Pino Corrias, il Venerdì 26/7/2013, 26 luglio 2013
L’ULTIMA GUERRA DI CORREA
QUITO. Il nuovo caudillo Rafael Correa detesta le cravatte, il Fondo monetario internazionale e i giornalisti. Piace alle donne. Piace al popolo. Piace ai tassisti che rombano sui pick up gialli dodici cilindri, tanto la benzina costa 30 centesimi al litro, benedizione per La Patria in marcia.
Ma più di tutto Correa piace a se stesso, specie quando dal Palazzo presidenziale di uno tra i più piccoli Stati del Sud America – l’Ecuador, incastonato tra il Pacifico, le Ande e la Foresta Amazzonica – sfida i muscoli e la pazienza del gigante che siede a Washington: un anno fa concedendo asilo politico al re dei pirati informatici Julian Assange, l’eroe di WikiLeaks, la bestia nera del Pentagono, che da 13 mesi vive nella ambasciata ecuadoriana di Londra. Oggi spalleggiando la fuga di Edward Snowden, l’altro guerriero digitale che ha rivelato lo spionaggio planetario delle agenzie segrete americane che gli corrono dietro dallo scorso 23 giugno in uno degli inseguimenti più spettacolari delle spystory, transitato attraverso l’Islanda, Hong Kong e Mosca.
Girando in lungo e in largo l’Ecuador, la sua faccia sorridente compare sempre con il ciuffo scuro che la incorona e la camicia bianca ricamata a mano della tradizione indigena. Sta sui muri delle tiendas sulla costa e su quelli dei pueblos andini. Sta dentro ai televisori incastrati al soffitto dei ristoranti fatti di plastica e lamiere, dove si frigge il pesce e si spreme la Guayaba. E quando compare esorta, rivendica, promette: «Questa nostra Rivoluzione non sarà fermata da niente e da nessuno. Viva la Rivoluzione dei Cittadini!».
Probabile che Rafael Correa, 48 anni, fisico imponente, viso carismatico, eloquio impetuoso, per la terza volta di seguito presidente dell’Ecuador, si senta pronto a tracciare la nuova via dell’orgoglio latinoamericano, dopo la scomparsa del suo amico e maestro Hugo Chávez, l’inarrestabile declino di Fidel Castro, il tramonto di Lula, ex presidente del Brasile, e quello dell’intera Argentina della signora Kirchner.
Le strade di Quito – la capitale intasata da un traffico che avvelena l’ossigeno rarefatto dei suoi 2850 metri d’altitudine – procedono a cerchi concentrici di case basse e grattacieli, verso l’antica città coloniale dominata dalla cattedrale e dalla Plaza Grande, dove abita lui, il presidente. Non è raro incontrarlo, sempre annunciato da telecamere e fotografi che lo precedono e da una cinquantina di guardie del corpo che lo circondano. Saluta, bacia donne e bambini. E se firma autografi aggiunge: «Hasta la victoria, siempre!».
Correa si definisce socialista del XXI secolo. Un moderato rivoluzionario che vuole temperare le leggi del mercato con la sicurezza sociale, la globalizzazione con la «Pachamama, la Madre Terra degli Incas», lo sviluppo economico con l’equità «perché siamo il Continente più ingiusto del Pianeta, abitato dai ricchi più ricchi degli europei e i poveri più poveri degli africani».
«Datemi un balcone e diventerò presidente» diceva Velasco Ibarra, il più amato e il più longevo tra i presidenti ecuadoriani dell’altro secolo. Correa ha imparato in fretta la lezione, aggiornando il balcone a un multiplo set televisivo. Quando arrivò al potere, anno 2006, lo Stato poteva contare su un solo canale tv e su quello della Radio Nazionale. Oggi, oltre i due terzi delle emittenti tv e radiofoniche che 24 ore al giorno illuminano i 14 milioni di ecuadoriani sono di proprietà statale e riverberano la voce, gli umori, le insofferenze, il potere di Correa.
Migliaia di ore di trasmissione – più i siti internet, più i quotidiani amici e le agenzie di stampa governative – hanno raccontato i suoi miracoli. Alcuni autentici. Prima di tutto quello di avere stabilizzato un Paese che prima di lui aveva cambiato sette presidenti in dieci anni. Sempre ammalato di ingiustizia sociale. Sempre ostaggio delle oligarchie militari, delle multinazionali, delle élite terriere che si spartivano i frutti del clima e della eccezionale fertilità della terra, primo esportatore al mondo di banane, di caffè, di cacao. Ma poi anche di braccia e di badanti per le famiglie benestanti del Primo mondo, quando la crisi piegò la sua economia sotto il peso del debito, spazzando via posti di lavoro, speranze, e persino la moneta, dall’anno Duemila sostituita direttamente dal dollaro.
Oggi l’Ecuador, novantottesimo posto nella classifica mondiale della ricchezza con un reddito pro capite di 4 mila dollari, viaggia con il 5 per cento annuo di incremento del prodotto interno lordo. Ha ridotto il tasso di povertà di dieci punti, dal 37 al 27 per cento. Ha aumentato gli investimenti nell’industria e nell’agricoltura. Ha trovato nuovi giacimenti di petrolio sotto il manto verde della Foresta, nelle remote regioni dell’Oriente, che vuol dire denaro subito, anche se a scapito di un ambiente fragilissimo e prezioso – per la più alta concentrazione al mondo di piante, frutti, animali, insetti e ossigeno – difeso dalle comunità indigene e da una opinione pubblica planetaria che ha mobilitato icone come Sting e Angelina Jolie a usurpare per qualche istante il balcone sempre illuminato di Correa.
Nonostante abbia studiato in Belgio e negli Stati Uniti, non inizia nella bambagia la storia di Rafael Correa. È nato a Guayaquil nel 1963. Famiglia borghese e anonima. Almeno fino a quando il padre, che morirà suicida, non viene arrestato negli Usa per traffico di cocaina, tre anni nel carcere di Atlanta, a fine anni 60. Ferita che alla fine si rimargina. E che non gli impedisce di frequentare l’università dell’Illinois per il Master in Economia conseguito a pieni voti, di incontrare la futura moglie, Anne Malherbe, di iniziare la carriera di professore universitario a Quito, di avere tre figli, di entrare nel governo di Alfredo Palacio, anno 2005, titolare del dicastero del Tesoro, diventando il più giovane ministro della storia dell’Ecuador.
È li che lo pesca Alberto Acosta, economista, politico di lungo corso della sinistra radicale. Gli riconosce da subito il carisma e lo convince a candidarsi alle presidenziali contro la destra. Correa impara rapido e non delude. Tiene comizi fluviali. Sogna e fa sognare. Viaggia. Parla inglese, francese e quando serve anche la lingua indigena dei Quechua. Promette lotta alla corruzione e ai privilegi. Il controllo statale sulle risorse naturali, oltre al petrolio: oro, argento, rame, gas, «che fanno ricche le imprese straniere, ma non le nostre». Si inventa la Revolución del Buen Vivir che in alternativa ai freddi ingranaggi del liberismo, propugna una «economia di solidarietà sociale». E spiega: «Il mercato è fatto per servire la vita delle persone. Non siamo noi che dobbiamo servire il mercato. Il lavoro umano e l’essere umano non sono merce». I suoi estimatori e i suoi nemici lo paragonano al Perón del 1955, al Castro del 1961, al Chávez del 2001, ma naturalmente per opposte ragioni. Secondo il settimanale britannico The Economist, che non lo ama, la sua carriera è stata favorita da un misto «di fortuna, di opportunismo e di talento».
Fortuna. Ne ha avuta molta nei giorni del tentato golpe – settembre 2010 – quando la polizia scese in sciopero contro il taglio degli stipendi. Quindici ore di scontri, lacrimogeni, due morti, decine di feriti. Un drappello di contestatori che fa irruzione nel Palazzo presidenziale. Correa che li affronta a brutto muso, finisce intossicato dai gas nell’Ospedale centrale, dove altri poliziotti provano addirittura a sequestrarlo. Salvato all’ultimo dai corpi speciali che lo portano via, mentre lui si apre la camicia e sfida i contestatori: «Avete il coraggio di spararmi?».
Opportunismo. Gli è servito a congelare per tempo il debito estero, dichiarandolo illegittimo «perché contratto dai precedenti regimi militari corrotti». E poi a ignorare le proteste del Fondo monetario internazionale, obbligandolo a sospendere i controlli, contestandogli qualunque potere esercitato per conto di Washington: «Noi siamo un Paese sovrano». E già che c’era riuscendo a chiudere l’ultima base militare americana di Manta costretta a traslocare nella vicina Colombia. Giusto in tempo per intensificare i rapporti commerciali con la Cina, titolare di 7 miliardi di dollari di credito, alla quale starebbe per vendere 3 milioni di ettari di Foresta.
Talento. Specialmente a intercettare gli umori e l’orgoglio del suo popolo. Ma anche a migliorarne il potere di acquisto. Con i maggiori proventi del petrolio, Correa ha aumentato da 292 a 318 dollari il salario base. Ha distribuito – giusto poco prima delle ultime elezioni, febbraio 2013, che ha vinto con il 58 per cento dei voti – un «Buono di sviluppo umano» di 50 dollari al mese per i più poveri e un finanziamento fino a 15 mila dollari sul mutuo casa per le giovani coppie. Ha moltiplicato gli investimenti edilizi, costruito nuove strade, centrali idroelettriche, un nuovo aeroporto internazionale, a un’ora e mezza di auto da Quito, sul quale lampeggia il solito inno: Mettiamoci in cammino!
Ma propria ora che Correa si propone all’onore del mondo non solo per la buona ospitalità agli hacker in fuga, ma anche per le migliaia di pensionati americani che scelgono le pacifiche coste dell’Ecuador per moltiplicare il potere d’acquisto delle loro pensioni, i troppi riflettori rischiano di solarizzare la sua immagine.
La sua straordinaria forza mediatica, finisce per rivelare anche la sua debolezza. Non è raro che nei suoi lunghi monologhi in diretta tv, quando ogni sabato mattina, per due ore, su tutti i canali, fa i suoi Reportage al popolo che poi sono il riassunto della sua settimana di governo, il presidentissimo si scagli contro i giornalisti chiamandoli «sicari», «mentitori di professione», «ignoranti», «immorali», «banditi».
Contro di loro – di solito responsabili di inchieste sulla corruzione del suo governo cresciuto fino alla enorme cifra di 45 ministeri – apre contenziosi giudiziari per milioni di dollari. Spesso ottiene la chiusura delle testate. Qualche volta si limita a mostrare il giornale e a stracciarlo in diretta tv. Qualche altra pretende mandati di arresto. Come nel caso di Juan Carlos Calderón e Christian Zurita, autori del libro El Gran Hermano, Il grande fratello, dedicato a Fabricio Correa, 53 anni, fratello maggiore del presidente, che avrebbe ottenuto per le sue imprese edili basate a Panama contratti statali per centinaia di milioni di dollari.
L’insofferenza alle critiche – ora che si fa chiamare «El Mashi», l’amico, e che definisce le sue idee «a prova di pallottole» – lo ha spinto, per quattro anni, a sostenere la Ley de Comunicación, appena approvata dal nuovo parlamento, che trasforma l’informazione da diritto costituzionale a «bene pubblico» sottoposto a regole, divieti, sanzioni. Contro il «linciaggio mediatico». Contro «la concentrazione delle testate». Contro «lo strapotere dei giornalisti». Sui quali d’ora in poi vigilerà un Consiglio di Regolamentazione, nominato dal governo, che potrà stabilire quali sono le informazioni lecite o quelle illecite, le veritiere o le false, quelle consentite e quelle illegali.
«È il doppio standard di Rafael Correa», ha scritto in prima pagina il Washington Post: paladino della libertà di informazione in casa altrui, come per l’americano Snowden, apostolo della censura in patria. «È la solita disgrazia dell’America Latina» ha dichiarato Mario Vargas Llosa. «Sempre i dittatori hanno avuto un primo periodo di larga popolarità». Giudizio che a sorpresa coincide con quello di un vecchio amico di Correa, il suo ex mentore Alberto Acosta, che oggi siede su uno dei pochissimi banchi dell’opposizione dai quali denuncia «la sua svolta autoritaria». Accusandolo di non voler più difendere la nuova Costituzione che insieme avevano approvato nel 2008, «in difesa del territorio, dell’acqua, della vita, della dignità dei popoli». Di avere scelto «la scorciatoia del petrolio» per pagarsi il consenso. E la strategia della propaganda permanente per difenderlo, «costata al Paese 120 milioni di dollari in spot». Di essere diventato «un cattivo autista di autobus, di quelli che mettono la freccia a sinistra e voltano a destra». Con il pericoloso dettaglio di portarsi dietro tutto il Paese.
Pino Corrias