Leonardo Coen, il Venerdì 26/7/2013, 26 luglio 2013
QUEL GRAN GENIO DEL MIO NEMICO
VIENNA. È un film su Lauda. È un film sul grande rivale James Hunt. È un film sulla Formula 1. Sugli anni Settanta tutti da bere e consumare in fretta e furia. Sulla musica che li frastornava. Sulla parabola degli opposti estremismi. Sulla dissipazione e sulla integrità. Sul potere, sulle illusioni dello spettacolo e dello star system. Sul mito, con la nostalgia per un passato assai prossimo.
La buccia di Rush è dura, come le spettacolari sequenze, talvolta cruente, dirette dall’abile e immaginifico Ron Howard, due Oscar per A Beautiful Mind, un sacco di nomination e Golden Globe, ma anche una segnalazione per la peggiore regia dell’anno (Il Codice Da Vinci)... Il nocciolo del film, o meglio della sceneggiatura, invece, è morbido: sentimenti, inquietudini, stereotipi esistenziali agitano le vite parallele ed opposte: l’ossimoro funziona sempre al cinema di Lauda ed Hunt. In fondo, è la morale di questa favola sportiva, l’uno non potrebbe fare a meno dell’altro. Più Jung che Freud: la rivalità si trasforma in una sorta di psicoterapia adrenalinica, in un gioco estremo dai confini incerti e imprevedibili.
Decisamente prevedibile, direi scontata, invece, la location dell’attesa anteprima: il Gran Premio di Monza, che si disputerà domenica 8 settembre. Trentasette anni fa su quella pista si celebrò infatti il miracoloso ritorno alle corse di Niki Lauda, quarantadue giorni dopo il terribile incidente del primo agosto 1976 sul circuito del Nurburgring, dove aveva rischiato di morire nel rogo della sua Ferrari. Fu solo un incidente di corsa o contribuì a provocarlo l’ossessionante rivalità con James Hunt, l’idolo delle folle (soprattutto femminili)?
La risposta è già nella locandina. Mostra i rivali, uno accanto all’altro. Uno biondo, l’altro bruno. Uno bello, l’altro ordinario. A sinistra, affascinante come il peccato, Chris Hemsworth, l’australiano interprete di Thore e The Avengers, è James. Biondi capelli sciolti sulle spalle, sguardo da gran seduttore, sorriso di chi sa d’essere predestinato al successo. Accanto, il mingherlino Daniel Bruhl, quello di Bastardi senza gloria. È Lauda spiccicato: meno ragnetto di come era il Niki reale, ma formidabile nel rendere credibili atteggiamenti e sfumature della sua personalità. Pure Bruhl sfoggia uno sguardo determinato, una fede incrollabile in sé stesso. Chiaro il messaggio. Non ha bisogno di apparire, sa di essere: il più bravo, il più coscienzioso, il più razionale. James Hunt è morto a 45 anni, nel 1993, consumato dai suoi eccessi. Lauda è diventato un uomo d’affari e un imprenditore dei cieli. Con un pizzico di narcisismo, ha battezzato Niki la sua compagnia aerea. Lo incontro nella sua Vienna, in una suite dell’hotel Imperial, insieme allo sceneggiatore Peter Morgan (The Queen, Frost/Nixon, Hereafter, L’ultimo re di Scozia).
Lauda, tutto vero quel che racconta Rush?
«Verissimo. A cominciare dall’atmosfera degli anni Settanta e dall’ambiente sulfureo della Formula 1 di quel periodo, con i piloti superstar attorniati da nugoli di belle ragazze, il rischio sempre in agguato, la sicurezza dei piloti ancora poco considerata...».
Che effetto le ha fatto vedere nei suoi panni l’attore tedesco Daniel Bruhl?
«Un interprete eccezionale. Incredibile. Bravissimo».
Stesso modo di piegare le labbra, stesso modo di camminare, di guardare, di essere lei...
«Tutto è cominciato due anni fa, quando Peter Morgan, lo sceneggiatore, mi chiese se ero disponibile ad aiutarlo, mi espose l’idea del soggetto, e io ho accettato, perché mi è subito piaciuta».
Quale idea?
«Raccontare la rivalità tra me e James Hunt, nell’anno del mio incidente, il 1976». Una leggenda dello sport, quella fiera e spettacolare rivalità. I due rappresentavano mondi lontano anni luce. Il capellone James era british sino al midollo, più swinging e glamorous della Londra edonista fine Sixties. Niki era invece un figlio dell’alta società austriaca, rampollo di una famiglia molto ricca e potente. Per lui era già ritagliato un ruolo di altissimo profilo sociale e finanziario, dopo l’inevitabile tirocinio nelle aziende e nelle banche di casa. Ma il giovane Lauda sentiva strettissimi quei panni di figlio di papa. Amava più di tutto l’automobilismo: cercò di non sciupare il buono della sua educazione e della cultura familiare, adattando questa mentalità al suo scopo, conoscere i segreti dei motori, accumulare esperienza agonistica e trovare i capitali necessari per correre ad alto livello. Prestiti e finanziamenti, e debiti pur di approdare in Formula 1. Il tempio dell’automobilismo viveva di memorabili duelli all’ultimo sorpasso e, talvolta, purtroppo, all’ultimo sangue, mentre molte scuderie erano ancora gestite artigianalmente. Lauda era convinto che quel mondo stava scomparendo.
«I piloti rischiavano troppo, come troppa era l’improwisazione-rispetto all’evoluzione delle vetture».
Lauda era un modello di professionalità. Un anacoreta dell’officina. Un pilota coscienzioso aveva il dovere di occuparsi minuziosamente della sua macchina, era il suo credo. Mica sesso alcol e rock and roll come quello sfrenato playboy di Hunt...
«Il suo stile di vita era diametralmente opposto al mio».
Lui uno scavezzacollo e lei un... puritano?
«Mettiamola cosi: meno istinto, più cervello. Non so dire perché, ma so che da sempre il mio sangue scorre così. Probabilmente lo devo alla buona educazione che ho ricevuto». Nel film, James è istintivo, carismatico. Mentre Niki è metodico, talentuoso. James è divertente. Niki un po’ noioso. Siete talmente diversi che non potevate non entrare in collisione, ed infatti alla prima gara in cui vi trovate uno a fianco dell’altro, finite per scontrarvi e lei ha la peggio.
«Sì, è all’inizio del film. Tutto vero».
Uhm. Pausa. Lo soccorre Morgan.
«Quando a fine gara i due si affrontano e litigano, nel film Lauda se ne va via furente e mostra il dito medio a Hunt. Non è andata proprio cosi».
«Però ci siamo mandati a quel paese», precisa il diretto interessato.
Entrambi volevate dominare. Vincere e convincere...
«Io volevo correre per il gusto di correre. E arrivare primo».
Anche Hunt James era un pilota spericolato (come la sua vita). Era molto «veloce». Fin troppo. Capace di avventurose prestazioni che entusiasmavano il pubblico ma anche di tonfi altrettanto clamorosi. Non a caso lo chiamavano Hunt The Skunt, Hunt lo Schianto. Affrontava le curve delle auto e delle donne con la stessa ammirevole incoscienza. Tutto impulso. E sregolatezza. Nei rari momenti di riflessione, l’euforia mutava in fatalismo: «Più sei vicino alla morte, più ti senti vivo» : dice all’inizio del film (voce fuoricampo).
C’è un momento, nel film di Howard, in cui lei dice ad Hunt: «Non basta essere veloci per essere un campione: devi crederci». La voglia di vincere è più forte della paura della morte?
«Vede, la mia famiglia è molto importante in Austria: ci sono banchieri, capitani d’industria. I miei non apprezzavano il fatto che corressi in auto e che fossi ritenuto un pilota molto promettente. Mio padre mi disse: basta, devi andare all’università. Non gli detti ascolto. Mi trasferii da Vienna a Salisburgo. E continuai a occuparmi di macchine e motori. Ma mi è rimasto addosso il senso buono dei principi che mi hanno trasmesso i miei genitori. L’impegno. La tenacia. La serietà. La fiducia in se stessi. Ero convinto che prima o poi sarei diventato campione del mondo, l’ho dimostrato anche senza ricorrere ai soldi di mio padre. La forza della volontà è il motore del successo».
Lauda divenne campione del mondo nel 1975. L’anno dopo stava dominando la stagione quando subì lo spaventoso incidente al Niirburgring. Tornò a correre ma si arrese all’ultimo Gran Premio, in Giappone. Pioveva troppo e decise che non valeva la pena rischiare la vita: perse il titolo per un punto. A strappargli la corona fu Hunt.
La trama del film si sviluppa dagli inizi degli anni Settanta al clamoroso ritiro di Fuji. Le vicende dei due rivali si alternano fuori della pista, si incrociano nelle gare. Lo schema rispecchia le regole dell’antagonismo che il teatro greco ha enfatizzato. Le musiche (epicheggianti) di Hans Ziromer, l’autore della colonna sonora del Gladiatore, incalzano le scene, le accompagnano, talvolta le dominano.
«Hunt e io ci siamo conosciuti a una gara di Formula 3, in Inghilterra, nel 1970. Lo trovavo simpatico, estroverso. Ma in pista eravamo rivali, senza sconti. Nel corso degli anni abbiamo imparato a rispettarci ma non siamo mai diventati veri amici».
Ron Howard ha rispettato la storia di questa rivalità?
«Sicuro. Nei limiti della trasposizione cinematografica, è stato corretto è ha ben sviluppato la trama. Che rispecchia la verità. Hunt pensava alle donne, alle feste, a godersela. Io a mezzanotte andavo a dormire perché sapevo che il mattino dopo c’erano le prove e volevo essere efficiente».
E non coi postumi di una solenne ubriacatura. O spossato da frenetiche notti di sesso: James Hunt era uno sciupafemmine, un praticante accanito dell’anticonformismo.
Niki Lauda sorride, più con gli occhi che con le labbra. È abbronzato, porta benissimo i suoi 64 anni, indossa un elegante abito estivo color sabbia, le cicatrici delle ustioni sulla tempia destra e lungo la fronte sembrano tracce di una mappa. La geografia della sfida con la morte. La sua Ferrari, dopo aver carambolato e urtato una roccia, venne investita dalla monoposto di un altro pilota. L’impatto provocò l’esplosione del serbatoio. La vettura fu immediatamente avvolta dalle fiamme. Lauda aveva perso il casco, ed era rimasto intrappolato nell’abitacolo. In qualche modo, lo tirarono fuori, ma il fuoco lo aveva orribilmente ustionato. Quando arrivò all’ospedale di Mannheim i medici disperarono di poterlo salvare. Restò tra la vita e la morte per qualche giorno. Il 5 agosto del 1976 fu dichiarato fuori pericolo.
«Si era sviluppato un calore di mille gradi. La ricostruzione di Howard è sbalorditiva. Impressionante».
Quasi feroce.
«Si, la prima volta che ho visto il film per intero mi sono imposto mentalmente di vederlo come fossi uno spettatore qualsiasi, e non il protagonista. La scena dell’incidente mi ha sconvolto. Era come è stata».
Colpiscono molto le crude sequenze della dolorosissima terapia all’ospedale di Ludwigshafen, specializzato nelle cure delle grandi ustioni: ha sopportato l’inferno, pur di riprendere a correre.
«Ho lottato contro la morte. Ho sopportato sofferenze indicibili. Desideravo solo tornare in pista. Ricominciare quello che pareva non sarei più stato capace di fare».
Durante la sua assenza, Hunt vinse e macinò punti. Fu anche la rabbia ad accelerare la convalescenza?
«Volevo tornare a vincere».
Ci prova a Monza. Si presenta con le bende in testa, il volto sfigurato. Un giornalista gli chiede se la moglie era d’accordo, dopo aver visto quelle piaghe, al suo frettoloso rientro agonistico.
«Per guidare una monoposto, non serve la faccia, serve il piede destro. Quello dell’acceleratore...».
Il regista Ron Howard rievoca lo sbalordimento generale di allora. Le bende sanguinanti. La sofferenza nel calzare il casco. L’appannamento della vista non ancora guarita. Guidare è una tortura. Ma anche in quelle condizioni disperate. Lauda manda in ansia Hunt. Il pilota britannico ha un gesto di fair play: va a salutare il rivale ferito. Gli confida di sentirsi responsabile di quel che è accaduto in Germania, al Nurburgring. Nella tempestosa riunione dei piloti che aveva preceduto la gara, Lauda aveva chiesto di annullare la corsa perché riteneva il circuito molto pericoloso. In prova, infatti, un pilota si era sfracellato e aveva perso le gambe. Hunt lo aveva accusato d’aver paura e la maggior parte dei piloti si era schierata con Hunt.
«Dissi a James che doveva sentirsi responsabile semmai del mio ritorno, perché mentre lottavo contro la morte, lo vedevo vincere approfittando della mia assenza».
A Monza Niki Lauda riesce nell’impresa di piazzarsi quarto, un risultato eccezionale, viste le sue condizioni. È stremato. Le piaghe hanno ripreso a sanguinare. La folla lo acclama. È tornato Lauda, il campione della Ferrari. Il pilota che aveva osato dire all’Ingegnere, dopo aver guidato per la prima volta una monoposto del Cavallino, «è un’auto di merda!».
«Non al Drake. Ma a suo figlio Piero. Ero arrivato a Fiorano, mi avevano dato una vettura che soffriva di un sottosterzo incredibile e non era veloce. Glielo dissi. Piero mi rimproverò: tu non puoi dire queste cose a mio padre: è Enzo Ferrari!. Così fui diplomatico: gli dissi che la macchina non andava e che, con qualche opportuna modifica, sarebbe diventata più veloce. Cominciando a cambiare le sospensioni... Ferrari ascoltò e poi mi chiese, a bruciapelo: più veloce di quanto? E io: di cinque decimi. Lui commentò: se non ce la fai, tu sei in crisi. Cioè, sei fuori... Con l’ingegnere Forghieri lavorammo sodo. Limammo i tempi non di cinque, ma di otto decimi».
Una soddisfazione immensa. Come immensa dovette essere arrivare all’ultimo Gran Premio del 1976 con tre punti di vantaggio su Hunt...
«L’incidente in Germania però aveva lasciato una traccia profonda nella mia mente. In Giappone pioveva maledettamente tanto. Speravo in un rinvio, non ci fu. Il tempo continuava a essere infame. Corro, ma il rischio è troppo alto. Nelle mie condizioni, un suicidio. Mi ritiro».
La scuderia è sgomenta. Lauda ha gettato al vento il titolo, non l’ha difeso. Il team vuole attribuire il ritiro a un guasto. Lauda si oppone.
Rimpianti?
«No».
Anche nel film, dice lo stesso. Ma allora nessuno glielo chiese.
«Una piccola licenza creativa», bisognava chiudere il film» spiega Peter Morgan.
Per la cronaca. Lauda tornò campione del mondo altre due volte: l’anno successivo, nel 1977, e nel 1984.