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 2013  luglio 26 Venerdì calendario

«UNIVERSO SEGRETO PRIMA DEL BIG BANG»

Nella seconda metà del XVII secolo il genere umano u­sa e misura il tempo con padronanza, quasi come fa oggi nel XXI. Galileo scopre la legge fon­damentale del pendolo. Isaac Newton annuncia che in fisica i corpi seguono percorsi prevedibili: lui è in grado di calcolare non solo il moto della Luna e dei pianeti ma anche l’ondivago tragitto dei proiettili. È allora che un sistema «matematico e assoluto» crea le condizioni di base per cui il tempo odierno viene misurato in piccolis­sime frazioni di secondo, e rimbal­za, sempre più preciso, su satelliti artificiali e sonde spaziali. «Ancora oggi è il mondo newtoniano a farci trovare d’accordo, in materia di tempo, con osservatori piazzati ca­sualmente molto lontano da noi, compreso l’omino verde sulla su­perficie di Marte e anche più lon­tano », spiega Paul Davies, formida­bile cosmologo e divulgatore an­glo- australiano, di fama interna­zionale (250 libri all’attivo), il quale ha ottenuto molti riconoscimenti di indiscusso valore scientifico, tra cui l’edizione 1995 del premio del­la Templeton Foundation, il cosid­detto «Nobel della religione». Gli studi sulla natura del tempo veleg­giano in acque tranquille dall’Otto­cento. Poi, improvvisamente, tra il 1905 e il 1913, subiscono uno scos­sone. Che cosa accade? «La teoria della relatività di Albert Einstein dà una spallata al perfetto sistema newtoniano – dice Davies –. Anche l’effetto psicologico è fragoroso tra gli studiosi; non riescono ad accet­tare che il tempo sia considerato “relativo”. Che tempo è mai questo, si domandano, se lo stesso concetto di tem­po non è più universale e diventa “flessibile”?».
Alto grado di incertezza, critiche che non sono più tanto timide. Paul Davies non fa sconti ad Einstein: «Siamo ancora in attesa di una totale comprensione della na­tura del tempo. Troppi interrogativi rimangono senza risposta». Sono concetti che lo scienziato-scrittore illustrerà al Meeting di Rimini, nel suo inter­vento del 21 agosto.

Professore, nonostante cento anni di studi, non poche questioni createsi con la teoria della relati­vità sono tuttora insolute. È am­missibile che, se si cambia tipo di orologio, i diversi orologi – alla stessa ora – possano dare tempi diversi?
«Ce ne sono molte di tali questioni e in parte sono l’effetto del crollo di una visione del tempo legata al senso comune».

Che cosa imprime al tempo una chiara direzione?
«La prima cosa che l’uomo intui­sce è che il tempo è irreversibile, e che lui non può recuperare nean­che un minuto del passato. La principale fra le questioni salienti è come combinare la nostra teoria della gravitazione (che è realmente una teoria dello spazio-tempo) con la meccanica quantistica, teo­ria che descrive l’attività su scala di atomi e molecole. La teoria delle stringhe rimane l’approccio più promettente, ma non è accettata universalmente. Ci sono diversi processi fisici che possono misura­re il tempo accuratamente. Si va dalle stelle di neutroni alle vibra­zioni degli atomi. Gli esperimenti confermano che sono rispettati gli stessi intervalli di tempo, con una precisione superiore a uno per tri­lione. Dunque non c’è evidenza che diversi tipi di orologio possano dare tempi diversi».

“Freccia del tempo”, viaggio nel futuro: quando la fisica sposa ci­nema e paradossi…
«Per entrare nel concetto di “frec­cia del tempo” dobbiamo renderci conto che all’inizio l’universo si trovava in una condizione alta­mente favorevole di uniformità gravitazionale. Perciò ha una gran­de riserva di energia utile che fino­ra è stata usata oltre mi­sura. Quanto al viaggio nel futuro, lo facciamo già. Ma è necessario muoversi velocemente. Al momento possiamo u­sare orologi capaci di mi­surare spostamenti di pochi nanosecondi. An­che la gravità rallenta il tempo e può offrire una via per compiere un bal­zo avanti nel tempo; ma pure in questo caso si tratta di tempi molto piccoli. Una incursio­ne nel futuro veramente significa­tiva si fa soltanto se si viaggia a una velocità vicina a quella della luce oppure attorno a un buco nero».

L’Universo ha avuto un inizio? E a­vrà anche una fine?
«Fino a pochissimo tempo fa i co­smologi credevano che l’Universo avesse avuto inizio con il Big Bang 13,7 miliardi di anni fa. Oggi la mo­da è cambiata e non pochi cosmo­logi sono dell’opinione che non è il Big Bang a rappresentare l’origine delle cose. Continuiamo a chieder­ci: insomma, il tempo avrà fine op­pure no? La risposta dipende da un’altra domanda-chiave: da come e da quanto l’Universo continuerà a espandersi. E, secondo le eviden­ze attuali, non sembra che il tem­po abbia la fine segnata».

Il Templeton Prize assegnatole per lo straordinario impegno intellet­tuale profuso nel promuovere la spiritualità è stato oggetto di criti­che da parte degli atei organizzati. Per spiegare le finalità del premio, lei ha usato argomentazioni scien­tifiche (lo «strano silenzio dell’U­niverso» e un «universo preparato per la vita»). Non le sembra che fra gli atei organizzati molti rifiutino la sola idea che uno scienziato possa lasciare spiragli aperti sul­l’origine dell’universo?
«Molti scienziati, di diversa estra­zione, preferiscono non mescolare scienza e religione».

Altri, in maggioranza laici, affer­mano che la scienza può aiutare la religione a trovare Dio…
«Secondo me, c’è un modo miglio­re per esprimere questo pensiero. Io non sono credente e sono per­suaso che la scienza ci sveli un uni­verso che è comprensibile, ha uno schema razionale, non è arbitrario. Ma non è compito della scienza di­re di più senza invadere la sfera di autonomia della fede religiosa».