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 2013  luglio 26 Venerdì calendario

E ORA GLI USA TEMONO IL CONTAGIO DI DETROIT

«Chicago non è Detroit, ma…». «New York non è Detroit e tuttavia…». Da quando, una settimana fa, il commissario Kevyn Orr ha chiesto la bancarotta per «Motown», un tempo orgogliosa capitale mondiale dell’auto, i giornali non fanno altro che confrontare Detroit con altre situazioni critiche: quello della metropoli del Michigan è un caso unico dovuto a condizioni estreme — deindustrializzazione, esodo di due terzi dei cittadini, fuga dei ceti medi — o diventerà un punto di riferimento per altri municipi coi conti cronicamente in rosso?
Certo, su Detroit si è abbattuto un vero cataclisma. Una crisi industriale aggravata dal fatto che quest’area viveva, di fatto, su un’economia monoprodotto: l’auto. Altre città con attività più diversificate (e minori problemi razziali), pur finite con le spalle al muro, sono riusciti a evitare il fallimento: New York negli anni Settanta, poi Cleveland, Pittsburgh, Filadelfia. Ma le emergenze fiscali si sono di nuovo moltiplicate negli ultimi anni sull’onda di una lunga recessione.
Certo, quella di Detroit è una crisi unica per le sue dimensioni, ma il suo meccanismo centrale è ben noto a molte altre grandi città Usa: miliardi di dollari di debiti previdenziali e sanitari per i dipendenti pubblici in servizio o in quiescenza che continuano ad accumularsi perché i fondi pensione e quelli assistenziali — mal gestiti o depotenziati dagli esodi di personale — riescono ormai a coprire solo una parte delle spese. Il resto va a carico dell’amministrazione municipale che, per pagare assegni mensili e cure mediche dei suoi dipendenti, è costretta a tagliare i servizi ai cittadini.
A Detroit il fenomeno aveva raggiunto dimensioni estreme e insostenibili: attesa di 58 minuti nelle chiamate d’emergenza alla polizia rispetto a una media nazionale di 11 minuti, 4 lampioni della luce su 10 fuori uso, 80 mila case abbandonate. E il record degli omicidi. Così è arrivata l’ora delle decisioni drastiche: secondo molti la bancarotta in «Chapter 9» non è una soluzione: le città che vi hanno fatto fin qui ricorso (61 dal 1954 ad oggi, tutte molto più piccole di Detroit) in genere hanno tamponato i loro problemi, ma non li hanno risolti. Sono uscite dalla procedura con la necessità di ridurre ulteriormente i servizi pur avendo tagliato le pensioni dei loro dipendenti.
Ma è proprio questo delle pensioni il nodo centrale della battaglia di Detroit. Per la prima volta si delinea una forte contrazione degli assegni anche per un esercito di dipendenti pubblici già in quiescenza (circa 20 mila). È un’incursione in una terra sconosciuta che anche nelle altre città superindebitate molta gente guarda col fiato sospeso. Nessuno sa di quanto verranno tagliati gli assegni: dipenderà anche dalle decisioni dei giudici fallimentari. E c’è anche un’altra incognita: il commissario Orr ha ordinato un’inchiesta sul sistema pensionistico della città sospettando che i politici abbiano «abbellito» (cioè falsificato) per decenni i calcoli attuariali per far apparire sostenibile un sistema previdenziale in realtà sottofinanziato. Un sospetto che fa correre un brivido nella schiena degli amministratori di molte altre città americane.
Massimo Gaggi