Nunzia Penelope, il Fatto Quotidiano 24/7/2013, 24 luglio 2013
ENIMONT, QUANDO LA CHIMICA ITALIANA MORÌ CON GARDINI
Eppure, l’idea era buona. Dopo, si è parlato soprattutto della maxi-tangente (150 miliardi di lire), dei morti (Raul Gardini e Gabriele Cagliari, presidenti di Montedison ed Eni, suicidi), del processo trasmesso in Tv: starring Antonio Di Pietro, comprimari i leader politici della Prima Repubblica, che sui banchi di quel tribunale esalò l’ultimo respiro sotto gli occhi esterrefatti degli italiani. Ma prima – prima che tutto finisse per sempre sepolto sotto una montagna di scandali – Enimont era stata davvero una buona idea. Di più: realizzare un grande polo pubblico-privato era stata tra le migliori idee di politica industriale messe in campo nel dopoguerra. Vent’anni dopo ci si può chiedere cosa sarebbero oggi la nostra industria, la nostra economia, se quell’idea avesse avuto successo, se non fosse diventata la vicenda simbolo di Tangentopoli, un noir a base di sangue, morti, tangenti, misteri.
L’idea giusta
La storia inizia alla metà degli anni 80. La chimica era in crisi profonda, devastata da ristrutturazioni che riguardavano sia l’azienda pubblica, proprietà dell’Eni, sia quella privata, la Montedison. Sergio Cofferati, all’epoca segretario dei Chimici Cgil, la riassume così: “Non aveva senso mantenere due produttori che non avevano le dimensioni per stare sul mercato. Per evitare il ripetersi periodico delle crisi e dei licenziamenti, si pensò di unire le due strutture, integrandone le attività e creando un polo chimico nazionale. In questo modo, avremmo avuto dimensioni di scala e risorse per fare investimenti e sviluppo”. Conferma Franco Bernabè, in quegli anni dirigente e poi amministratore delegato dell’Eni (oggi alla Telecom): “Alla base di Enimont c’era un grande disegno di politica industriale, finalizzato a salvare la chimica italiana”. L’atto fondativo della joint venture, datato 1988, prevedeva un comando a due teste: a ciascun socio il 40% della società, il restante 20% sul mercato. Alla nascita il gruppo aveva già 15.500 miliardi di lire di fatturato e 50 mila dipendenti; l’approvvigionamento di materia prima era garantito dall’Eni, Montedison avrebbe messo gli impianti petrolchimici e le tecnologie innovative. I disaccordi però emersero immediatamente. Gardini voleva andare oltre, conferire alla joint venture anche altri pezzi Montedison esclusi dalla fusione. Dal punto di vista industriale aveva ragione: Enimont sarebbe stata più grande e più forte. Dal punto di vista politico era inaccettabile: in quel modo il privato avrebbe avuto la maggioranza, e l’idea di una chimica tutta privata, ai tempi in cui le partecipazioni statali dettavano legge, equivaleva a una bestemmia. Iniziò un braccio di ferro estenuante, in cui Gardini cercava di ottenere il comando con ogni mezzo: prima comprando azioni Enimont sottobanco per accrescere la propria quota, poi comprando, a suon di mazzette, il consenso politico. E tuttavia, non fu la maxi-tangente a decretare la fine dell’avventura: Gardini non pagò per entrare in partita ma per uscirne senza troppi danni quando capì che non c’era possibilità di vittoria. Enimont è stata, piuttosto, una vittima della guerra tra pubblico e privato, l’ultima: sarebbe infatti bastato attendere pochi anni e si sarebbe aperta, tra le fanfare, la stagione delle grandi privatizzazioni. E probabilmente la chimica a Gardini gliel’avrebbero regalata.
“Sta di fatto che con l’Enimont poteva nascere uno dei maggiori poli chimici al mondo – sostiene l’economista Marco Fortis, negli anni Novanta capo dell’ufficio studi Montedison – invece è stato come un puzzle di cui nemmeno una tessera è andata al posto giusto’’. Fosse andata diversamente, oggi l’Italia sarebbe probabilmente ai primi posti nella biochimica, nelle plastiche e nei materiali speciali, nella farmaceutica, nei fertilizzanti, nel fluoro, nelle fibre, nella ricerca, e chissà che altro.
I tesori perduti
Scavando tra le macerie della joint venture si trovano le tracce dei tesori industriali perduti: Erbamont, leader mondiale nei farmaci antitumorali, Ausimont, numero due al mondo nella chimica del fluoro, Himont, leader mondiale nelle plastiche avanzate, Novamont, cui si deve la prima plastica biodegradabile. Quanto varrebbe oggi tutto questo, per un paese che da anni assiste alla propria deindustrializzazione con rassegnata ignavia, è evidente: “La chimica, così come la siderurgia, è un volano importantissimo per qualsiasi sistema produttivo”, sottolinea Cofferati. Col tempo la vicenda giudiziaria ha cancellato quella industriale, ma è quest’ultima forse la più drammatica. Sintetizza Bernabè: “Enimont è una storia tipicamente italiana, non tanto di corruzione, quanto di arroganza e incompetenza”. Conferma Cofferati: “Il progetto era buono, ma la gestione fu disastrosa”. Nessuno ne esce bene: non Gardini, che non ebbe la pazienza di attendere una soluzione condivisa, non l’Eni, di cui gran parte dei manager osteggiava l’operazione che avrebbe ridimensionato il loro potere. Non la Mediobanca di Enrico Cuccia, tra i principali responsabili del pasticciaccio. E non la politica, che dava una parola e il giorno dopo la ritirava, seminando d’inciampi il percorso di Enimont, lesinando investimenti, ritardando decisioni, ricattando.
Spezzatino Montedison
La fine è nota. Gardini mollò la presa con una buonuscita miliardaria, e la chimica divenne tutta pubblica. Nonostante la strenua battaglia per conquistarla, però, l’Eni l’ha poi sostanzialmente abbandonata al declino. Quanto a Montedison, sepolta dai debiti del crac Ferruzzi è stata venduta a pezzi per far cassa: Himont è oggi della statunitense Lyondell, Ausimont della Solvay, Edison, gioiello dell’energia, della francese Edf. E ancora: Tecnimont è andata alla Maire Engineering, i fertilizzanti di Agrimont alla Norsk Hydro, Erbamont-CarloErba in parte alla Pfizer e in parte alla Fidia farmaceutica. Non è facile calcolare quanto varrebbero oggi i 15 mila miliardi di fatturato dell’Enimont, i suoi 50 mila dipendenti. “La società – afferma Cofferati – aveva potenzialità per crescere ancora, ma quanto, in quale direzione, non lo sapremo mai. L’Italia ha perso per sempre la chimica e di politica industriale non si parla più”.
Il silenzio e la rimozione, del resto, sono caduti sulla vicenda: i protagonisti sono morti, ricostruirla è quasi impossibile. Intervistato nel 1990 da Enzo Biagi, alla domanda “come vorrebbe essere ricordato tra 100 anni” Gardini rispose: “Dottor Biagi, tra 100 anni nessuno si ricorderà di me”. Ecco, forse anche questo è un problema dell’Italia: la memoria corta, cortissima.