Fabrizio d’Esposito, Il Fatto Quotidiano 25/7/2013, 25 luglio 2013
25 LUGLIO 1943, IL GIORNO PIU’ LUNGO
In una notte afosa di 70 anni fa il regime di Mussolini cadde con un voto a maggioranza. Era il 25 luglio 1943. La riunione del Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo della dittatura, iniziò sabato 24 alle 17:15, con un quarto d’ora di ritardo, e terminò nella notte che era già domenica 25, alle 2:40. Il duce arrivò stremato al fatidico appuntamento in cui prevalse a maggioranza l’ordine del giorno di Grandi, che lo sfiduciava. L’Italia andava verso la disfatta bellica. Gli Alleati erano sbarcati in Sicilia il 10 luglio e il 19 bombardarono anche Roma. Dopo il Gran Consiglio Mussolini andò a riferire al re Vittorio Emanuele III, sino ad allora attendista. Al termine del colloquio, nel pomeriggio del 25, il duce fu fermato e arrestato. Capo del governo fu nominato il generale Badoglio, che aveva condotto il comando militare fascista fino al 1940. Dopo 45 giorni, l’8 settembre, ci fu l’armistizio con gli anglo-americani. In quel momento Mussolini era detenuto sul Gran Sasso. I tedeschi lo liberarono e il duce poi fondò la Repubblica di Salò. A Verona, un tribunale speciale fascista condannò a morte tutti i gerarchi che votarono la sfiducia. Solo alcuni vennero fucilati.
A Palazzo Venezia è mattina presto. Poco dopo le otto. Benito Mussolini è seduto nel suo ufficio. La gigantesca sala del Mappamondo. Quasi spoglia. Senza poltrone, né divani o lettini. Le amanti di solito vengono ricevute e intrattenute sul tappeto oppure sul cuscino del sedile della finestra, sempre nel pomeriggio, tra le 15 e le 16. Sabato, 24 luglio. A Roma ci sono già più di trenta gradi. Il dittatore è capo del governo, ministro e comandante supremo delle Forze armate, ministro degli Affari esteri, ministro del-l’Interno, presidente del Gran Consiglio del Fascismo.
Mussolini telefona a Carlo Scorza, segretario del Partito nazionale fascista. Alle 17 c’è il Gran Consiglio, che non si riunisce da tre anni. All’inizio della settimana, il duce ha preso la decisione di convocarlo. La sera, cioè, del 19 luglio, di ritorno dall’incontro con Adolf Hitler a Feltre, in provincia di Belluno. Lo stesso giorno del primo bombardamento anglo-americano sulla Capitale. Le lettere di invito sono state poi compilate da Scorza: “Sede Littoria, 21 luglio XXI, riservata-personale. Il duce ha convocato il Gran Consiglio per sabato 24 alle ore 17. Il Segretario del P.N.F. (Carlo Scorza). Divisa fascista (Sahariana nera, pantaloni corti grigio-verdi)”. Non c’è l’indicazione dell’ordine del giorno. Sul foglio, in maiuscolo, l’imperativo verbo del regime: “Vincere”.
Al telefono, il duce dà disposizioni meticolose a Scorza. “Niente pubblicità alla riunione”, la più importante. Il duce non vuole il consueto gagliardetto del Pnf issato sul balcone. Un’altra direttiva è quella di non far venire il servizio d’ordine, garantito in queste occasioni dai Moschettieri del duce. Dice Mussolini: “Si tratta di una seduta privata, di un consiglio di guerra in cui ciascuno deve sentirsi libero completamente di esprimere il proprio pensiero. E lo deve esprimere. E niente stenografe. Se vi sarà da fissare delle dichiarazioni, provvederete personalmente voi. Vi aiuterò anch’io, che serbo ancora una memoria di ferro”. Il dittatore congeda Scorza. Abbassa la cornetta e prende in mano una lettera, giunta al partito e trasmessa dallo stesso segretario del Pnf.
Il duce prende in mano la lettera e la rilegge. C’è scritto: “Si avvertono le superiori autorità che il Gen. Badoglio ha già ultimato i dettagli del suo complotto, d’accordo con altri capi antifascisti e fascisti”. Il complotto, però, non è un segreto. Da giorni. Nella centottantasettesima riunione del Gran Consiglio, organo supremo del regime, ci saranno due linee. Entrambe vorrebbero almeno sottrarre il comando militare della guerra al duce. Su un fronte c’è Dino Grandi, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che con Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni e Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, ha preparato un ordine del giorno che nella parte finale, quella decisiva, si conclude con un errore di sintassi, un soggetto al singolare (“quella suprema iniziativa di decisione”) e un verbo al plurale (“sono sempre state”): “Il Gran Consiglio invita il Governo a pregare la Maestà del Re verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione affinché Egli voglia per l’onore e la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e d’aria secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”. Grandi ha incontrato il duce giovedì 22.
Montecitorio, Grandi fa i conti
Alle 11:30 Grandi è nel suo studio di Montecitorio. I conti sull’ordine del giorno non promettono bene. Undici adesioni su ventotto componenti del Gran Consiglio. Grandi, sudato e con il colletto aperto della camicia, riceve Tullio Cianetti, mussoliniano, e lo raggira sul documento. Cianetti gli chiede: “Vorrei farti un’osservazione: nell’ultimo periodo si parla di una iniziativa politica del Re, oltre a quella militare. Non ti pare che ciò possa prestarsi a equivoci?”. Grandi è scaltro: “D’accordo con te, ma come possiamo fare altrimenti? Non possiamo, in sostanza, offrire al Re il diritto d’iniziativa militare e negargli quella politica”. Cianetti si convince: “Allora è una questione di forma”. Grandi, sollevato: “Certamente”. In realtà, il piano del presidente della Camera prevede un altro governo, sganciato dai nazisti, con a capo il generale Enrico Caviglia, maresciallo d’Italia. Ma il re Vittorio Emanuele III vuole un altro generale nonché maresciallo d’Italia: Pietro Badoglio, capo di Stato maggiore fino al dicembre del 1940.
Confidenze
Sull’altro fronte del Gran Consiglio c’è il ras Roberto Farinacci. Concorda con Grandi sul “rinnovamento”. Ma le sue conclusioni vanno in una direzione opposta. Una svolta filonazista. A Palazzo Venezia, Mussolini pensa di tenere la situazione sotto controllo. Al capo della polizia, Renzo Chierici, ha confidato il giorno prima, venerdì 23: “Non li conoscete voi, forse, questi membri del Gran Consiglio? Modesti, modestissimi d’intelligenza, vacillanti nella fede, scarsamente dotati di coraggio. È gente che vive di luce riflessa; se si spegnesse la sorgente, ripiomberebbero nelle tenebre donde sono usciti. Credete a me, Chierici, essi non chiedono di meglio che di essere persuasi”.
“Falli arrestare”
Nella Sala del Mappamondo, per tutto il mattino, il duce sbriga gli affari di routine. Va a casa per il pranzo. Villa Torlonia, sulla Nomentana. La moglie Rachele ha un presentimento: “Ma è proprio necessaria la convocazione di stasera?”. Mussolini, infastidito: “Non sarà che una spiegazione fra amici; non vedo perché non dovremmo farlo”. Lei insiste: “Amici! Puoi chiamare così quel gruppo di traditori che ti circonda, a cominciare da Grandi?”. Alle 16 il dittatore prende una cartella di cuoio. Contiene i tre ordini del giorno della riunione : Grandi, Farinacci e Scorza (quest’ultimo preparato la mattina). Poi due fogli. L’elenco dei 28 componenti del Gran Consiglio e un appunto, scritto a mano sul rovescio di un telegramma. Sette nomi di generali per il rimpasto militare. Il duce s’infila in auto. La moglie gli grida: “Falli arrestare tutti, prima di incominciare”. Alle 16, Grandi è nel suo appartamento di Montecitorio. Si sta vestendo. Con lui c’è Mario Zamboni, amico e tramite con il duca d’Acquarone, l’emissario del re. Il presidente della Camera indossa la sahariana nera e si lamenta: “Funerea casacca”. A Zamboni affida una lettera per Vittorio Emanuele III. Prima di uscire, Grandi, mette in tasca due bombe a mano. Pensa: “Non usciremo vivi da Palazzo Venezia”.
Palazzo Venezia, ore 17
I 28 gerarchi entrano a Palazzo Venezia dall’ingresso laterale di piazza San Marco. I Moschettieri non ci sono. Ma il cortile e l’interno dell’edificio sono presidiati da 80 camicie nere e 60 poliziotti. Grandi rimane colpito. È con Bottai. Gli mormora : “È la fine”. Bottai, stizzito: “Colpa tua, sei stato tu a parlargli”. Le riunioni del Gran Consiglio si svolgono nella sala del Pappagallo, di solito l’anticamera dello studio di Mussolini. Le pareti della sala sono rivestite di velluto azzurro. Tende dello stesso colore sigillano le finestre. L’afa impregna tutto. Dal soffitto pende un lampadario in ferro battuto, a forma di ruota. I tavoli sono messi a ferro di cavallo. Quello del duce è il più alto, con drappi rossi, corone di alloro e fasci d’oro.
L’appello
L’elenco dei 28 partecipanti è suddiviso per titoli di ammissione al Gran Consiglio. Tre categorie. Nella prima, i quadrumviri della marcia su Roma, De Bono e De Vecchi. Nella seconda, i presidenti delle Camere, Grandi e Suardo, il segretario del Pnf (Scorza), i componenti del governo (De Marsico, Acerbo, Biggini, Pareschi, Cianetti, Polverelli, Bastianini, Albini), il presidente dell’Accademia d’Italia (Federzoni), il capo della milizia (Galbiati), il presidente del Tribunale speciale (Tringali Casanuova), esponenti del collateralismo fascista (Balella, Frattari, Gottardi, Bignardi). La terza categoria è riservata ai camerati che hanno “ben meritato” (Alfieri, Bottai, Buffarini Guidi, Ciano, De Stefani, Farinacci, Marinelli e Rossoni). Alla destra di Mussolini siedono i due quadrumviri. All’angolo, dove inizia la disposizione perpendicolare, c’è Grandi. Alla sinistra del duce, Scorza e Suardo. Mussolini entra alle 17.15. Scorza lancia il grido: “Salute al duce”. Risposta in coro: “A noi”. Mussolini indossa la divisa di comandante supremo della milizia. Va a sedersi. Incrocia le braccia e si rivolge a Scorza: “Fate l’appello”. Scorza comincia. Tutti rispondono: “Presente”. Il duce è pallido e ha l’aria stanca.
Parla il duce
Mussolini introduce la riunione. Ricorda che tutti sono vincolati al segreto. Il tono è distaccato. Fa l’analisi della disfatta bellica che si sta delineando con lo sbarco in Sicilia degli Alleati. Il clima nel regime è pesantissimo: “In questo momento, io sono certamente l’uomo più detestato, anzi odiato in Italia, il che è perfettamente logico, da parte delle masse ignare, sofferenti, sinistrate, sottoposte alle suggestioni della propaganda nemica”. Si difende. Scarica tutto su Badoglio, “questo signore” che sollecitò di assegnargli “la delega del comando delle Forze armate operanti”. Mussolini parla per un’ora e mezzo, fino alle 19. La questione centrale è il rapporto con Hitler. Il duce confida nei tedeschi, assorbiti però dal fronte russo. Le impennate retoriche sono rare. Scorza e Farinacci si guardano smarriti, più volte. Mussolini riassume tutto con un interrogativo finale: “Guerra o pace?”. Resistenza o capitolazione? Per il dittatore il patto con Hitler non si discute. Conclude in latino: “Pacta sunt servanda”.
Fino alla pausa
Il sole tramonta alle 19 e 36. Dopo il duce intervengono i due quadrumviri, favorevoli a Grandi. Ma i loro discorsi sono generici. La luce del lampadario dà fastidio a Mussolini, che si scherma con la mano sulla fronte. Ha anche mal di stomaco. Ulcera. Il terzo iscritto a parlare è Bottai. Si alza in piedi e attacca il dittatore. L’Italia, dice, non ha le forze per resistere: “Tu stesso hai dato una risposta negativa. La tua relazione è stata una ben dura mazzata sulle nostre ultime illusioni”. Rovescia sul duce le accuse di “disfattismo”. Ma è Grandi, il quarto a prendere la parola, a fare una requisitoria implacabile: “Un regime di dittatura, quando eretto a dottrina, a sistema, quando non più giustificato da necessità nazionali straordinarie e impellenti è sempre storicamente immorale. Soltanto il successo può giustificarlo. Ora è sconfitto, e sulla scia della propria sconfitta minaccia di trascinare la nazione nella sventura”. Il duce si preme la mano sullo stomaco, per il dolore. Sono le 21 e 30. Polverelli, capo del Minculpop, tenta una difesa del regime. Debole. Si alza Ciano, il genero di Mussolini. “Ogni resistenza è un delitto verso l’umanità”. E sono stati “i tedeschi a non rispettare i patti per tutta la condotta della guerra”. Ciano espone tutte le “umiliazioni” subìte dai nazisti. A tratti, Mussolini, gli dà persino ragione. Si volta verso Scorza, alla sua sinistra, e sussurra: “Verissimo”. Ciano si siede. Tocca a Farinacci. Critica il duce, ma per chiedere la “nazificazione” del regime. Mussolini decide di intervenire per la seconda volta. Soprattutto per smentire i dissensi col re. Anzi, afferma, non è contrario a restituirgli i poteri militari. Dopo di lui parlano De Marsico, Federzoni, Bignardi. La riunione va avanti da quasi sette ore. Alle 23 e 30, il duce legge un bigliettino passatogli da Scorza: “Data l’ora, e poiché restano ancora molti oratori iscritti, il segretario propone che la seduta sia rinviata a domani”. Grandi scatta in piedi. Sbotta: “Ah no! Scusami duce, quando si trattava dei Balilla e del Dopolavoro, ci trattenevi qui sino alle quattro del mattino. Possiamo continuare a lavorare, ora che si tratta di decidere problemi vitali per la nazione”. Mussolini esita. Poi con tono distante: “Sta bene continuiamo pure. Sospenderemo la seduta per una mezz’ora”. Grandi è comunque inquieto. Pensa: “Quando rientreremo non troveremo lui ma la milizia a sgombrare la sala”. Il duce torna nella sala del Mappamondo. Riceve alcuni gerarchi e beve una tazza di latte, zuccherato.
Domenica 25 luglio
Nella sala del Pappagallo, Grandi raccoglie le firme al suo ordine del giorno. Venti. Aderisce anche Marinelli, che è sordo e ha capito pochissimo della discussione. Gli altri sono al buffet, panini e aranciata. La seduta riprende a mezzanotte e un quarto. Ormai è domenica 25 luglio. Il primo a parlare è Bastianini, sottosegretario agli Esteri. Poi Acerbo, De Stefani, Alfieri. Quindi i nemici di Grandi, Tringali Casanuova e Galbiati. Il dibattito è distratto. All’una meno cinque, il duce parla per la terza e ultima volta. Per dieci minuti. Non si alza. Rimane seduto. Si gioca tutte le sue carte, compresa quella della presunta arma segreta di Hitler: “Ho lasciato a tutti la facoltà di esprimere il proprio pensiero e avrei potuto facilmente impedirlo. Respingo l’ordine del giorno Grandi e non condivido, se non in parte, quanto ha detto Farinacci. Fascismo, rivoluzione, partito, dittatura e Mussolini sono inseparabili ormai. Non si ritorna indietro. Tra pochi giorni io avrò sessant’anni e potrei anche chiudere questa bella avventura che è stata la mia vita. Senonché noi vinceremo la guerra. Io ho in mano la chiave per risolvere la guerra. Ma non vi dirò quale”. Poi la minaccia: “Il re, del quale sono stato per venti anni il servitore fedele, può dirmi, quando gli racconterò domani quello che è avvenuto stanotte: ‘La guerra è pervenuta a una fase critica. I vostri vi hanno abbandonato. Ma il re, che vi è sempre stato vicino, rimane con voi’. Questo sono certo che mi dirà il re. E allora quale sarà la vostra posizione? Fate attenzione signori!”. I presenti vacillano. Grandi teme che il duce ribalti la situazione. Interviene: “Duce, ti prego di non volerci fare il ricatto sentimentale. Ci impediresti in tal modo di compiere il nostro dovere verso il Paese e verso di te. La tua persona è fuori di ogni discussione”.
Ultimo giro
All’una e dieci, Scorza legge il suo ordine del giorno. Quella della fedeltà al duce. Il segretario del Pnf è prolisso ma pone un’alternativa: o con Grandi o con Mussolini. Il presidente della Camera è sconfortato: la partita è quasi persa. Suardo, presidente del Senato, ritira la firma all’ordine del giorno Grandi. Cianetti e altri gerarchi ci stanno ripensando. Interviene Ciano, che invoca un compromesso. Ma è Bottai che frena il “contro-movimento” a favore del dittatore: “Siamo dei ragazzi o dei buffoni, che prima sottoscriviamo un documento tanto serio, e alla prima occhiata severa dei superiori ritiriamo la firma?”. Sono le due. Si apre l’ultimo giro di interventi.
Il voto a maggioranza
Alle due e mezza, Mussolini decide di mettere in votazione l’ordine del giorno Grandi. È la prima volta che il Gran Consiglio si esprime democraticamente. Per appello nominale. Scorza comincia da se stesso e grida: “No”. Poi Suardo, che si astiene, in lacrime. Il terzo a votare è De Bono. Il primo “sì”. Quando tocca a Ciano, Mussolini strizza gli occhi per vedere meglio. Cerca lo sguardo del genero e lo trova. Lo scambio tra i due, a distanza, è lungo. I sì sono 19: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi e Rossoni. Sette i no: Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanuova. Farinacci vota il proprio ordine del giorno. Un astenuto, Suardo. Mussolini prende atto: “L’ordine del giorno Grandi è accettato, gli altri decadono”. Sono le 2 e 40. Il duce raccoglie le carte e chiede a Grandi: “Chi porterà al re questo ordine del giorno?”. Grandi risponde: “Il capo del governo, tu stesso”. Mussolini: “Sta bene, mi pare che basti. Possiamo andare. Signori, con questo ordine del giorno avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”.