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 2013  luglio 25 Giovedì calendario

I MISTERI DI MUSSOLINI ORMAI RASSEGNATO ALLA FINE DEL FASCISMO

La sala nella quale, poco dopo le 17 del 24 luglio 1943, ebbe inizio l’ulti­ma riunione del Gran Consiglio del Fascismo dal 1939 non veniva più usata se non co­me stanza dove si sostava prima di essere ricevuti da Benito Mus­solini nella sala del Mappamon­do. Quel pomeriggio, predispo­sta per una riunione destinata a passare alla storia, essa non ave­va acquistato nulla in solennità: era male arredata con un tavolo in legno compensato a ferro di ca­vallo e sedi­e di brutta fattura di sti­le cinquecentesco. Al centro il ta­volo del Duce, più alto e coperto, davanti, da un drappo di velluto grigio azzurro. I membri presen­ti erano ventotto e si accomoda­rono quattordici per lato. Ha rac­contato uno di essi, Alberto De Stefani in un memoriale scritto a caldo e ora ritrovato e pubblicato con il titolo Gran Consiglio, ulti­ma seduta (Le Lettere, Firenze) che nel fatidico pomeriggio del 24 luglio, entrando in quel luogo «da quattro anni senza voce», si percepiva in tutti «un’angoscia opprimente e negli occhi di talu­no l­a trepidazione dell’impreve­dibile». C’erano, insomma, agitazione e preoccupazione: «Ci sen­tivamo sperduti, eppure domina­ti da una necessità imperiosa, più forte di noi, che non si sapeva da dove venisse».
La convocazione del Gran Consiglio era giunta a sorpresa, perché non si credeva che Mus­solini avrebbe acceduto alla ri­chiesta. Qualche mese prima, un senatore, Ettore Rotigliano, aveva promosso una raccolta di firme per ottenere che venisse convocata una «seduta segreta» del Senato nella quale il Capo del Governo avrebbe dovuto riferire sulla situazione militare e politi­ca, ma l’iniziativa non aveva avu­to seguito, bloccata proprio da Mussolini. Adesso, invece, il Du­ce aveva accettato che venisse riunito il supremo organo del re­gime. Perché? È il primo dei tanti misteri che circondano lo svilup­parsi della vicenda che avrebbe messo la pietra tombale sul regi­me. Mussolini era al corrente dei maneggi di Grandi, allora presi­dente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e, probabil­mente, anche delle manovre che, a diversi livelli, coinvolgeva­no la Corona, settori delle forze armate e ambienti dell’antifascismo e che trovavano alimento nella disastrosa situazione mili­tare degli ultimi mesi. A ridosso della riunione, il 22 luglio, anzi, egli aveva persino visto in anteprima, una bozza, presentatagli dallo stesso Grandi, dell’ordine del giorno che questi avrebbe vo­luto mettere in votazione. Non è da escludere che Mussolini fosse convinto di poter mettere i gerar­chi dissidenti con le spalle al mu­ro coinvolgendoli nelle respon­sabilità della guerra e che, dopo tutto, ritenesse utile restituire al Re il supremo comando militare per scaricare su di lui il peso dei disastri militari. In realtà, però, l’ordine del giorno Grandi era as­sai più dirompente proprio per il fatto di essere dibattuto in un or­gano che, pur non essendo il Par­lamento, ne era diventato di fatto un surrogato: finiva per essere una mozione di sfiducia nei con­fronti del Capo del Governo. Mussolini non se ne rese conto e non se ne resero conto neppure, con molta probabilità, molti di coloro che lo avevano sottoscritto. Esso offriva a Vittorio Ema­nuele III quel «pretesto costitu­zionale» che egli, con la sua pe­danteria legalitaria, andava cer­cando da tempo. Il Re era ormai convinto della necessità di liqui­dare Mussolini. Questa idea era maturata dopo lo storico incon­tro di Feltre tra Mussolini e Hitler il 19 luglio 1943, ma era in gesta­zione da tempo, alimentata dai suggerimenti e dagli incontri con uomini politici della vecchia politica prefascista, da Vittorio Emanuele Orlando a Marcello Soleri fino a Ivanoe Bonomi, dal­le pressioni di alcuni ambienti militari e dalle vellutate allusioni e dagli intrighi del ministro della Real Casa,il duca Pietro d’Acquarone. Proprio alla vigilia dell’in­gresso dell’Italia in guerra, nel 1940, Vittorio Emanuele III ave­va cercato, invano, grazie ai buo­ni uffici dello stesso d’Acquaro­ne, di convincere Galeazzo Cia­no a favorire il trapasso dei poteri attraverso una «soluzione morbi­da», che allora egli riteneva fosse accettabile anche dallo stesso Mussolini, fondata su una convo­cazione del Gran Consiglio che mettesse in minoranza il Duce.
Il comportamento del Re nei confronti di Grandi, alla vigilia del 25 luglio, fu cauto ma coeren­te. Negli incontri che ebbe con lui insistette sempre sulla neces­sità del «pretesto costituzionale» per poter intervenire e lo esortò ad «aver fiducia» nel suo sovra­no. Grandi ne ricavò l’impressio­ne di aver ottenuto «mano libe­ra» per portare avanti il suo progetto che prevedeva non solo il ri­torno allo Statuto e la fine della dittatura, ma anche la formazio­ne di un governo presieduto da Caviglia con elementi tecnici e l’uscita immediata dell’Italia dal conflitto e l’apertura delle ostili­tà contro la Germania.
La seduta del Gran Consiglio durò a lungo - dalle 17 alle 2,30 cir­ca del mattino successivo con una breve interruzione verso la mezzanotte ed ebbe momenti di tensione testimoniati dai ricordi dei protagonisti. Un verbale ne fu steso, il giorno dopo, presenti molti di coloro che approvarono l’o.d.g.Grandi,a casa di Federzo­ni ed è riportato in appendice al volume dello stesso Federzoni, Memorie di un condannato a morte (Le Lettere), scritto nel pe­riodo della clandestinità dell’au­tore. Mussolini apparve, di volta in volta, battagliero o rassegna­to. Avrebbe potuto contestare la «legittimità» della delibera del Gran Consiglio in questa mate­ria, ma non lo fece. Si limitò a di­re, al termine, che quella riunio­ne aveva segnato la fine del regime. Perché? Un mistero, forse spiegabile con la convinzione che il Re lo avrebbe appoggiato o che si sarebbe limitato ad accetta­re il coma­ndo supremo delle forze armate lasciandolo al suo po­sto. Le cose non andarono così. Il Re lo fece arrestare. E fu, davve­ro, la fine del fascismo.