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 2013  luglio 26 Venerdì calendario

IN FED WE TRUST, IL CREDO AMERICANO COMPIE CENT’ANNI


La Federal Reserve degli Stati Uniti compie cento anni. La sua storia è racchiusa tra due crisi finanziarie. Fu quella del 1907 a convincere gli stessi banchieri privati che la stabilità del sistema sarebbe sempre stata precaria in assenza di un prestatore di ultima istanza appoggiato dalla forza e dall’autorità dello stato. In assenza di una banca centrale, nel 1907, solo l’autorevolezza di J.P. Morgan era riuscita a raccogliere liquidità sufficiente a fermare la corsa agli sportelli delle banche. Fu pertanto un gruppo di finanzieri, noto come Club di Jeckyll Island (il piccolo paradiso, appena al largo della costa della Georgia, dove ciascuno di essi aveva una casa di vacanza), a convocare nel 1910 una riunione segreta, alla quale partecipò l’influente senatore Aldrich, per stilare un progetto di banca centrale.

Congresso e opinione pubblica non si fecero convincere facilmente dell’utilità di quel progetto. Da sempre sospettosi sia dello Stato sia della grande banca, nella prima metà del XIX secolo avevano fatto abortire due volte le Banche nazionali promosse dal governo. Il Federal Reserve Act fu approvato solo nel 1913 e, contrariamente ai modelli europei, diede alla banca centrale statunitense un’articolazione molto decentrata.
Dopo soli tre lustri dalla nascita, la Fed affrontò la prova della Grande crisi con risultati che molti considerano inadeguati. Il suo prestigio, come quello di altre banche centrali, ne uscì diminuito, tanto che - come si disse - per oltre un trentennio la Fed fu fatta «accomodare sul sedile posteriore» lasciando al Tesoro la guida della moneta. Guida che fu ripresa energicamente da Paul Volcker quando si trattò di domare la Grande inflazione degli anni 70 con una politica monetaria coraggiosa e indipendente. Seguì il lungo periodo della Grande moderazione (l’aggettivo grande ricorre sovente, come si vede, nella storia della Fed) durante il quale la banca centrale statunitense, un po’ per bravura e un po’ per fortuna, riuscì a gestire una virtuosa combinazione di elevata crescita dell’economia reale e bassa inflazione. Seppe gestirla tanto bene da conquistare un solido prestigio agli occhi dei governi e dell’opinione pubblica. Il successo convinse molti economisti, anche nella Fed guidata da Alan Greenspan, che la teoria e la politica monetaria avessero ormai trovato la pietra filosofale della definitiva combinazione stabilità-sviluppo.
La Grande moderazione si rivelò illusoria, come sappiamo. Nel 2007, lo scoppio della più colossale bolla speculativa immobiliare che la storia abbia conosciuto si incaricò di mostrare ancora una volta che il re era nudo. Ma lo era davvero? Seppure con gli inevitabili errori e incertezze, la risposta data alla crisi dalla Fed fu più determinata ed efficace di quella dei primi anni 30. Il sistema fu inondato di liquidità e la cooperazione della Fed con le altre banche centrali fu, tra il 2008 e il 2010, efficace come mai era stata nel secolo precedente. Questa politica riuscì a contenere entro i limiti di una seppur «grande» recessione una crisi che si era annunciata con una caduta di produzione, reddito e commercio internazionale di dimensioni maggiori di quella del 1929. Non tutti hanno ancora consapevolezza di quanto vicini al baratro fossero gli Stati Uniti (e il mondo) alla fine del 2007 e di quanto decisivo sia stato il ruolo della Fed nel bloccare una spirale deflattiva potenzialmente più drammatica di quella degli anni 30. Nell’ottenere questo risultato la Fed ha reinventato sé stessa, ha riscritto regole e parametri dell’«arte del banchiere centrale». Ha prestato a tassi vicini allo zero accettando collaterali fino al giorno prima inammissibili (infischiandosi della regola di Bagheot). Ha collaborato con il Tesoro (trascurando le regole formali dell’indipendenza stabilite dagli economisti durante la Grande moderazione). Ha deciso discrezionalmente, anche sbagliando, quali intermediari fossero da salvare e quali da lasciare fallire.
Benché i critici non manchino, la Fed celebra il centenario godendo di considerazione e rispetto maggiori di quelli dei quali era circondata all’esordio e, soprattutto, negli anni 30. I prossimi mesi diranno quanto duraturo possa essere questo meritato prestigio. Nelle ultime settimane si è visto quanto delicata sia la gestione di un lento ritorno alla normalità, nelle politiche da adottare, nei tempi, nella comunicazione. Errori potrebbero costare cari, non solo al prestigio della Fed. Più in là nel tempo, in una ritrovata «normalità», all’inizio del suo secondo secolo di vita, la sfida per la banca centrale americana (e per le consorelle) sarà quella di trarre le lezioni della crisi nel ridefinire tecniche, perimetri di intervento, priorità di azione. Nel ripensare, insomma, l’arte del banchiere centrale nella consapevolezza che essa non è mai definita una volta per tutte.
giannit@econ.duke.edu