Goffredo Buccini, Corriere della Sera 26/07/2013, 26 luglio 2013
MARGARET MAZZANTINI E SERGIO CASTELLITTO ANCORA «FIDANZATI»
Margaret, in casa, la chiamano Mosè: perché «tiene insieme tutta la baracca», tosta come un patriarca. Sergio, morbido e sornione come un gattaccio del Colosseo, rovescia i luoghi comuni delle comuni famiglie con zampate lievi: «I silenzi di lei sono molto più interessanti delle mie parole», «volevo un figlio che m’insegnasse qualcosa di importante», «l’amore è roba da professionisti. E tanti c... Ma tanti!», e così via.
Di frasi simili, spontanee nella loro ricercatezza contropiedista, i volenterosi cronisti degli ultimi vent’anni hanno raccolto emeroteche intere: pile di ritratti e articoli, in ordinata successione come un album di matrimonio, sulla storia senza pieghe apparenti di loro due, che fanno notizia nei rispettivi lavori e, in modo complementare, nella moltiplicazione del loro binomio. Con un gioco di rimando dove pubblico e privato si mescolano sino a coincidere, sfumando i confini. Mirabilmente. Eccessivamente, dicono i maligni: «Rendono più separati che in coppia». Su ogni romanzo di lei nasce ormai un film di lui, è vero; ma quella che può sembrare una premiata ditta è, verosimilmente, un sodalizio, autentico proprio perché globale. Margaret e Sergio alla fine vivono per raccontarsela, parafrasando Márquez: insieme.
Di figli ne hanno fatti quattro e a ciascuno hanno imposto Contento per secondo nome, quasi un manifesto ideologico nel middle name all’americana, «perché la felicità passa, la contentezza t’accompagna». Ecco, questa contentezza e, con essa, questa ideologia della famiglia costruita a dispetto dei correnti tempi cupi e di mestieri che dissipano lo stare insieme — attore e regista osannato lui, scrittrice premiatissima lei, legati da una catena di successi così spessa da affondare chiunque — beh, questa cifra stilistica del clan Castellitto-Mazzantini rischia di indurre lo spettatore/lettore a un motto di sazietà, che in realtà cela soprattutto invidia, s’intende: «Ancora?».
Sì, ancora. Molto più belli di Celentano e Claudia Mori quand’erano la coppia più bella del mondo, molto più felici di Al Bano e Romina sulle note di «Felicità», Margaret e Sergio sembrano starsi debitamente sulle scatole al primo incontro, come da copione. Recitano Tre Sorelle di Cechov allo Stabile di Genova, metà anni Ottanta. Lei fa Irina ed è più che una promessa: 22 anni, la chiamano «la nuova Duse». Lui, quasi trenta, fa Tuzenbach, ed è sfuggito a un destino da ragioniere con un atto di coraggio («lasciai il posto fisso, ero infelice, mia madre pensò fossi pazzo»). Lei, svezzata da un’infanzia appresso a un papà geniale e «maledetto» (il grande Carlo, autore dell’indimenticabile A cercar la bella morte), gli rompe le scatole a ogni passo sulla scena, un po’ maestrina e un po’ chioccia. Lui, scappato anche all’Accademia, scavezzacollo naturale, ha voglia di mandarla al diavolo. Non può che essere amore, ovviamente. Galeotta è la gloriosa A112 di Sergio, dove cominciano da buoni amici a dividere le spese della benzina. Prove tecniche di bilancio familiare. La passionaccia s’accende dopo pochi incroci. La scelta di Margaret di mollare il palcoscenico farà il resto.
I figli sono lucchetti di carne, ci spiegherà lei in uno dei suoi successi letterari. Loro sembrano orientati da subito alla famiglia, e a riempire di lucchetti amorosi la vita e le case, a Salina, in Umbria e a Roma, in via Borsieri, primo nido (era d’una pianista mancata, soffocata da fratelli possessivi, loro ne percepivano «l’anima caotica ma calda», Sergio salutava sempre l’appartamento prima d’ogni partenza). Un prete irlandese li sposa, Sergio inanella quattro papere in pochi minuti di cerimonia. Senza scivolare nella psicanalisi d’accatto, è probabile che, come in ogni coppia che resiste, il segreto stia nella compensazione delle nevrosi. Lei, che deve avere vissuto l’infanzia con un ipertrofico superego appollaiato sulla spalla, si sente dire per la prima volta dal gattone: «Puoi stare tranquilla, ti devi rilassare». Lui, che strappata dal suo karma la vita da ragioniere tenderebbe tuttavia a cedere a quella pigrizia che è il lato B della bonomia romanesca, ammette di amarla per mancanza, di adorare quella sua «meravigliosa qualità di migliorare sempre la giornata», pur temendone la deriva «...di assolutismo islamico». Le regalò un quadernone con Indiana Jones in copertina, «la diga si ruppe», e lei ci mise cinque anni a scrivere il primo romanzo.
«Nostro scopo è il fidanzamento perpetuo», hanno proclamato in più interviste a due voci, senza timore di tirarsi addosso la gelosia degli dei. Sergio, su un palco del Primo Maggio di qualche anno fa, lesse con passione alcune pagine dell’ultimo romanzo di Margaret, fregandosene di quel pezzo d’Italia pronta a strillare al familismo: «Mi emozionavano». Quando Venuto al mondo è diventato un film, anche il figlio maggiore, Pietro Contento, è entrato in scena. «Lavoriamo gomito a gomito». E gomito a gomito sembrano decisi a viversi la vita che verrà. «Ancora» è, del resto, avverbio ambiguo: può indicare, sì, stanchezza e ripetitività; ma anche desiderio di continuare, di rinascere ogni volta assieme. L’amore, alla fine, non è altro.
Goffredo Buccini