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 2013  luglio 29 Lunedì calendario

Fiamme d’Argento, la rivista dei Carabinieri, dedica la sua ultima copertina alla più bella foto del presidente Jack Kennedy, sulla tolda dello yacht Sequoia, il «New York Times» ripiegato in mano, pantaloni chinos chiari, occhiali da sole Ray Ban Wayfarer sul ciuffo fulvo, sguardo perduto sul mare, tra le labbra un sigaro Avana

Fiamme d’Argento, la rivista dei Carabinieri, dedica la sua ultima copertina alla più bella foto del presidente Jack Kennedy, sulla tolda dello yacht Sequoia, il «New York Times» ripiegato in mano, pantaloni chinos chiari, occhiali da sole Ray Ban Wayfarer sul ciuffo fulvo, sguardo perduto sul mare, tra le labbra un sigaro Avana. L’embargo contro Cuba era stato appena imposto, ma il presidente aveva fatto incetta di tutti i Cohiba della capitale e ne aveva una bella scorta. Il titolo di «Fiamme d’Argento» recita laconico «La fine di una speranza». A mezzo secolo dalla morte di John Fitzgerald Kennedy, il suo fascino persiste. Ieri il «New York Times» dedicava la prima pagina dell’inserto «Sunday Styles» a sua figlia Caroline, presto ambasciatrice in Giappone. Ambasciatrice e superstite della famiglia che il mondo conobbe alla Casa Bianca: la First Lady Jacqueline, icona della bellezza femminile del XX secolo, lo sfortunato fratello John, scomparso con il suo aereo in una notte di nebbia al largo di Hyannis Port. E proprio Hyannis Port, residenza estiva della famiglia, dove fu scattata la foto del presidente assorto in meditazione fumando un sigaro, ospita una mostra dedicata all’estate del 1963, l’ultima che Jfk passò sul mare dov’era cresciuto, dove aveva conosciuto i momenti felici della sua breve, tormentata, vita. L’estate dell’ultima speranza, quando il sogno di una nuova America e una nuova politica si spense, nell’autunno cinico di Dallas. Riguardando quelle foto, quei video semplici, familiari, girati non con i telefonini ma con voluminose macchine da presa, capite perché, dai nostri Carabinieri al quotidiano liberal di New York, tanti abbiano nostalgia di Kennedy. Vedete un filmato in bianco e nero in cui il presidente annuncia al paese «Una nuova amministrazione e un nuovo bambino», il piccolo che nascerà invece morto e ora è sepolto al monumentale cimitero di Arlington, a Washington, tra padre e madre, a due passi dallo zio Bob. Vedete il presidente, in polo rosa, provare il suo drive al golf, cosciente dei fotografi, dopotutto aveva inventato lui la politica-tv nel dibattito del 1960 contro il ruvido repubblicano Dick Nixon. Caroline passa a cavallo, un baio di razza, non erano ancora anni di invidia sociale, un presidente miliardario non era schifato da servo della Casta, ma ammirato come privilegiato che decide di servire i diseredati. Ecco Kennedy nuotare, un po’ goffo, la ferita di guerra nel Pacifico, mentre salvava tra le fiamme i compagni della sua lancia PT 109, non gli concedeva libertà di movimenti. Ma nel guidare Caroline in acqua, gli americani di allora riconoscevano nel papà affettuoso l’eroe della Marina e gli volevano bene. Eccolo lanciare il pallone ovale nel touch football, lo sport di famiglia dei Kennedy, stesse regole dello sport brutale, ma senza placcare gli avversari, competizione vivace, depurata dalla violenza. Kennedy sapeva che la politica è sport violentissimo, la sua stessa macchina, coordinata dal padre Joseph e dal fratello Bob, aveva usato ogni mezzo per battere Nixon, alleata al sindaco di Chicago Daley, noto per la dimestichezza con le urne aperte a tarda notte e qualche scheda aggiunta di soppiatto. Ma nella brutalità c’erano visione e speranza, che la Guerra Fredda contro l’Urss e la povertà e le divisioni razziali in America si potessero superare con la forza della democrazia. Vennero poi altri miti, il 1968 a Parigi, il Che in Bolivia, ma in quella magica estate 1963 la bellezza, il fascino, non stavano nella rivolta, ma nella democrazia. Un fascino che da allora i leader non sanno recuperare, neppure il seducente Barack Obama. Nell’intervista all’ultimo grande del giornalismo Usa, Walter Cronkite, che oggi sarebbe denunciato sui siti populisti da «maggiordomo della Casa Bianca», Kennedy lascia intravedere, solo intravedere ma era già moltissimo, che insistere con la guerra in Vietnam era strategia errata. Ai ferri corti con lo Stato Maggiore, come tanti veterani di prima linea, Jfk diffidava dei generali, detestava i loro piani perfetti a tavolino e assurdi in battaglia, travolti poi nell’offensiva del Tet nel 1968 con il suo successore Johnson e il ministro tecnocrate McNamara. I turisti che guardano ad occhi aperti la mostra di Hyannis Port dal vivo o sul web, commossi davanti alla foto di Kennedy pensoso sul mare, piangono non solo un presidente, ma una speranza: che la democrazia possa essere non solo efficace e vincente, ma anche sexy, elegante, ammaliante. Non vogliamo davvero pensare che quella del 1963 sia stata l’ultima estate della democrazia, l’ultima speranza. Ma certo la nostalgia è formidabile.