Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 29 Lunedì calendario

COCTEAU GRAN TRADITORE «PROUST, UN FALLIMENTO»

Jean Cocteau fu un bambino precocissimo, come racconta Claude Arnaud in un bel libro (Proust contre Cocteau, Grasset). Era nato nel 1889, a Parigi, in una delle ricche famiglie borghesi e bohémienne, che si intravedono tra le pagine della Recherche: musicisti suonavano quasi ogni sera a casa loro, scrittori e pittori frequentavano la loro tavola. Il padre, che era stato agente di cambio, mise da parte la sua professione per dedicarsi liberamente al disegno e alla pittura, che insegnò al figlio. La madre era un’eccellente pianista, che posava davanti all’obbiettivo di Nadar figlio e al pennello di Jacques-Emile Blanche. Il piccolo principe le assomigliava moltissimo: stesso viso acuto da faina, stesse ciglia frementi, stessi occhi che osservavano il mondo come un gioco colorato, stesse mani che suonavano il piano assieme alla madre. Siccome il suo viso aveva una strana aria indù, immaginò di essere il figlio di un misterioso diplomatico orientale. Era sempre a teatro, al concerto e all’opera insieme al padre e alla madre, e cominciò a pensare che questa fosse la sua vera vita.
Il padre scomparve presto. Aveva sempre attraversato la vita del figlio come un’ombra o un fantasma, che posava linee e colori sulla carta da disegno e sulla tela; e quando il figlio non aveva ancora nove anni, scomparve definitivamente dal mondo, sparandosi un colpo di pistola sul letto coniugale, alle nove e mezzo di mattina di un giorno di aprile. Non sappiamo quale fosse la ragione di questo gesto così tragico ed eccessivo. Ma né la madre né il figlio gli diedero grande peso: non una parola né un rimpianto e nemmeno un’allusione lo ricorda nella immensa corrispondenza, che dopo di allora i due si scambiarono freneticamente. Forse il padre lasciò un ricordo involontario nei libri del figlio, dove il complesso di Edipo è onnipresente, come se Cocteau si sentisse colpevole o si gloriasse di essere responsabile di una scomparsa, che gli aveva concesso i favori esclusivi della madre.
Il rapporto tra la madre e il figlio, tra Eugénie e Jean, diventò ancora più stretto. La madre coltivava i gusti, le inquietudini, il narcisismo del figlio: nelle rare vacanze, Jean mandava alla madre una lettera al giorno, spesso accompagnata da una cartolina che mostrava l’albergo che occupava, la camera dove dormiva, o il panorama che i suoi occhi contemplavano. Anche quando si innamorò di un brutale condiscepolo, scriveva alla madre: «Non c’è che il mio amore per te che mi lega a qualcosa di vero, il resto mi sembra un cattivo sogno». Non esisteva «coppia più dolce, più crudele, più fedele» della loro. Fece il suo ingresso in società al braccio della madre, e le confidò i suoi primi successi letterari ed erotici, sforzandosi di vivere «nel rifugio di una favola credula come il ventre materno». La madre non cercò mai di combattere le preferenze sessuali del figlio, nemmeno se usciva truccato ed incipriato al braccio dell’attore Edouard de Max, popolare come Sarah Bernhardt.
A diciassette anni, quando tutti gli esseri umani cercano disperatamente se stessi, Cocteau era già una persona compiuta. Disegnava a meraviglia, danzava con grazia, scriveva poesie leggere, progettava argomenti di balletti e di tragedie. Il suo mondo immaginario era pieno di palazzi nei quali danzavano languide Salomé, di foreste dove si inseguivano fate e fauni, di laghi dove efebi si contemplavano. Fin da bambino, amò la menzogna, e l’amerà sempre. «È più bello che se fosse autentico», disse di un falso quadro del Greco. Ma falso non è la parola giusta; perché, come disse ironicamente di sé stesso, era «un angelo caduto sulla terra con una quantità di ali di ricambio». Chiacchierava, chiacchierava, parlava, parlava senza fine, emettendo paradossi, arguzie, formule, tirate, che poi Anna de Noailles declamava in tutti i salotti di Parigi. A François Mauriac, che si era innamorato di lui, disse: «Parlare è per me una gioia, come danzare è una gioia per Isadora Duncan».
Nel 1908 la madre lo portò a Venezia, che sognava da anni. Verso l’alba, quasi al termine di una notte d’insonnia, aprì le persiane che davano sul Canal Grande, e «restò lì, inerte, chinato su quel fiume immobile pieno di lampioni, piangendo di non essere l’unico e l’abile solista, e l’autore della musica veneziana, e tutte le coppie di tutte le gondole». Chiuso nei vetri della notte, desiderò sempre di recitare tutte le parti, diventando l’anima sensibile del mondo, e di venire esaltato da tutto il mondo. Quasi tutti lo esaltarono. Marie Scheikévitch lo paragonò al giovane Voltaire, signore della sua epoca. La principessa Bibesco disse che «camminava con l’orgoglio di un uccello selvaggio, caduto per caso in un pollaio». Il figlio di Réjane, la grande attrice, sostenne che nessuno aveva più fascino di lui, e maggior piacere di affascinare. Forse solo Jacques-Emile Blanche disse le mot juste: «Cocteau ha la freschezza di un eterno adolescente, e la terribile, disastrosa esperienza di un vegliardo».

Marcel Proust conobbe Cocteau, probabilmente a casa di madame Straus, la spiritosissima vedova di Bizet, alla fine del 1909 o all’inizio del 1910, quando aveva venti o ventun anni, diciotto meno di lui. I grandi amici della sua giovinezza, Reynaldo Hahn e Lucien Daudet, avevano esaltato la velocità intellettuale e il tatto mondano di Cocteau. A Proust piacquero la sua conversazione e i suoi occhi; e sentì vibrare in lui la propria lontana adolescenza, nutrita di lirismo, metamorfosi e buffoneria. Ma, dietro il brillio delle parole e degli sguardi, avvertì la fragilità e le inquietudini di Cocteau, e il suo disperato bisogno di lasciare la terra e di ascendere negli spazi, anche se «con le ali di ricambio di un angelo». Cominciò a corteggiarlo lentamente, sinuosamente, con eccessi ed adulazioni, come anni prima aveva corteggiato Hahn e Daudet, sia pure con una passione molto meno intensa.
Una sera, o una notte, Cocteau penetrò nell’appartamento del boulevard Haussmann, lamentandosi del freddo polare che gelava Parigi. Con una delle sue immense esagerazioni, che volevano impadronirsi di un uomo come fosse una cosa, coprendolo di regali e quasi rovinandosi per lui, Proust gli offrì uno splendido smeraldo, con cui Cocteau avrebbe potuto acquistare una non meno splendida pelliccia. Cocteau, amico della discrezione, rifiutò. E ripeté due giorni dopo il rifiuto, quando un sarto venne a casa sua, per ordine dell’amico, a «prendere le misure» per la pelliccia. Affetto da una generosità soffocante come la sua asma, Proust si offese, e inviò a Cocteau una lunga lettera di recriminazioni.
Qualche tempo dopo, Cocteau ritornò in quella stanza, e vi rimase più a lungo. Tutto, là dentro, era alto e silenzioso: le lunghe tende chiuse contro la luce del giorno, i pannelli di sughero sulle pareti, il soffitto che pareva lontanissimo, il lampadario che si perdeva nella nebbia dei suffumigi, che cercavano di vincere l’asma di Proust. Guardò in basso, verso il letto illuminato da una luce verde, dove l’amico stava disteso. Lo scorse appena: distinse una camicia bianca coperta da un maglione di lana; ma il viso si perdeva nella nebbia. Vide gli occhi, che lo guardavano fissamente; e la barba nera, così teatrale su quel viso ancora giovanile, che gli fece l’effetto di una barba posticcia. Cocteau ebbe una strana impressione: Proust gli sembrò un inventore pazzo, immerso nella profondità del mare: il capitano Nemo, nella cabina del Nautilus.
Proust cominciò a parlare. La voce diafana aveva un timbro di melopea orientale: si posava sul silenzio con la soffice autorità della verità definitiva; tutto era così ben detto, così sfumato, così cesellato, che Cocteau restava in silenzio, per permettere alla melopea di continuare la sua modulazione. A volte la voce diventava più grave, come si inchinasse davanti all’inconoscibile: oppure si faceva più confidenziale e si spegneva quasi in un mormorio. Ciò che colpì Cocteau era la sintassi. In quelle modulazioni c’era la punteggiatura delle pagina scritta, perché il tono e le inflessioni tenevano luogo del punto, o della virgola, o del punto e virgola — e di ogni possibile pausa —. Nessuna immagine giungeva da sola. Tutte erano accompagnate e circondate da un corteo cantante e danzante di altre immagini. Proust aveva appena cominciato ad esprimere un’idea, che un’altra le correva dietro e si legava con lei, e il tono della voce apriva una parentesi dentro la quale si apriva una seconda parentesi. Voleva esprimere nello stesso tempo queste idee sorelle, nate insieme, senza separarle, perché teneva sopratutto ai loro «riflessi».
Cocteau provava una specie di angoscia. Capiva che Proust avrebbe voluto possedere più bocche, più lingue, più voci, per rappresentare l’orchestra molteplice di tutte le sue associazioni mentali. Il meccanismo delle idee era così rapido e ricco, che egli aveva appena il tempo di dirle: le parole nascevano così numerose, incalzanti e serrate, che si percepiva in lui una specie di impotenza espressiva; mentre dietro, sullo sfondo, si avvertivano già le altre parole che reclamavano il loro luogo. Ciò che affascinava Cocteau era che tutto poteva essere spiegato, tutto capito; e nulla (o quasi nulla) sfuggiva alla ricerca.
Giunse finalmente il novembre di cento anni fa, quando Du côté de chez Swann, frutto di lunghissime fatiche, giunse alla luce. Ci furono alcune recensioni: di quasi incomprensibile intelligenza, data la novità e la difficoltà del libro; la più bella era quella di Reynaldo Hahn. Cocteau scrisse su Excelsior: «una gigantesca miniatura — disse del primo libro della Recherche —, piena di miraggi, di giardini sovrapposti, di giochi tra lo spazio e il tempo, di larghi e freschi tocchi di pennello alla Manet». In privato, fu egualmente entusiasta. All’abate Mugnier disse la sua ammirazione per un romanzo dove tutto era messo sullo stesso piano, dalle azioni alle descrizioni, come nei quadri prodigiosi di Paolo Uccello. «È il libro di un insetto dalla sensibilità tentacolare». Proust fu fiero e commosso.
***
Nove anni dopo — amata, odiata, desiderata, temuta — venne la morte. Il 21 ottobre 1922, le analisi rivelarono una polmonite virale. Nella lunga malattia, Proust ebbe crisi di delirio, di cui testimonia qualche lettera; ma anche momenti straordinari di lucidità e di frivolezza. Come la Berma moribonda, continuò a lavorare persino negli ultimi giorni, persino il 18 novembre 1922, torturato dalla febbre alta, dall’insonnia e da una terribile tosse. Rifiutò tutte le cure dei medici, e quasi ogni nutrimento. Non volle uccidersi, come ha sospettato qualcuno. Volle vincere la morte da solo, con le sue deboli forze, con la forza immensa del suo libro, e quelle che, da lontano, gli prestava la madre: senza pregare, senza piangere, senza gemere, senza parlare, senza chiedere aiuto, come diceva La mort du loup di Alfred de Vigny.
Insieme a Lucien Daudet, il 19 novembre Cocteau andò a rue Hamelin, dove Proust risiedeva negli ultimi tempi. Nella stanza, non c’era più l’odore abituale della polvere antiasmatica: Proust dormiva profondamente, senza essere più disturbato da nulla e da nessuno, sul suo piccolo letto di rame. Cocteau vegliò il corpo, fissò il viso cereo, notò le strisce scure sotto gli occhi. La lunga barba a punta dava al viso l’aria di «un grande sacerdote assiro dalla pelle d’avorio». «Questa barba sul suo cadavere — scrisse Cocteau — diventava un attributo di mago o di re». Sul camino, si accumulavano i manoscritti della Recherche: «Questa pila di carta continuava a vivere come l’orologio al polso dei soldati morti».
Dopo la morte, i rapporti di Cocteau con i libri di Proust presero fine. Smise, o volle smettere, di capirli. Accusò Proust di non saper scrivere: le frasi erano piene di qui, que, mais que, pas quoi, di errori di grammatica, di espressioni indifendibili. Il romanzo non aveva intrigo: mentre l’intrigo della Recherche è più romanzesco e avventuroso di quello dei libri di Alexandre Dumas. I personaggi erano fantocci, menzogne viventi: le donne erano maschi camuffati. Come Gide, Cocteau non cercò di comprendere che Albertine è un personaggio immenso, sebbene abbia due sessi o sia androgino, e proprio perché ha due sessi ed è androgino.