

E negli anni successivi? «Nei primi anni di lavoro non avevo l’auto e facevo lunghi spostamenti in bus. Ogni viaggio, un libro: Danielle Steel; Erri De Luca di cui amo la fisicità della scrittura; Serge Bilé e la sua galleria di grandi africani sconosciuti, Quando i neri fanno la storia ; Gli spettri del Congo di Adam Hochschild, che racconta la storia di re Leopoldo del Belgio e l’olocausto dimenticato; Wangari Maathai, prima donna africana a vincere il Nobel per la pace nel 2004, di cui rileggo spesso l’ultimo libro, La religione della terra . Uno dei miei fari, assieme a Aminata Traoré».

Come sceglie gli autori? «Non scelgo lo scrittore, ma lo stile e il vigore della denuncia che trovo in un libro. Mi hanno appassionato libri di autori che non conoscevo: I nuovi schiavi di Kevin Bales sullo sfruttamento nell’economia globale o La carità che uccide di Dambisa Moyo, che spiega come la cooperazione può frenare lo sviluppo del terzo mondo». Quanto conta la lettura nel processo di integrazione? «Moltissimo, è un modo di capire ciò che visivamente sfugge. La parola scritta coglie aspetti della società che altrimenti passano inosservati. Penso alla letterature migrante, opere scritte in italiano da migranti non di madre lingua italiana. Come Kossi Amékowoyoa Komla-Ebri, togolese naturalizzato italiano: ho letto tutti i suoi libri in un’estate».

E che cosa si capisce? «Quando leggo l’italosenegalese Pap Khouma, l’italoetiope Gabriella Ghermandi o l’italoalgerino Tahar Lamri scopro una mentalità nuova, un nuovo modo di essere italiani. E mi accorgo di come sta cambiando questo Paese. Hanno una capacità di proiettare nella contemporaneità il gusto della memoria, con una prospettiva originale». I libri decisivi per il suo impe­ gno politico? «Le biografie di grandi uomini politici: Nelson Mandela, Martin Luther King, Thomas Sankara, Enrico Berlinguer». Legge i libri dei politici italia­ ni? «Ho letto quelli di Veltroni, un

paio di anni fa. Non li ricordo bene, ma mi pare che ci fosse più narrativa che contenuti...». E in questi giorni che cosa c’è sul suo comodino? «Devo finire un libro sul razzismo scritto da bambini delle zone terremotate, che me lo hanno regalato, e quello dell’ex calciatore Thuram, che mi ha scritto una dedica molto affettuosa». Che consiglio di lettura da­ rebbe ai politici italiani? «Affezionarsi alla letteratura migrante, capire la nuova anima italiana che emerge da quei libri. Avvicinarsi a un nuovo mondo».