Tonia Mastrobuoni, Tutto Libri La Stampa 27/7/2013, 27 luglio 2013
BUONE VACANZE NEL MONDO SPORCO
Per mesi Andrew Blackwell è andato nei luoghi più schifosi e inquinati del mondo, alla ricerca della «scorza di bellezza che deve esistere in ogni posto maltrattato», come scrive nello straordinario ed esilarante libro che raccoglie le sue avventure, Benvenuti a Chernobyl (Laterza). Eppure, l’unica conseguenza di quei viaggi devastanti, come ci racconta al telefono da New York, è stato «un raffreddore in Cina». Lo scrittore e regista americano ha attraversato la zona proibita di Chernobyl, compresa la foresta che divenne rossa tutto d’un colpo il giorno dell’incidente nucleare, ancora talmente radioattiva da far impazzire i contatori geiger. E ha viaggiato sul fiume più inquinato della terra, lo Yamuna, che attraversa Delhi ed è adorato come una divinità, ma è stato trasformato dalla corsa economica in una gigantesca cloaca a cielo aperto. «Eh sì - ride - ho sperimentato molte puzze».
Blackwell ha anche vissuto con le famiglie cinesi del Guangdong che si riempiono le case di immondizia elettronica e rovistano tra schede madri assorbendo piombo, stagno e altre sostanze tossiche, per ricavarne materiali da rivendere. O si è infilato nel polmone nero dell’America, nelle raffinerie del Texas e nei giacimenti di «petrolio sporco», delle sabbie bituminose del Canada, per mettere insieme i suoi racconti dei «luoghi meno amati del mondo». Il fatto è, spiega, «che ci laviamo la coscienza concentrando il nostro odio su quei posti. E non ci rendiamo conto di avere una concezione estetica dell’inquinamento, puramente estetica».
Eppure, l’esperienza più dura gliel’ha regalata in quei mesi il pellegrinaggio in mare, insomma la natura pura. Anzi, la più grande distesa di natura pura: l’oceano. Ad un certo punto si è imbarcato con degli ambientalisti alla ricerca della famosa «Grande chiazza» che è stata scoperta qualche anno fa in mezzo al Pacifico, e che per uno strano gioco di correnti concentra una massa enorme di rifiuti di plastica che provengono da tre continenti in un solo punto. Per poco non affogava, durante una tempesta: «lì mi sono stancato molto e ho anche avuto paura». E il diario di bordo, a stretto contatto con la capa della spedizione, Mary Crowly, una via di mezzo tra il capitano Achab e Don Quichotte, una donna alla disperata ricerca di un modo per portarsi via la Grande chiazza nonostante tutti gli esperti siano convinti che quella chiazza non si può portare via, è uno dei momenti più cupi del libro.
Il fascino enorme dei racconti di Blackwell, tuttavia, sta soprattutto nelle persone che incontra. Ricorda le fotografie di Robert Capa, che stregano non riprendendo direttamente i luoghi e le guerre, ma cogliendone i riflessi sui volti e nei gesti di chi li vive. A Chernobyl lo scrittore si affida a una guida che sembra uscita da un film di Kaurismäki, un tizio con gli occhiali a specchio dalla rudezza caricaturale che gli racconta di essere un esperto di funghi della zona proibita - notoriamente il vegetale capace di attirare la più alta concentrazione di sostanze tossiche della terra. E lo porta nella città «più post-apocalittica del mondo», straordinario esempio di efficienza sovietica, Pryp’jat, che fu evacuata in poche ore. Certo, in quei tragici giorni di fine aprile del 1986 le autorità ci
misero trentasei ore a dare l’ordine di evacuazione, insomma per ammettere di aver combinato una catastrofe ambientale di proporzioni epocali, ma anche questo era forse tipico di quell’epoca (e dell’Unione sovietica).
Un altro momento magnifico è quando Blackwell va in Amazzonia e fa la deludente scoperta che gli anni d’oro della deforestazione sono alle nostre spalle e incontra un surfista esaltato che vuole trascinarlo nei bordelli di Manaus e gli decanta le virtù di una sorta di Viagra brasiliano che sarebbe molto meglio dell’originale. Ma, come dice lo stesso scrittore, in fondo «non c’è bisogno di andare in posti troppo lontani per sperimentare degrado e inquinamento feroce. Prenda il Canada: noi americani siamo sempre abituati a considerarlo una sorta di gigantesco polmone verde. Invece pochi sanno che è uno dei posti più inquinati al mondo». A Fort Murray la concentrazione di CO2 nell’aria è come quella di Los Angeles, ci rivela nel racconto dedicato alle sabbie bituminose dell’Alberta.
Negli stessi Stati Uniti ci sono, ovviamente, posti leggendari dal punto di vista dell’inquinamento. Il Texas, ad esempio, che nell’immaginario collettivo richiama sempre volti legati al petrolio come l’archetipo del cafone arricchito, il James Dean del «Gigante». Blackwell torna proprio nei luoghi del primo «gusher», del primo schizzo di petrolio eruttato spontaneamente verso il cielo, dove oggi macinano le raffinerie che smaltiscono metà del l’oro nero americano. Lì incontra Radley, un cercatore di «stripper», residui di pozzi abbandonati dalle multinazionali ma anche un ambientalista, Hilton Kelly, che ha un ristorante squisito e compone poesie durante le notti insonni, ispirato dal suono delle fiammate delle raffinerie vicine.
Blackwell sta già preparando il prossimo viaggio. Vuole andare a raccontare le miniere di litio in Bolivia e sta girando anche un film. Ma non tanto per descrivere l’ennesima concentrazione di inquinamento e di peccati umani in un luogo solo: «ci tengo a far capire che alla fine di tutto la questione è una sola: chi controlla le risorse? È questo che ci dobbiamo chiedere, è questo che dobbiamo affrontare». E noi resteremo in ascolto.