Marco Damilano, l’Espresso 26/7/2013, 26 luglio 2013
SI FA PRESTO A DIRE MATTEO
Matteo deve impadronirsi del partito, come nessun leader ha fatto prima di lui: non Prodi, non Veltroni. Deve vincere le primarie per la segreteria e poi trionfare alle elezioni europee della primavera 2014...». «Matteo deve restare fuori da un partito che ormai discute soltanto del modo migliore con cui farlo fuori». Due renziani di alto rango, entrambi consiglieri ascoltati dal sindaco di Firenze, discutono in un pomeriggio di attesa, in vista della direzione del Pd che stabilirà la data e le regole del congresso. Due modi di vedere il futuro diversi, due opinioni opposte che riflettono perfettamente i dubbi del Rottamatore arrivato all’estate delle scelte. Un anno fa, di questi tempi, Matteo Renzi decise che si sarebbe candidato per la premiership del centrosinistra contro Pier Luigi Bersani: un po’ per incoscienza, un po’ per calcolo. Conosceva bene la difficoltà di vincere, con tutto l’apparato nazionale e locale schierato con il segretario, contava di aggregare un’area di consenso su cui costruire le mosse successive. Dopo le disastrose elezioni del 2013 il ragazzo che va di corsa, il Cavallo, come lo chiamano, sente che è l’ora di accelerare. La decisione sarà annunciata dopo le brevi vacanze del sindaco a cavallo di Ferragosto, ma è già stata presa da settimane: al congresso Renzi si candiderà alla guida del Pd. Ma non è una scelta facile e indolore. Molte sono le trappole, molti i rischi che corre il giovane prodigio della politica italiana a uscire dalla riserva di Palazzo Vecchio per entrare sulla scena nazionale. I suoi nemici (interni) non aspettano altro.
Rottamazione. Rottamare il Rottamatore: nel Pd da settimane tra le correnti avversarie è partito l’ordine di ostacolare l’irresistibile ascesa del sindaco alla leadership nazionale. Con le buone o con le cattive. «Nel Pd c’è il Dna dell’autolesionismo, dell’autodistruzione», sbotta il vice-presidente della Camera Roberto Giachetti, renziano della prima ora. «Ma come? Per una botta di culo, e non certo per merito nostro, c’è uno che forse può farci tornare a vincere e il gruppo dirigente si schiera quasi completamente contro di lui?». La manovra più insidiosa è convincere Renzi a non candidarsi alla segreteria, promettendogli l’investitura a candidato premier quando sarà necessario. L’ultimo a farlo è stato il deputato bersaniano Alfredo D’Attorre che ai renziani ha offerto un patto tra gentiluomini: «Il segretario eletto solo dagli iscritti e primarie aperte per scegliere il candidato premier quando sarà il momento». Offerta respinta, anche perché più o meno le stesse condizioni erano già state proposte a Renzi da Massimo D’Alema: «Non ti puoi impadronire del partito. Non possiamo permettere un Pd con Renzi alla segreteria e i democristiani Letta e Franceschini al governo». Renzi, però, ha replicato di aver poco in comune con gli altri due. Contromossa del gruppo dirigente ex Ds: separare l’elezione del leader del partito da quella dei segretari regionali, da eleggere prima e con la platea dei soli iscritti. Se la modifica allo statuto dovesse passare, il nuovo segretario nazionale si ritroverebbe con i capi territoriali schierati contro e in ogni caso non controllati da lui. Ultima mossa: far mancare a Renzi nei gazebo il 50 per cento dei voti necessari per essere eletti direttamente dal popolo delle primarie; sotto quella soglia il potere di scegliere il segretario torna all’Assemblea del Pd, cioè alle correnti. «Ma ve lo immaginate Matteo che fa le riunioni con Nico Stumpo e con i segretari regionali?», chiede Giachetti. Renzi resti lontano dalla segreteria: consigli in questa direzione, con motivazioni differenti, sono giunti nell’ultimo mese da intellettuali come Ernesto Galli della Loggia, Michele Serra, Michele Salvati. Anche un esperto di trappole democratiche come Claudio Velardi la pensa così: «Deve continuare a fare il sindaco, mettere su una rete di primi cittadini e dei think tank e poi prendersi tutto, senza chiedere il permesso. L’intendenza seguirà».
A Roma, dove sono più pratici, gira un organigramma che prevede Renzi candidato premier, Gianni Cuperlo segretario, e l’antico capo del partito romano Goffredo Bettini alla presidenza del partito. Bettini è tra i sostenitori del sindaco, ma per la premiership: per la segreteria pensa a qualcuno altro e non esclude di candidarsi in prima persona. Ma tra i fedelissimi di Renzi si discute già di come aggirare le manovre romane: «Se Renzi sarà eletto segretario dovrà subito impegnarsi nella campagna elettorale per le europee», spiega il deputato Dario Nardella, ufficiale di collegamento con Roma,«dovrà candidarsi in prima persona e trascinare il Pd alla prima, vera vittoria elettorale da molti anni a questa parte». Conquistare il Pd in due tappe: le primarie e le elezioni europee. Per riuscire dove altri leader sulla carta fortissimi hanno fallito. Un bell’azzardo.
Logoramento. Il sindaco di Firenze continua a essere nettamente in testa in tutti i sondaggi di popolarità. In quello Ipr-marketing dell’11 luglio ha raccolto il 58 per cento contro il 42 per cento del premier Enrico Letta, la Swg il 9-10 luglio gli ha assegnato il 54 per cento contro il 53 per cento di Giorgio Napolitano e il 46 per cento di Letta. Un mese prima, però, il 14 giugno lo stesso istituto aveva fotografato che Renzi raccoglieva il gradimento del 60 per cento degli italiani. E nell’ultima rilevazione Ipsos di luglio Letta ha scalzato Renzi dal primo posto in classifica: il 65,9 degli intervistati ha del premier un’opinione positiva, due punti più del sindaco. «Il calo di Renzi riguarda tutti gli elettorati. Tra coloro che sono vicini al Pd perde il 10 per cento, tra i centristi il 15, tra quelli di sinistra e gli astenuti il 6-7 per cento», ha scritto il politologo Paolo Natale su "Europa". «Il sindaco veniva giudicato come un paladino della nuova politica, oggi la sua narrazione sembra aver perso slancio». Troppa esposizione mediatica. Troppe sparate a salve. Troppe parole (Gian Antonio Stella ha calcolato negli ultimi mesi 60 interviste rilasciate, una ogni sei giorni, e 4.357 lanci dell’Ansa) e pochi risultati pratici. «Questa è l’ultima volta che parlo», ha giurato il sindaco nell’ultima esternazione-fiume, la serata su La7 nella trasmissione "Bersaglio mobile" di Enrico Mentana. Che in realtà ha conquistato ottimi risultati di audience, rassicurando i renziani più apprensivi sulla tenuta mediatica del loro leader.
Smania. L’affondo più duro è stato sferrato da Enrico Letta nell’aula di Palazzo Madama durante il dibattito sulla fiducia al ministro Angelino Alfano: «La politica rischia di perdersi in un dibattito strumentale, in un rumore di sottofondo, in uno strepitio smanioso». In molti hanno riconosciuto in questo ritratto le sembianze del sindaco di Firenze, uno sprinter che ha sempre bisogno di bruciare le tappe, il contrario caratteriale del premier, un fondista che ha avuto la pazienza di salire ai vertici del governo senza quasi darlo a vedere. Dal punto di vista retorico Renzi continua a ripetere che «se Letta farà bene sarò il primo a sostenerlo», ma la sua posizione di aspirante leader rischia di incollarlo all’immagine di politico irresponsabile, disposto a buttare giù il governo per un’ambizione personale. Tanto più dopo l’intervento di Giorgio Napolitano che ha parlato di «contraccolpi irreparabili» in caso di crisi di governo. Anche se va aggiunto che il Rottamatore intercetta l’umore di una parte dell’elettorato democratico, che vive con crescente insofferenza l’alleanza con il Pdl. Anche a sinistra. Come ammette Matteo Orfini, giovane turco tutt’altro che renziano: «Alle strette, i nostri preferiscono Renzi ai neo-democristiani che dal governo ci ripetono che non possiamo discutere di nulla».
Moderati addio. Un anno fa Renzi era stato presentato alla base del Pd come un berlusconiano mascherato. E da Palazzo Grazioli uscivano documenti che raccontavano il corteggiamento appassionato del Cavaliere. Oggi il sindaco viene percepito come nemico delle larghe intese e nei contenuti ha virato a sinistra: dal neo-liberismo di Luigi Zingales al neo-laburismo di Yoram Gutgeld, dalla partecipazione al Family Day alla polemica contro la Chiesa ruiniana. E ha annunciato che il suo Pd in Europa entrerebbe nel Partito socialista europeo, obiettivo sfuggito a Bersani. «Renzi è un leader del bipolarismo, vuole una sinistra con un’identità del nostro tempo, ma non è mai stato un centrista», si stupisce Nardella. Intanto, però, i moderati che si scaldavano per lui cominciano a intiepidirsi.
Scissione. Strisciante, silenziosa. O rumorosa, come i cori da stadio che hanno accolto Bersani alla festa del Pd di Roma: un avvertimento a Renzi, potenziale candidato segretario, che non si governa il partito senza questa base che potrebbe abbandonare il Pd. E la fondazione Italianieuropei di D’Alema ha aperto un tesseramento per la sua associazione: quasi un partito nel partito. O, forse, l’embrione di un nuovo partito.