Tiziana Lo Porto, il Venerdì 26/7/2013, 26 luglio 2013
DA UOMO IN BILICO A MAESTRO DI NODI, NON HO PERSO IL FILO
[Philippe Petit]
Si definisce un uomo delle corde e un figlio degli alberi. Alle spalle ha una carriera fatta di leggendarie traversate aeree compiute tutte quante a piedi, procedendo con talento, eleganza ed equilibro su una corda. Philippe Petit deve la propria celebrità a se stesso e alla ferma volontà di diventare quello che è. Nasce in Francia nel 1949 e già a sei anni si diletta con i giochi di magia. A dodici impara a fare il giocoliere e subito dopo il funambolo. A sedici anni è stato cacciato da nove scuole e da solo si mette a viaggiare per il mondo esibendosi come artista di strada ovunque e per chiunque. A diciotto decide di camminare tra le Torri Gemelle. A ventiquattro lo fa. Il 7 agosto del 1974 Philippe Petit, destinato a diventare il funambolo più celebre al mondo, attraversa più volte su una corda e per ben quarantacinque minuti di fila lo spazio tra le due Torri Gemelle. Le immagini di quella traversata percorrono lo spazio e il tempo, conquistando nel 2008 un Oscar insieme al film di James Marsh Man on Wire (Feltrinelli Real Cinema) tratto dal libro Toccare le nuvole (Ponte alle Grazie) in cui in prima persona Petit di quell’eroica impresa raccontava accuratamente la storia. Negli anni, oltre a traversare gli spazi, ha imparato a praticare l’arte dello scasso, a conoscere i vini francesi, gli scacchi e la tecnica settecentesca della carpenteria in legno. Abita tra Catskills, in una casa bellissima che si chiama Cable House, e New York, dove da anni è artista residente nella Cattedrale di Saint John the Divine. Nel tempo libero scrive e disegna.
Di libri, ad oggi, Philippe Petit ne ha scritti nove, a cominciare da quel preziosissimo Trattato di funambolismo (sempre Ponte alle Grazie, con prefazione di Paul Auster e una nota di Werner Herzog) in cui illuminato scriveva: «Siete funamboli, non dovete restare a lungo senza le grandi altezze». E poi, illuminante: «Non dovete cadere». L’ultimo libro si chiama Why Knot? How to Tie More Than Sixty Ingenious, Useful, Beautiful, Lifesaving, and Secure Knots! (Abrams Image), è uscito pochi mesi fa in America ed è un incrocio tra un manuale, un memoir e un libro disegnato. Piccolo e quadrato, con una tasca in copertina che racchiude un cordino rosso (per il lettore, perché impari anche lui a fare i nodi), in duecentocinquanta pagine in parte scritte e in parte illustrate, Petit spiega le ragioni del proprio attaccamento (a tratti si direbbe anche sentimentale) ai nodi, per poi raccontare con parole, bellissimi disegni e aneddoti i nodi per lui fondamentali. «Una raccolta originale e molto personale», la definisce, non completa ma selettiva. «Più nodi ho imparato a fare più sono diventato selettivo», dice a un certo punto del libro, insistendo soprattutto sulla necessità di semplicità ed eleganza. Nel fare i nodi come in ogni altra cosa della vita.
Lei ci tiene proprio a che tutto sia semplice ed elegante. Due caratteristiche che sembrano appartenere più al secolo scorso che a questo mondo contemporaneo...
«Ha perfettamente ragione. Il mondo diventa sempre più complicato, e spesso senza che ce ne sia la necessità. Finisci per rimpiangere la semplicità di quando a svegliarci era il sorgere del sole e al tramonto si sapeva che era l’ora di andare a dormire. La gente si ostina a manipolare la natura, a trasformarla in qualcosa di altro perdendo di vista semplicità ed eleganza».
Perché sono così importanti per lei?
«Sono importanti, e non soltanto per me, ma perché servono a risolvere i problemi. Mi piacerebbe un giorno essere nominato ambasciatore della semplicità e dell’eleganza».
Da anni ha lasciato l’Europa per gli Stati Uniti. Trova che siano più semplici ed eleganti?
«Probabilmente no. Probabilmente in Europa c’è più ingenuità e semplicità, ma l’andare in direzione contraria, verso la complessità, temo sia una cosa universale. Forse l’unica oasi dove ancora sopravvivono eleganza e semplicità è l’arte. Nell’arte, o nel design, è più facile distinguere tra ciò che è semplice ed elegante e ciò che non lo è».
Perché allora ha deciso di vivere in America?
«Non è stata una scelta. Dopo la traversata delle Twin Towers mi sono arrivate proposte su proposte di libri, altre traversate, film. Tutte dall’America. E così ho finito per stare più tempo qua che altrove. Ma ammetto che la Francia non mi manca affatto. Mi mancano gli amici che sono lì, ma non la Francia. Di fatto sono un viaggiatore, mi mancano più i posti che non conosco o dove sto solo di passaggio, l’Australia, l’Asia...»
Essere di passaggio sembra essere una delle cose che la definisce.
«Sì, ma non del tutto. Essere di passaggio da un progetto all’altro, per esempio, quando non sai bene cosa comincerai, è una cosa che detesto. Per me quei momenti è come se non esistessero. E anche nei viaggi, il mio unico obiettivo è arrivare da qualche parte, non è stare a metà che mi piace».
Adesso a che cosa lavora?
«Al mio decimo libro che è sulla creatività, il titolo è Creativity: The Perfect Crime. E poi a un one man show, ad altri film, a una traversata che farò sull’Isola di Pasqua e a un’altra che farò a Bryant Park, dal parco all’edificio della New York Public Library, per portare la gente dentro la biblioteca e in mezzo ai libri».
Quanto tempo le occorre per preparare una traversata?
Dipende. Non è la stessa cosa fare una traversata tra due montagne o tra due edifici, e anche se sono sempre due edifici non è mai la stessa cosa. Dipende se è un teatro dell’opera o una chiesa. Mi piace relazionarmi con l’edificio che ho davanti, costruire intorno un contesto, raccontarne in qualche modo la storia».
Come si prepara?
«Anche lì, non sempre allo stesso modo. Faccio sempre tre ore al giorno di allenamento fisico, di camminate sul filo, ma questo indipendentemente dal fatto che stia preparando una traversata. È l’unica costante delle mie giornate».
Disegna spesso?
«Sì, ho iniziato a disegnare a sei anni e ho avuto la fortuna di studiare disegno per dieci anni in un’ottima scuola. Ho imparato moltissimo da bambino, e soprattutto ho preso l’abitudine di viaggiare portandomi dietro matita e taccuino. Quando viaggio disegno sempre. E anche per scrivere Why Knots? ho passato le giornate a disegnare».
Più complicato disegnarlo che scriverlo?
«Disegnarlo è stata la sfida più grossa. E la complicazione sta nel dovere raccontare ogni nodo passo per passo scrivendo e disegnando. Se devi insegnare a qualcuno come si fa a fare un nodo di solito glielo fai vedere, fai tu il nodo e l’altro ti imita. Così invece devi scomporre in tanti piccoli gesti quello che hai sempre considerato un unico gesto».
Anche la preparazione alle sue traversate è una cosa che disegna sempre?
«Sì, lì disegno tutto. Disegno i punti di ancoraggio. Disegno l’attrezzatura di cui avrò bisogno. Disegno per gli ingegneri gli architetti che lavorano per me. Se bisogna fabbricare qualcosa ex novo sono io a fare disegni per chi poi la fabbricherà. Disegnare mi serve a capire».
Ci sono nodi che ha imparato in mare?
«No, amo il mare ma non lo frequento moltissimo. Ne ho un immenso rispetto ma confesso che mi ha sempre messo paura. Mi capita di andare in barca con amici ma sempre con questa paura costante».
Cosa le mette paura del mare?
«L’immensità. E il fatto di non sapere nuotare bene. E poi quando non tocco coi piedi ho paura».
In una conversazione con Werner Herzog ha detto che il cinema è un media menzognero, che la verità di fatto merita più della pura registrazione dei fatti. Con i libri è diverso?
«No, anche se dipende sempre da come fai le cose. Scrivere un libro è come dirigere un film. Devi avere un tuo punto di vista, devi lavorare con un’altra persona, editor o montatore che sia, e sei esposto alle critiche. Quanto il risultato sia menzognero è da te che dipende».
Non ha mai pensato di dirigere un film?
«Sì, mi piacerebbe moltissimo».
E non ha mai diretto niente?
«Sì, ma solo per il teatro, e sempre piccole produzioni per studenti nelle scuole di teatro».
Passa molto tempo a leggere?
«No. Leggo ma non sempre. Anche con la lettura evito l’abitudine, e se leggo un libro è solo perché è uno di quelli che non riesci a mollare».
Per esempio?
«Mi piacciono molto i libri che parlano del linguaggio, e uno dei miei più amati è The Elements of Style di William Strunk Jr. E di recente ho letto un libro bellissimo che si chiama 102 minuti e racconta dettagliatamente i 102 minuti trascorsi dall’attacco alle Torri Gemelle al crollo della seconda torre».
Lei probabilmente è l’unica persona a cui le Torri Gemelle mancano come fossero persone...
«Sì, ha ragione, e questo perché credo di essere il solo ad averle amate come persone. Ne ero totalmente innamorato. Ho passato anni a preparare quella traversata e alla fine le conoscevo così bene che per me erano come persone di famiglia. E adesso mi mancano».
Non ha pensato di tornare a scriverne?
«No, non credo che la mancanza che ho delle Torri importi davvero a qualcuno. La cosa più interessante che avevo da dire sull’argomento era come ho preparato e fatto la traversata, e l’ho detto in Toccare le nuvole. La mia storia con le Torri Gemelle è tutta lì».
Tiziana Lo Porto