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 2013  luglio 26 Venerdì calendario

BRUNETTA UNCHAINED


VENEZIA. Brunetta unchained. L’ex cacciatore di fannulloni alza il tiro. Da Montecitorio con furore, come in una sessione dello «sparatutto» Call of Duty. I presidenti di Camera e Senato Laura Boldrini e Piero Grasso? «Ostaggi di minoranze estremistiche». I giornalisti del Tg3? «Khmer rossi». Le finanze pubbliche? «Il loro stato è segreto come la ricetta della Coca-Cola». Il filosofo Massimo Cacciari? «Porta sfiga». Il nuovo che avanza del Pd Matteo Renzi? «Un trombone, in politica da 22 anni. Se fosse coerente si rottamerebbe da sé». Neppure i suoi risparmia, a partire dall’inarrestabile Daniela Santanché: «Non le ho tirato una sedia in faccia solo perché è una signora» è la chiosa al termine di uno scambio di opinioni. O, più, in generale: «Sotto il Botox, il nulla». L’estate calda del capogruppo del Pdl alla Camera, che avevamo lasciato ministro alla Pubblica amministrazione, è appena iniziata ed è già allarme incendi. Al punto che in molti si interrogano sul senso di aver dato a un uomo dal temperamento tanto fumantino il delicato ruolo di coordinatore di un partito già in preda a violente spinte centrifughe. Che è un po’ come mandare Mike Tyson a sedare una rissa. Sullo sfondo una domanda che galleggia inevasa da alcune legislature: l’economista veneziano è un natural born killer cui viene più semplice ficcare due dita negli occhi dell’avversario che stringergli la mano o, come sostengono persone che lo frequentano, un cucciolone gentilissimo in privato che in pubblico si adatta alle leggi della politica-spettacolo? Insomma, l’attaccabrighe in servizio permanente effettivo Brunetta c’è o ci fa?
Per cercare di capirlo siamo risaliti alle radici. Venezia, sestiere di Cannaregio, a duecento metri dalla stazione di Santa Lucia, dove la sua famiglia aveva una bancarella di «specialità veneziane». La storia, d’ambientazione dickensiana, è piuttosto nota. Bruno, il patriarca, comincia vendendo e riparando stilografiche nel dopoguerra, per poi passare a biro, guide della città e gondoete di plastica, quando, a partire dagli anni 60, cominciano ad arrivare i turisti. A dargli una mano i tre figli Piergiovanni, Vito e Renato, cui però piace soprattutto studiare. Dei Sabbioni, lo slargo dove ancora oggi si trovano dodici bancarelle, per oltre metà in mano ai cingalesi, Bruno era il «Capitano», l’autorità informale riconosciuta dagli altri commercianti. Il quarantenne Pitteri, che ha ereditato il suo spazio, se lo ricorda bene: «Gran lavoratore. Non voleva gli sgabelli, perché bisognava sempre stare in piedi a disposizione del cliente» (politica adottata a lungo anche nei negozi di altri veneti operosi, i Benetton). Paolo Cecchini, ambulante storico di pelletteria, concorda: «Quattordici ore al giorno e non sentirle. E anche Renato, quando non studiava, stava a bottega. Ed era già ruspante, cavolo! Certe litigate sul plateatico, lo spazio pubblico occupato dai nostri rispettivi stand. Però era legato alla famiglia e credo lo sia rimasto». Lì davanti ce n’è ancora un pezzo. Il negozio si chiama Giabigiana, vende artigianato di Murano ed è gestito dal nipote Stefano Lanza (uno dei tre fratelli Brunetta era nato da un matrimonio precedente). Un ragazzo sorridente che non è riuscito a mettere a frutto gli studi in scienze politiche («Alla fine sono laureato in commercio di vetro colorato!»), ma di certo non è un fannullone né si lamenta di come vanno gli affari: «Mio zio? Lo sento poco e non mi sembra giusto parlare di lui». Quanto all’ipotesi sulla schizofrenia furia pubblica-mitezza privata, gli sembra verosimile, però senza esagerare: «Non è l’unico che cambia davanti alla telecamera. Gentile? Normale direi, di certo non è una bestia». Un po’ poco come complimento, ma ricavo ancora meno da suo zio Piergiovanni. Che ha proseguito nella tradizione familiare, aprendo col fratello Vito una bella gioielleria in una traversa di piazza San Marco e diventando anche presidente della locale Confesercenti. Vende diademi, tiare, anelli che non sfigurerebbero addosso ai regnanti britannici. La somiglianza è forte: stessa corporatura, stesso sguardo puntuto, una polo rossa e capelli bianchissimi. Mi fa entrare e mi congeda in 15 secondi netti: «No, mi spiace, ho ricevuto ordini molto precisi». Di Renato non si parla.
Omertà serenissima. Ché il professore, tra le sue qualità, non sembra eccellere in autoironia. Marino Follin, ex rettore di architettura e collega, è ancora pentito di una dichiarazione di una riga concessa all’Espresso anni fa («fu riportata male») in cui diceva che «l’università aveva visto in lui più il politico che lo scienziato». Brunetta non la prese bene e non mancò di farlo sapere. «Non ho niente da dire sulle sue qualità di docente. E aggiungo che in privato era piacevole, senza atteggiamenti altezzosi. Anche se la storia del Nobel la diceva già allora». Si riferisce a un’intervista del 2008 a Enrico Mentana in cui il ministro confidava, senza arrossire, che voleva vincere il premio per l’economia, e probabilmente ci sarebbe riuscito non fosse stato per il distraente amore per la politica. Dichiarazione ridicolizzata all’epoca dai media, riportando vari indici di impatto accademico, oscillanti tra punteggi molto bassi o non pervenuti. Rintuzzamenti che non hanno scalfito una granitica considerazione di sé. «Quando mi chiese di presentarlo a Berlusconi» ricorda il corregionale Giancarlo Galan «condì l’autopresentazione con alcune cose modeste delle sue, tipo dire che era uno dei più importanti economisti del pianeta. Il Cavaliere non lo amò subito, ma col tempo ha cambiato idea». Sgobbone è sgobbone: «Stare nella sua mailing-list è come entrare nel club degli editori: ti sommerge di rapporti, studi, slide». Quanto al suo essere un «rompicoglioni» di prima categoria, l’ex ministro che spesso ci si è scontrato («siamo stati anche due anni senza parlarci») non crede alla pista del doppio binario: «A lungo ho pensato che fosse una posa, tipo quando pretende il silenzio assoluto mentre parla lui, ossessione tipica da prof universitario, o quando sequestra i cellulari ai parlamentari prima delle riunioni, come se fossimo studenti della maturità. Poi mi sono ricreduto: è proprio così!».
Il catalogo delle fissazioni baronali è lungo. Come quando ha obbligato i poliziotti della sua scorta a venirlo a prendere in giacca e cravatta e a dargli del «professore». O, più di recente, quella sorta di redde rationem in cui si è trasformato il suo insediamento negli uffici di Palazzo Madama. Con un commesso deferito perché accusato di non essersi alzato al suo passaggio, i dipendenti licenziati per sostituirli con i suoi di fiducia, incluso un incarico a Renato Farina, l’agente Betulla già a libro paga dei Servizi. Niente che incrini l’affetto che per lui nutre Cesare De Michelis, vecchia frequentazione nonché suo editore a Marsilio. «È un uomo di un’intelligenza, una capacità di lavoro e un’ostinazione che non hanno eguali. Ogni tanto combatte battaglie sulle quali potrebbe fare a meno di perdere tempo. Ha anche un’ambizione sconfinata, ma senza non si vincono le battaglie difficili. E, considerato da dove è partito, non sarebbe mai arrivato dov’è ora». Si riferisce alla casetta in Calle Priuli, una via così stretta che tre culturisti di passaggio la ostruiscono tutta, dove a lungo hanno abitato in nove e dove non c’era neanche un libro. Ciò non gli ha impedito, studiando il greco di notte, di entrare al liceo Foscarini e di uscirne come «primo della classe». Per poi diventare professore associato e quindi, con una sanatoria per precari dell’università (categoria che da ministro definì sventuratamente «la peggiore Italia»), ordinario. «Ha scoperto che essere incazzati in tv paga, se non vuoi finire tra i peones» insiste De Michelis. «Non sarà elegante, ma ha funzionato. E io, che lo conosco da quarant’anni, so di quanta generosità è capace».
Arrigo Cipriani, patron dell’Harry’s Bar, non lo vede da tre-quattro mesi. Ma assicura che quando va a mangiare da lui è d’appetito, gioviale e carino con tutti. Una volta il figlio fece una battuta su certe piccole sedie di un loro ristorante a New York e Brunetta ci rise su. Apparentemente un evento memorabile. In un pomeriggio veneziano meterologicamente incandescente Massimo Cacciari non ha voglia di rinfocolare le polemiche: «Ho solo fatto notare che ogni volta che si è candidato sindaco, nel 2000 contro Paolo Costa e nel 2010 contro Davide Orsoni, ha regolarmente perso. Un fatto, contro il quale è andato su tutte le furie. È un po’ agitato, ma non mi sembra una novità. Il problema lì è di un partito, un po’ come il Pd, in cui sono ormai tutti contro tutti». La Santanché non gli perdonerebbe di non averla sostenuta a sufficienza nella candidatura a vicepresidente del Senato. Il pugliese Raffaele Fitto l’avrebbe preso a male parole per essere stato totalmente estromesso dal documento del partito sull’Ilva di Taranto. Mara Carfagna avrebbe rinunciato proprio per la sua ingombrante presenza al ruolo di vicecapogruppo («Non con Brunetta»).
Un uomo, il suo ego e un gran vuoto intorno. Perché allora metterlo in un ruolo chiave? Berlusconi, sussurrano in Transatlantico, glielo doveva perché la promessa a sorpresa della restituzione dell’Imu era stata idea sua. A Galan risulta? «Bah, gira voce. Il suo vero capolavoro, per quanto mi riguarda, è quando affittò un appartamento a Palazzo Grazioli. Non aveva niente a che fare con Berlusconi, ma tutti si convinsero che stava lì in qualità di numero due». La simpatia è un’opinione, ma la prossemica è un’arte. La vicinanza coatta, com’era successo nel bugigattolo familiare, crea legami forti. Indissolubili. Oltre ogni ragionevolezza.
Riccardo Staglianò