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 2013  luglio 26 Venerdì calendario

IL PRIMO SAFARI A 18 MESI. COSÌ L’AFRICA MI È ENTRATA NELLE VENE E NELLA PENNA


Il battito dei tamburi nel cuore della notte.
È questo il mio primissimo ricordo dell’Africa, quel ritmo incessante che mi accompagnava verso il sonno, quando ero coricato e protetto dalla zanzariera.
Ricordo anche quando viaggiavo con mia madre e mio padre, durante la notte: la mia brandina era sul pavimento dell’auto, davanti al sedile anteriore, e attraverso il parabrezza vedevo gli alberi scorrere sopra la mia testa e immaginavo che le forme degli alberi fossero animali bizzarri di ogni genere. Ricordo anche quando seguivo mio padre nel bush, imparando a leggere le tracce lasciate dalle fiere e a riconoscere le piante, e di tanto in tanto andavo a curiosare nei nidi degli uccelli, per vedere le uova.
Il mio primo safari risale a quando avevo diciotto mesi. Un portatore africano mi trasportava in una cesta arancione sulla sua testa, mia madre camminava dietro di lui e mio padre faceva strada. Avevo diciotto mesi e ovviamente non sapevo ancora sparare con un fucile di grosso calibro…
Mio padre non era nato in Africa, vi si era trasferito quando era ancora giovane, ma considerava il continente africano alla stregua della sua terra d’origine. Soltanto di quando in quando faceva ritorno in Inghilterra per far visita ai suoi genitori. Nutriva un grande amore per l’Africa e i suoi abitanti, parlava almeno quattro diverse lingue tribali africane, conosceva a fondo la natura e la fauna. L’inglese si parlava di meno. C’era una sorta di lingua franca, molto rudimentale, composta da qualche centinaio di parole soltanto: non consentiva di esprimere molto le emozioni o descrivere le cose in modo preciso. Parlare le lingue del posto era sicuramente un vantaggio, perché permetteva di guadagnarsi un maggiore rispetto da parte dei locali. Avere la possibilità di conversare nella loro lingua aiutava a vincere le diffidenze. Io purtroppo non ho mai avuto l’opportunità di imparare le lingue africane con la competenza di mio padre, perché ero sempre lontano da casa, frequentavo un collegio. Poi sono andato all’università e non sono più tornato al ranch. Parlavo soprattutto la lingua franca, che si chiamava fanagalo.
Mio padre era un amante della vita all’aperto e l’Africa era il luogo ideale per lui. Per questo vi aveva costruito un ranch, e lì aveva allevato la sua famiglia. Il ranch di famiglia oggi è proprietà del governo, che l’ha trasformato in una piantagione di canna da zucchero. Ci sono tornato molti anni fa, ma non sono riuscito neppure a trovare il luogo esatto dove sorgeva, perché la casa non c’è più e l’area è ormai coperta da centinaia e centinaia di acri di piantagione. Comunque di quando in quando ritorno in Zambia, per pescare il pesce tigre nel fiume Zambesi, e mi piace andare a osservare la fauna selvatica nella valle del Luangwa. E ogni volta che vi faccio ritorno, con gli occhi della mente rivedo i paesaggi della mia infanzia.
Quando ero bambino, non c’erano strade asfaltate in Africa. C’erano soltanto viottoli angusti sterrati e dissestati. Le auto sollevavano molta polvere, tanto che il loro arrivo era annunciato quando erano ancora a miglia di distanza. Molte persone morivano in incidenti causati dalla scarsa visibilità, disorientati dalle nuvole di polvere sollevate dagli altri veicoli. Su parecchi fiumi non c’erano ponti, e allora bisognava caricare le auto su piccole chiatte e i rematori ti trasportavano fino all’altra sponda. L’Africa della mia infanzia era molto arretrata. Non c’erano compagnie aeree commerciali. Per poter percorrere lunghe distanze bisognava avere un aereo privato, come mio padre, oppure noleggiare un volo charter. Ci si spostava principalmente in auto, su quelle piste quasi impercorribili, o in treno. Per esempio, ricordo che per tornare al ranch di mio padre dalla scuola, alla fine dell’anno scolastico, ci volevano 3 o 4 giorni. La scuola non era in Zambia, mi avevano iscritto in una scuola in Sudafrica perché non c’erano strutture adeguate nei dintorni del ranch di Mazabuka, dove vivevamo. Quindi trascorrevo molto tempo lontano da casa, fino alla conclusione dell’anno scolastico. A quel punto, però, tornavo a immergermi nella “mia” Africa.
In Africa tuttavia, non è stata la scuola a darmi gli insegnamenti fondamentali. Se dovessi dire chi è l’uomo africano da cui ho imparato di più, non avrei dubbi: Peter, il braccio destro di mio padre. Parlava bene l’inglese, ma naturalmente parlava anche le lingue africane, e mio padre contava molto su di lui per la gestione della fattoria e delle sue attività. È stato Peter, dopo mio padre, colui che mi ha insegnato di più sull’Africa, sugli usi e costumi locali. La cosa particolare di lui era che non era affatto bravo a raccontare storie: si atteneva rigorosamente ai fatti. Erano mio padre e mio nonno quelli che sapevano raccontare belle storie e nutrivano la mia fantasia. Purtroppo, però, non vedevo spesso mio nonno, perché viveva a diverse centinaia di miglia di distanza. Andavamo a trovarlo con tutta la famiglia due o tre volte all’anno. Viveva completamente da solo dalla scomparsa di sua moglie. Era un lupo solitario, ma anche un uomo molto interessante e divertente.

L’isola che non c’è più. È passato molto tempo, e oggi vivo dividendomi equamente tra Europa e Africa, dove abbiamo una casa. Un tempo possedevo fattorie e anche un’isola corallina nell’Oceano Indiano, ora non più. Oggi abbiamo una bella residenza a Città del Capo, in Sudafrica. E abbiamo un’altra bella casa a Londra, ma ormai ci vogliono meno di dodici ore di viaggio per spostarsi da Londra a Città del Capo. Prendiamo l’aereo a Heathrow e il nostro amministratore ci viene a prendere all’aeroporto di Città del Capo con la mia auto. Quando arriviamo a casa è già tutto pronto, il frigorifero è pieno, i letti sono rifatti e c’è un bagno caldo ad aspettarci. Non è il modo in cui viaggiavano i miei genitori, ma è così che piace a me. Viviamo tra questi due mondi, nei quali ci troviamo molto a nostro agio e siamo molto felici.
Ammetto che all’inizio è stato un po’ uno shock per mia moglie, Niso, ambientarsi in Africa. Lei viene dall’Asia centrale, da una zona che un tempo era sulla via della seta persiana, quindi l’Africa è un ambiente molto diverso da quello cui era abituata. Ma si è ambientata molto presto e oggi le piace molto. Quando sono in Africa, mi mancano la raffinatezza e la sicurezza dell’Europa. A Londra, mia moglie ed io possiamo passeggiare tranquillamente per le strade alla sera senza temere per la nostra incolumità. In Africa non è più così, le cose sono cambiate e dobbiamo essere prudenti. Ci sono certe zone di Città del Capo in cui non è consigliabile muoversi, specialmente di sera.
Ma quando sono a Londra o in Italia, mi mancano i volti sorridenti degli africani, un popolo cui sono molto affezionato. In particolare, sento la mancanza dei bambini africani, il modo in cui ti circondano quando cammini per le strade in Zambia, i loro volti sono sempre molto cordiali e adorabili.
Gli africani, rispetto agli europei, sono più estroversi. Ti avvicinano e ti parlano con grande facilità. Se esci dalle zone urbane, appena parcheggi l’auto ti ritrovi circondato da una mezza dozzina di bambini che chiacchierano con te, a volte cercando di venderti qualcosa.

Un amore bestiale. Vado in safari due o tre volte all’anno, ma non caccio più. Ormai mi sono reso conto che i bufali e gli elefanti corrono molto più svelti di me! Perciò li rispetto e li lascio in pace.
Ma se c’è una cosa che ho imparato, è che, se non stai attento e non sai come comportarti, quasi tutti gli animali sono pericolosi. Quelli che fanno più vittime sono le zanzare, che diffondono la malaria, e le mosche tse-tse, che trasmettono la malattia del sonno. Chi si avventura nel veldt deve essere preparato e in grado di riconoscere il pericolo prima ancora di trovarselo davanti.
È proprio la ricchezza della fauna africana a distinguere l’Africa da tutti gli altri continenti, che ormai sono quasi completamente privi di animali selvatici. La fauna selvatica africana, invece, è stata in gran parte preservata, a vantaggio dell’intero continente e di tutta l’umanità. Molte tribù di aree remote devono la loro prosperità proprio a questi animali, che rappresentano un’attrazione per i turisti. Così gli africani hanno imparato a rispettarli e a proteggerli. Mentre un tempo ritenevano che, in particolare i predatori, fossero un pericolo e un fastidio, perché divoravano i loro raccolti o le capre e il bestiame, oggi hanno riconosciuto il valore di questi animali.In particolare i più spettacolari, i cosiddetti big five: leoni, leopardi, bufali, elefanti e rinoceronti.
Quelli che ammiro di più sono gli elefanti. Li apprezzo in particolare per la loro capacità di amarsi reciprocamente. Sono capaci di creare legami importanti come gli esseri umani, mostrano devozione reciproca e fedeltà e anche una struttura sociale simile alla nostra: le femmine anziane, per esempio, si occupano dei piccoli del branco.
Le tribù africane adorano la carne di elefante, mentre per me è molto fibrosa, dura. La mia parte preferita è la proboscide, cucinata in un forno di terra. Quando viene ucciso un elefante in una delle aree destinate alla caccia, nel giro di un paio d’ore accorrono centinaia di persone della zona, per macellare l’animale e cucinarne la carne.
L’animale che temo di più? Quello che in quel momento mi sta inseguendo! Mio nonno diceva che l’animale più pericoloso è quello che ti uccide. Insomma, tutti possono essere parecchio pericolosi, sono pienamente capaci di ammazzarti e se ne hanno l’opportunità lo fanno senz’altro.

Lo stato originario. L’Africa è la mia terra, sono nato lì, prima dei trent’anni non ero mai uscito dal continente. Quella terra è radicata profondamente nel mio cuore e nella mia anima, ma naturalmente il mio sangue britannico mi lega anche all’Europa, che fa parte di me a sua volta. Sono felice in entrambi i continenti. Ora, dopo tutti i miei viaggi, le mie esperienze, dopo aver incontrato così tante persone e fatto così tante cose interessanti, naturalmente i miei romanzi sono ambientati sia in Europa sia in Africa. Ma è come se esistesse una sorta di cordone ombelicale che mi lega all’Africa, e io lo riconosco e ne vado orgoglioso.
Tutti i miei libri sono ambientati in gran parte o interamente in Africa, dai tempi moderni fino a ritornare alle prime incursioni degli europei dall’emisfero settentrionale. Non solo la mia esperienza personale dell’Africa è una fonte di ispirazione costante per me, ma anche gli scritti di altri autori, esploratori e viaggiatori che dal Nord sono giunti nel continente nero negli ultimi duecento anni e hanno conosciuto l’Africa allo stato per così dire originario. Ho un’enorme collezione di libri sull’Africa e anche in questo momento se mi guardo attorno vedo i nomi degli autori che hanno accresciuto le mie conoscenze sull’Africa. Il principale, quello di cui ho letto tutte le opere e che mi ha sempre affascinato è Frederick Courteney Selous. Altri sono Sir Samuel Baker, Edward Paice, David Livingstone, Sir Henry Johnston, ho diverse centinaia di libri nella mia collezione sull’Africa.
Le immagini dell’Africa nei miei libri sono molto chiare perché sono ambienti che ho visto in gran parte con i miei occhi. Il senso dell’avventura è sicuramente una componente importante della mia scrittura, perché ogni volta che vado a fare un safari vivo una vera avventura e ho trascorso centinaia di giornate nel bush africano, andando a caccia o a pesca, o semplicemente esplorando e imparando a conoscere quel continente. L’Africa è un’inesauribile fonte d’ispirazione per la mia scrittura, per i romanzi che ho scritto negli ultimi cinquant’anni. Ma non è soltanto una questione individuale, legata alla mia biografia. C’è di più. L’Africa è il luogo in cui è nata l’umanità. È lì che i nostri antenati hanno assunto per la prima volta la postura eretta, nella Rift Valley, nel Nord-Est del continente. È lì che i precursori della razza umana si sono evoluti fino a diventare le creature senzienti che siamo oggi.
Gli antichi egizi furono i primi a utilizzare la scrittura e la lingua in maniera organizzata, furono i primi a creare edifici grandiosi, lasciando testimonianze durature della loro storia, affinché i posteri potessero apprezzare le loro conquiste e imparare da loro. Ho sempre ammirato molto la cultura egiziana. Più o meno quando sono nato, Carter scoprì la tomba di Tutankhamon, nella Valle dei Re. Fu un evento sensazionale. Tutte le riviste e i giornali pubblicarono foto dei tesori ritrovati nella tomba, mia madre e mio padre, come tutti, rimasero entusiasti alla vista dello splendore degli oggetti ritrovati nella tomba. Se ne parlava molto nella nostra famiglia, tanto che è diventato un ricordo indelebile, che mi ha accompagnato sempre, finché non ho avuto l’occasione di andare in Egitto da solo per la prima volta. In seguito, ogni volta che mi spostavo dall’Africa all’Europa, passavo per l’Egitto, in modo da poter riscoprire ed esplorare la cultura degli antichi egizi.
Il faraone che mi ha ispirato maggiormente è Ramesse II, fu lui il più grande faraone. Non costruì le piramidi, ma fece costruire i templi lungo il Nilo, come quelli di Luxor e Avaris. Gli antichi egizi erano un popolo straordinario. Mi sono divertito molto nel ricreare quell’epoca e quel popolo nella mia serie di libri dedicati a Taita.

L’Africa di cui vi innamorerete (se non lo siete già). Spero di aver instillato in voi, con queste poche righe e con i miei romanzi, la stessa voglia di Africa che io continuo a sentire. Certo, l’Africa di oggi è molto diversa da com’era quando ero bambino. Allora dovevamo essere totalmente autosufficienti. Viaggiare negli Anni 30 e 40 era molto più difficile. Le auto dell’epoca non erano affidabili come oggi. In particolare, gli pneumatici scoppiavano più facilmente. Ho ancora foto dell’auto di mio padre con una pigna di ruote di scorta sul tetto. Ogni cinquanta miglia ci si ritrovava con una gomma a terra. Inoltre le cure mediche non erano al livello che hanno raggiunto oggi, bisognava viaggiare con chinino e altri farmaci antimalarici al seguito. Il rischio di contrarre la malattia del sonno dalla mosca tse-tse era molto alto. Bisognava avere con sé tutte le provviste necessarie, tende, sacchi a pelo e ogni altra cosa potesse servire. Ogni safari era un’impresa parecchio elaborata. Mio padre aveva tre autocarri da cinque tonnellate, che trasportavano tutte le nostre attrezzature da campeggio e avevamo una squadra di venti o trenta africani con noi. Oggi il turismo è un grande affare in Africa. Si può viaggiare con tutti i confort, a seconda di quanto si è disposti a spendere. Le agenzie organizzano tutto, dai veicoli a quattro ruote motrici, al vino e ai musicisti africani che t’intrattengono durante la cena, alle guide, neri e bianchi, tutti molto esperti. I tour operator forniscono tutte le informazioni necessarie su ciò che conviene portare con sé e così via. È difficile dare consigli in generale per un viaggio in Africa, perché è un continente molto vario, con aree molto diverse l’una dall’altra. Il momento migliore, comunque, è l’inverno africano, cioè quando in Europa è estate. Questo perché l’estate africana, in particolare nell’entroterra, è molto calda. Piove molto e le strade sono in pessime condizioni, piene di fango.
Non raccomanderei a nessuno viaggi fai da te in Africa. È meglio affidarsi a una buona agenzia, che provvederà a tutte le esigenze e garantirà una vacanza confortevole e gradevole. In quanto al cibo, in genere non si deve mangiare ciò che viene offerto sul ciglio della strada dagli abitanti del luogo, meglio affidarsi ai cuochi ingaggiati dai tour operator.
Oggi un viaggio in Africa può essere una vacanza fantastica, con spostamenti in aereo, nelle zone dedicate ai safari, e fuoristrada a quattro ruote motrici. L’unica cosa di cui preoccuparsi è che è facile farci l’abitudine e una volta che ci si è stati è inevitabile voler ritornare.
Ci sono agenzie che organizzano viaggi via terra. Così i viaggiatori possono partire da Milano o Roma, per poi raggiungere l’Egitto, quindi il Sudan, il Kenya, la Tanzania, fino ad arrivare a Città del Capo. Si chiama “Cape to Cairo”. Penso che sia per i giovani, per chi ha vent’anni o poco più, perché sono sistemazioni di fortuna. Si porta la propria tenda e ci sono magari una o due persone ad aiutare, ma non ha niente a che vedere con i gradevoli safari organizzati da compagnie come Abercrombie & Kent, una delle agenzie di punta in Africa. Conosco un sacco di giovani di vent’anni o meno che prendono una vecchia macchina scassata, la sistemano e partono, ma le storie che raccontano al loro ritorno fanno rizzare i capelli e io non vorrei mai vivere esperienze simili!

Consigli di viaggio. Ho infine dei consigli personali da rivolgere ai lettori di Sette che non siano mai stati in Africa ma che intendano andarci. Ci sono tre cose da fare: guardare, ascoltare e imparare. Ogni zona offre qualcosa di diverso, a partire dalle popolazioni tribali: i boscimani sono diversi dai watussi, gli swahili dagli zulu. Il territorio va dalle zone montuose, dalle nevi perenni del Monte Kenya o del Kilimangiaro, alle foreste tropicali, dai deserti alle spiagge coralline dell’Oceano Indiano e dell’Atlantico. La cosa importante è mantenere la mente aperta. C’è così tanto da imparare, così tanto da vedere!
Vorrei concludere parlando non più dell’Africa, ma dell’Italia. Io mi sento particolarmente legato anche al vostro Pae-se: da anni, i lettori e le lettrici di tutto il vostro Paese mi accolgono nei loro cuori e io sono molto affezionato a loro. Io e mia moglie passiamo molto tempo in Italia, spesso a Milano, perché è lì che ha sede la casa editrice che pubblica i miei romanzi. Anzi, proprio a Milano ho spesso lanciato i miei romanzi in anteprima mondiale. Ma viaggiamo anche molto in altre parti del Paese. Abbiamo molti amici che rivediamo volentieri e ci troviamo sempre molto bene. Se c’è una cosa che Italia e Africa hanno in comune, per me, è che entrambe mi lasciano sempre bellissimi ricordi.
Wilbur Smith
Traduzione di Paolo Scopacasa