Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 25 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Bompiani 1948.«"Agire alla prussiana, conservando le apparenze del’onestà"» (Maria Teresa d’Austria) (38)«Pilsudzki spingeva il suo disprezzo per l’aristocrazia polacca fino alla noncuranza» (40)«Al principio di agosto l’esercito di Trotzki era giunto alle porte di Varsavia

Notizie tratte da: Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Bompiani 1948.

«"Agire alla prussiana, conservando le apparenze del’onestà"» (Maria Teresa d’Austria) (38)

«Pilsudzki spingeva il suo disprezzo per l’aristocrazia polacca fino alla noncuranza» (40)

«Al principio di agosto l’esercito di Trotzki era giunto alle porte di Varsavia. Bande di soldati scampati alla rotta, di profughi delle regioni dell’est, di contadini in fuga davanti all’invasore, vagavano per la città in mezzo a una folla inquieta e taciturna che giorno e notte si accalcava nelle piazze e nelle strade in attesa di notizie»» (42)

«Cortei di popolo imprecante percorrevano le vie dei sobborghi, e già cominciavano ad apparire sui marciapiedi del Krakowskie Przedmiesce, davanti ai grandi alberghi, alle Banche e ai palazzi patrizi, turbe taciturne di disertori, dagli occhi opachi nel viso pallido e magro» (43)

«Ogni tanto file interminabili di tram, cariche di feriti, fendevano lentamente la calca. I feriti imprecavano, sporgendo il viso e le braccia dai finestrini: un lungo mormorio si propagava di marciapiede in marciapiede, di strada in strada. Passavano in mezzo agli ulani di scorta, gruppi di prigionieri bolscevichi, vestiti di stracci, con la stella rossa sul petto, zoppicando curvi tra le zampe dei cavalli. Al passaggio dei prigionieri, la folla si apriva in silenzio, si richiudeva pesantemente alle loro spalle. Scoppiavano qua e là tumulti, subito soffocati dalla ressa improvvisa. Su quel mare di teste, alte croci di legno spuntavano di quando in quando, portate in processione da soldati magri e febbricitanti: il popolo si moveva lentamente, ondeggiando un fiume di gente si formava in mezzo alla strada, s’avviava dietro le croci, sostava, rifluiva, si perdeva in rivi tumultuosi nella moltitudine. All’imbocco dei ponti sulla Vistola una folla vociante e irrequieta tendeva l’orecchio a un tuonare lontano; dense nuvole, gialle di sole e di polvere, chiudevano l’orizzonte, che vibrava rombando come percosso da un ariete. La stazione centrale era assediata notte e giorno da turbe fameliche di disertori, di profughi, di fuggiaschi d’ogni razza e d’ogni condizione. Soltanto gli ebrei parevano trovarsi a casa loro nel tumulto di quei giorni. Il quartiere di Nalewski, il ghetto di Varsavia, era in festa. L’odio contro i polacchi persecutori dei figli d’Israele, la sete di vendetta, la gioia di assistere alla grande miseria della Polonia cattolica e intollerante, si manifestavano con atti di coraggio e violenza, insoliti negli ebrei di Nalewski, muti e passivi per prudenza e per tradizione. Gli ebrei diventavano sediziosi: brutto segno per i polacchi» (46-47)

«In ogni città, in ogni villaggio conquistato i bolscevichi si affrettavano ad installare un Soviet» (47)

«"Il Nunzio" diceva sorridendo il Capo della Missione militare inglese, Generale Carton de Wiart, "non può concepire che la miserabile plebaglia del ghetto e dei sobborghi di Varsavia osi tentare d’impadronirsi del potere. Ma la Polonia non è la Chiesa, dove soltanto i Papi e i Cardinali fanno i colpi di Stato» (49: il Nunzio, Achille Ratti, era il futuro Pio XI).

«L’arte di sapersi difendere consiste nel conoscere i propri punti deboli» (51)

«L’errore di Kerenskij è stato di voler difendere i punti vulnerabili di una città moderna, con le sue centrali elettriche, le sue banche, le sue stazioni ferroviarie, le sue centrali telefoniche e telegrafiche, le sue tipografie» (52)

«I ponti sulla Vistola, quello della ferrovia e quello della Praha erano guardati da due sole coppie di soldati, fermi alle estremità» (52)

«Nella stazione ferroviaria la confusione era indescrivibile: turbe di fuggiaschi prendevano d’assalto i treni, una folla tumultuosa vociferava addensata sui marciapiedi e sui binari, gruppi di soldati ubbriachi, sdraiati per terra, dormivano profondamente» (53).

«Io sono qui per reprimere una sommossa» concluse l’ufficiale «non per impedire un colpo di mano» (54)

«Per tutto quel giorno, percorremmo in lungo e in largo la città...» (54)

«Ci batteremo fino all’ultimo» diceva il conte Potocki. «Volete dire fino a domani» replicava sorridendo l’inglese (57)

«Io sono sempre disposto a morire per il mio per il mio paese» diceva Dombrowski «ma non a viverci» (57)

«La polizia difende lo Stato come se fosse una città, i militari attaccano lo Stato come se fosse una fortezza. Le misure di polizia adottate da Bauer consistevano nello sbarramento delle piazze e strade più importanti, e nell’occupazione degli edifici pubblici. L’esecuzione del colpo di Stato consisteva per von Luttwitz nel sostituire con i propri reparti di truppa i distaccamenti di polizia appostati agli incroci delle strade principali, agli sbocchi delle piazze, davanti al Reichstag e ai ministeri della Wilhelmstrasse» (62)

«Lo scetticismo di un funzionario dello Stato» (63)

«Nella notte tra il 13 e il 14 marzo Berlino ebbe l’aria di dormire profondamente. Soltanto all’Hôtel Adlon, dove risiedevano le Missioni Alleate, tutti rimasero in piedi sino all’alba, in attesa. L’alba trovò la capitale senza pane, senz’acqua e senza giornali, ma tranquilla. Nei quartieri popolari i mercati erano deserti; l’interruzione del traffico ferroviario aveva tagliato i viveri alla città. Lo sciopero intanto si estendeva dall’una all’altra categoria d’impiegati pubblici e privati. Gli addetti ai servizi postali, telefonici e telegrafici, non si presentavano agli uffici. Le Banche, i negozi, i caffè rimanevano chiusi. Molti funzionari degli stessi Ministeri si rifiutavano di riconoscere il governo rivoluzionario» (64)

«Il disordine era perfetto» (64).

«Sull’asfalto delle strade erano distesi qua e là i primi morti: fatale errore per un governo rivoluzionario che aveva dimenticato di occupare le centrali elettriche e le stazioni ferroviarie» (65)

«L’errore di Kapp è di aver turbato il disordine» (65)

«"L’insurrezione è un’arte" afferma Carlo Marx: ma è l’arte di conquistare il potere, non di difenderlo» (67)

«Le risorse della sua mediocrità sono inesauribili» (69)

«Bonaparte, allora, mostrava volentieri un profondo disprezzo per i sistemi di polizia: quel povero Catilina aveva l’aria, ai suoi occhi di un sedizioso imprudente, di un testardo senza volontà, pieno di buoni propositi e di cattive intenzioni, di un rivoluzionario sempre indeciso sull’ora, sul luogo e sui mezzi, incapace di scendere in piazza al momento buono, di un communard che non si sapeva risolvere tra la congiura e la barricata» (71)

«La guerra si fa per vivere non per morire» (motto di Giovanni Acuto, 74).

«In una rivoluzione parlamentare anche gli uscieri hanno una grande importanza» (77)

«Luciano Bonaparte che osserva il fratello con un sorriso in cui v’è già il presentimento del rancore» (77).

«I passaggi obbligati sono sempre pieni di pericoli» (78)

«Nel pomeriggio del 19 brumaio, a Saint-Cloud, Sieyès aveva finalmente capito il proprio errore: il tempo lavorava per il Corpo legislativo. Su quale terreno si moveva Bonaparte? sul terreno della procedura parlamentare. Quale era la forza del Corpo legislativo? la procedura. Qual’è la forza della procedura parlamentare? la lentezza» (84).

«La tattica del 18 brumaio non può essere applicata che sul terreno parlamentare. L’esistenza del Parlamento è la condizione indispensabile del colpo di Stato bonapartista: in una Monarchia assoluta non sono concepibili che le congiure di palazzo o le sedizioni militari» (88).

«I catilinari debbono diffidare, come Metternich, dei re costituzionali» (94)

«L’occupazione dei ponti, delle centrali elettriche, della Cittadella, delle caserme dei depositi di viveri e di munizioni, degli incroci stradali, delle stazioni ferroviarie, delle centrali telefoniche e telegrafiche, della Banche, è fatta dai soldati» (95)

«Nel 1919 e nel 1920, in Italia, la strategia di Lenin era stata applicata in pieno: l’Italia era, in quel tempo, il paese d’Europa più maturo per la rivoluzione comunista. Tutto era pronto per il colpo di Stato. Ma i comunisti italiani credevano che la situazione rivoluzionaria del paese, la febbre sediziosa delle masse proletarie, l’epidemia degli scioperi generali, la paralisi della vita economica e politica, l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai e delle terre da parte dei contadini, la disorganizzazione dell’esercito, della polizia, della burocrazia, l’avvilimento della magistratura, la rassegnazione della borghesia, l’impotenza del governo fossero condizioni sufficienti a provocare la consegna del potere ai rappresentanti dei lavoratori. Il Parlamento era nelle mani dei partiti di sinistra: l’azione parlamentare si accompagnava all’azione rivoluzionaria delle organizzazioni sindacali. Ciò che mancava non era la volontà d’impadronirsi del potere, era la conoscenza della tattica insurrezionale. La rivoluzione si esauriva nella strategia. Era la preparazione all’attacco decisivo: ma nessuno sapeva come condurre l’attacco. Si era giunti a vedere nella Monarchia, che si chiamava allora una Monarchia socialista, un grave impedimento all’attacco insurrezionale. La maggioranza parlamentare di sinistra era preoccupata dell’azione sindacale, che minacciava di conquistare il potere al difuori del Parlamento, anche contro il Parlamento. Le organizzazioni sindacali diffidavano dell’azione parlamentare, che mirava a trasformare la rivoluzione proletaria in un cambiamento di ministero, a beneficio della piccola borghesia. Come organizzare il colpo di Stato? Tale era il problema nel 1919 e nel 1920, non soltanto in Italia, ma in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale» (101-102)

«Alla vigilia dell’insurrezione d’ottobre, Lenin è ottimista e impaziente. L’elezione di Trotzki alla Presidenza del Soviet di Pietrogrado e del Comitato militare rivoluzionario, e la conquista della maggioranza nel Soviet di Mosca, lo hanno finalmente rassicurato sulla questione della maggioranza nei Soviet, che non ha cessato di preoccuparlo fin dalle giornate di luglio. Gli resta tuttavia qualche preoccupazione circa il secondo Congresso dei Soviet, che si deve riunire alla fine di ottobre. "Non è necessario che noi abbiamo la maggioranza nel Congresso" dice Trotzki: "non è quella maggioranza che dovrà impadronirsi del potere". In fondo, Trotzki non ha torto. "Sarebbe ingenuo" approva Lenin "aspettare di avere la maggioranza formale". Egli vorrebbe sollevare le masse contro il governo di Kerenski, sommergere la Russia sotto la marea proletaria, dare il segnale dell’insurrezione a tutto il popolo della Russia, presentarsi al Congresso dei Soviet, forzare la mano a Dan e a Skobelew, i due capi della maggioranza menscevica, proclamare la caduta del governo di Kerenski e l’avvento della dittatura del proletariato. Egli non concepisce una tattica insurrezionale: non concepisce che una strategia rivoluzionaria.
«"Benissimo" dice Trotzki "ma prima di tutto bisogna occupare la città, impadronirsi dei punti strategici, rovesciare il governo. Occorre, per questo, organizzare l’insurrezione, formare e addestrare una truppa d’assalto. Non molta gente: le masse non ci servono a nulla; una piccola truppa ci basta".
«Ma Lenin non vuole che si possa accusare di blanquismo l’insurrezione bolscevica: "l’insurrezione" dice "deve appoggiarsi non su un complotto, su un partito, ma sulla classe avanzata. Ecco il primo punto. L’insurrezione deve appoggiarsi sulla spinta rivoluzionaria di tutto il popolo. È questo il secondo punto. L’insurrezione deve appoggiarsi sulla spinta rivoluzionaria di tutto il popolo. È questo il secondo punto. L’insurrezione deve scoppiare all’apogeo della rivoluzione ascendente. Ecco il terzo punto. È per queste tre condizioni che il marxismo si distingue dal blanquismo.
«"Benissimo" dice Trotzki "ma tutto il popolo è troppo, per l’insurrezione. Ci occorre una piccola truppa, fredda e violenta, addestrata alla tattica insurrezionale".
«Trotzki, forse, non ha torto. "Noi dobbiamo" ammette Lenin "lanciare tutta la nostra frazione nelle officine e nelle caserme: il suo posto è là, è là il nodo vitale, la salute della rivoluzione. Là, con discorsi ardenti, infiammanti, noi dobbiamo sviluppare, spiegare il nostro programma, e porre così la questione: o l’accettazione completa di questo programma o l’insurrezione"
«"Benissimo" dice Trotzki "ma se le masse accettano il nostro programma, bisognerà lo stesso organizzare l’insurrezione. Dalle officine e dalle caserme bisognerà tirare degli elementi sicuri e pronti a tutto. Non è la massa degli operai, dei disertori, dei fuggiaschi, che ci occorre: è una truppa d’assalto".
«"Per trattare l’insurrezione da marxisti, cioè come un’arte" approva Lenin "noi dobbiamo al tempo stesso, senza perdere un minuto, organizzare lo stato maggiore delle truppe insurrezionali, ripartire le nostre forze, lanciare i reggimenti fedeli sui punti più importanti, circondare il teatro Alexandra, occupare la fortezza Pietro e Paolo, arrestare il Grande Stato Maggiore e il governo, inviare contro gli allievi ufficiali e contro i cosacchi della Divisione selvaggia dei distaccamenti provati a sacrificarsi fino all’ultimo uomo piuttosto che lasciar penetrare il nemico nel centro della città. Noi dobbiamo mobilitare gli operai armati, chiamarli alla battaglia suprema, occupare simultaneamente le centrali telegrafiche e telefoniche, installare il nostro stato maggiore insurrezionale nella centrale telefonica, collegarlo per telefono a tutte le officine, a tutti i reggimenti, a tutti i punti dove si svolge la lotta armata".
«"Benissimo" dice Trotzki "ma..."
«"Tutto ciò" ammette Lenin "non è che approssimativo, ma ho tenuto a provare che al momento attuale non si potrebbe restar fedeli al marxismo, alla rivoluzione, senza trattare l’insurrezione come un’arte. Voi conoscete le regole principali che Marx ha dato di quest’arte. Applicate all’attuale situazione della Russia, queste regole significano: offensiva simultanea, la più improvvisa e la più rapida possibile, su Pietrogrado, dal di fuori e dal di dentro, dai quartieri operai e dalla Finlandia, da Reval e da Cronstadt, offensiva di tutta la flotta, concentrazione di forze sorpassanti considerevolmente i 20.000 uomini, tra allievi ufficiali e cosacchi, di cui dispone il governo. Combinare le nostre tre forze principali, la flotta, gli operai e le unità militari, per occupare in primo luogo e conservare a qualunque costo il telefono, il telegrafo, le stazioni, i ponti. Selezionare gli elementi più risoluti dei nostri gruppi d’assalto, degli operai e dei marinai e costituire dei distaccamenti, incaricati d’occupare tutti i punti più importanti e di partecipare a tutte le operazioni decisive. Formare anche delle squadre composte d’operai che, armati di fucili e di granate a mano, marceranno sulle posizioni del nemico, scuole d’allievi ufficiali, centrali telefoniche e telegrafiche, e le circonderanno. Il trionfo della rivoluzione russa e, nello stesso tempo, della rivoluzione mondiale, dipende da due o tre giorni di lotta".
«"Tutto ciò è molto giusto" dice Trotzki "ma è troppo complicato. È un piano troppo vasto, una strategia che abbraccia troppo territorio e troppa gente. Per riuscire, non bisogna né diffidare delle circostanze sfavorevoli, né fidarsi delle circostanze favorevoli. Bisogna tenersi alla tattica, agire con poca gente su un terreno limitato, concentrare gli sforzi sugli obbiettivi principali, colpire diritto e duro, senza far rumore. L’insurrezione è una macchina da non far rumore. La vostra strategia ha bisogno di troppe circostanze favorevoli: l’insurrezione non ha bisogno di nulla, basta a se stessa".
«"La vostra tattica è molto semplice" dice Lenin "non ha che una regola: riuscire. Non siete voi che preferite Napoleone a Kerenski?"
«Le parole che ho messo in bocca a Lenin non sono arbitrarie: si ritrovano integralmente nelle lettere che egli indirizzava, nell’ottobre del 1917, al Comitato Centrale del Partito bolscevico» (103-107).

«Non si può spiegare altrimenti l’ingenuità del suo progetto di un’offensiva militare su Pietrogrado, appoggiata dall’azione delle guardie rosse nell’interno della città. L’offensiva si sarebbe risolta in un disastro: il fallimento della strategia di Lenin avrebbe portato al fallimento della tattica insurrezionale, al massacro delle guardie rosse nelle strade di Pietrogrado» (107).

«La truppa d’assalto di Trotzki si compone di un migliaio d’operai, di soldati e di marinai. . L’élite di questa truppa è stata scelta fra gli operai delle officine di Putilow e di Wiborg, tra i marinai della flotta del Baltico e tra i soldati dei reggimenti lettoni. Durante dieci giorni, sotto il comando di Antonow Ovseienko, le guardie rosse, la truppa d’assalto di Trotzki, compiono una serie di esercitazioni "invisibili" nel centro della città. Nella folla dei disertori che ingombrano le strade, nel disordine che regna nei palazzi del governo, nei ministeri, negli uffici dello Stato Maggiore Generale, delle Poste, delle Centrali telefoniche e telegrafiche, nelle stazioni ferroviarie, nelle caserme, nelle direzioni dei servizi tecnici della capitale, questi uomini disarmato che, a piccoli gruppi di tre o quattro, si allenano in pieno giorno alla tattica insurrezionale, passano inosservati.
«La tattica delle "esercitazioni invisibili", dell’allenamento all’azione insurrezionale, di cui Trotzki ha dato il primo esempio nel colpo di Stato dell’ottobre 1917, è ormai entrata nella strategia rivoluzionaria della Terza Internazionale. I principii applicati da Trotzki si ritrovano enunciati e sviluppati nei manuali del Comintern. All’Università cinese di Mosca, fra le materie d’insegnamento, vi è la tattica delle "esercitazioni invisibili", che Borodin, sulla base dell’esperienza di Trotzki, ha così bene applicata a Shangai. Gli studenti cinesi, nell’Università Sun-Yat-Sen della via Wolkonka, a Mosca, imparano gli stessi principii, che le organizzazioni comuniste di Germania mettono in pratica ogni domenica, in pieno giorno, per esercitarsi alla tattica insurrezionale, sotto gli occhi della polizia e dei buoni borghesi di Berlino, di Dresda e di Amburgo.
«Nell’ottobre 1917, nei giorni che precedono il colpo di Stato, la stampa reazionaria, liberale, menscevica e socialista rivoluzionaria, non fa che denunciare all’opinione pubblica l’attività del partito bolscevico, che prepara apertamente l’insurrezione: Lenin e Trotzki sono accusati di voler rovesciare la Repubblica democratica per instaurare la dittatura del proletariato. Essi non fanno mistero, scrivono i giornali borghesi, dei loro propositi criminali; l’organizzazione della rivoluzione proletaria procede alla luce del sole; i capi bolscevichi, nei loro discorsi alle folle d’operai e di soldati ammassati nelle officine e nelle caserme, annunziano ad alta voce che tutto è pronto, che il giorno della rivolta è vicino. Che cosa fa il governo? perché non ha ancora arrestato Lenin, Trotzki, e gli altri membri del Comitato Centrale? quali misure sono state prese per difendere la Russia dal pericolo bolscevico?
«Non è vero che il governo di Kerenski non abbia preso le misure necessarie per la difesa dello Stato. Kerenski, bisogna rendergli questa giustizia, ha fatto tutto quanto era in suo potere per far fronte al pericolo di un colpo di Stato: al suo posto, Poincaré, Lloyd George, Mac Donald, Giolitti o Stresemann, non avrebbero agito diversamente.

Il metodo difensivo di Kerenski consiste nell’applicazione di quei sistemi di polizia, ai quali si sono sempre affidati in tutti tempi, e si affidano anche ai nostri giorni, tanto i governi assoluti quanto i governi liberali. È ingiusto accusare Kerenski d’imprevidenza e di insufficienza: sono i sistemi di polizia che non bastano più a difendere lo Stato contro la tecnica insurrezionale moderna. L’errore di Kerenski è lo stesso in cui cadono tutti i governi che considerano il problema della difesa dello Stato come un problema di polizia.
Coloro che accusano Kerenski d’imprevidenza e d’insufficienza, dimenticano l’abilità e il coraggio di cui egli aveva dato prova nelle giornate di luglio, contro la sollevazione degli operai e dei disertori, e, in agosto, contro l’avventura reazionaria di Kornilow. Egli non aveva esitato, in agosto, a fare appello alle stesse forze bolsceviche, per impedire ai cosacchi di Kornilow di spazzar via le conquiste democratiche della rivoluzione di febbraio. La condotta di Kerenski in quell’occasione aveva meravigliato lo stesso Lenin: "bisogna" diceva "diffidare di Kerenski: non è un imbecille". Si deve esser giusti verso Kerenski: egli non poteva, in ottobre, far diversamente da come ha fatto, per difendere lo Stato contro l’insurrezione bolscevica. Trotzki affermava che nella difesa dello Stato sono i sistemi che contano. Kerenski o Lloyd George, Poincaré o Noske, il metodo che essi avrebbero adottato in ottobre non poteva essere che uno solo, il metodo classico delle misure di polizia.
Per far fronte al pericolo, Kerenski provvede a guarnire di truppe fedeli al governo, allievi ufficiali e cosacchi, il Palazzo d’Inverno, il Palazzo di Tauride, i Ministeri, le Centrali telefoniche e telegrafiche, i ponti, le stazioni, la sede dello Stato Maggiore Generale, gli incroci più importanti nel centro della città. I ventimila uomini sui quali egli può contare nella capitale, sono, così, mobilitati per proteggere i punti strategici dell’organizzazione politica e burocratica dello Stato. È qui l’errore di cui Trotzki approfitta. Altri reggimenti fedeli a Kerenski sono ammassati nei dintorni di Pietrogrado, a Zarskoie, a Kolpino, a Gatchina, a Obukhowo, a Pulkowo, cerchio di ferro che l’insurrezione bolscevica dovrà spezzare per non morir soffocata. Tutte le disposizioni necessarie a garantire la sicurezza del governo, sono state prese: distaccamenti di un Junker percorrono giorno notte la città. Nidi di mitragliatrici vengono appostati ai crocicchi, all’estremità delle arterie principali, all’imbocco delle piazze, sui tetti delle case lungo la Prospettiva Newski. Pattuglie di soldati s’incrociano in mezzo alla folla. Delle autoblindo passano lentamente, si aprono un varco con l’urlo delle sirene. Il disordine è spaventoso. "Ecco il mio sciopero generale" dice Trotzki a Antonow-Ovseienko, mostrando la folla che turbina nella Prospettiva Newski.
Kerenski non si è limitato soltanto alle misure di polizia. Egli ha messo in opera tutta la macchina politica. Egli non pensa soltanto ad aggrapparsi agli elementi di destra: vuole garantirsi a qualunque costo l’appoggio degli elementi di sinistra. Ciò che lo preoccupa è l’azione dei sindacati. Egli sa che i capi dei sindacati non sono con i bolscevichi. Su questo punto, la critica di Kamenew e di Zinoview alla tesi insurrezionale di Lenin e alla tattica di Trotzki, è giusta. Lo sciopero generale è un elemento indispensabile dell’insurrezione: senza l’appoggio dello sciopero generale, i bolscevichi non avranno le spalle coperte, mancheranno il colpo. A questo proposito, Trotzki ha definito l’insurrezione «un pugno tirato un paralitico». Per riuscire, occorre all’insurrezione che la vita di Pietrogrado sia paralizzata dallo sciopero generale. I capi dei sindacati non sono con i bolscevichi, ma le masse organizzate pendono dalla parte di Lenin. Non potendo avere le masse, Kerenski vuole assicurarsi i capi dei sindacati, farne i propri alleati. E con molta fatica ch’egli ne ottiene la neutralità. Quando Lenin apprende che Kerenski si è assicurato la neutralità delle organizzazioni sindacali, «Kamenew aveva ragione», dice a Trotzki «senza l’appoggio dello sciopero generale, la vostra tattica è destinata a fallire».
«Ho il disordine dalla mia parte», risponde Trotzki «è più di uno sciopero generale».
Per capire il piano di Trotzki, bisogna rendersi conto di ciò che è Pietrogrado in quei giorni. Folle enormi di disertori, che al primo segnale della rivoluzione di febbraio hanno abbandonato le trincee, rovesciandosi sulla capitale come per dare il sacco al regno della libertà, si accampano da sei mesi nelle strade e nelle piazze, stracciati, sudici, miserabili, ubriachi ed affamati, timidi e feroci, pronti alla sommossa e alla fuga, con cuore bruciato dalla sete della vendetta e della pace. Seduti lungo i marciapiedi della Prospettiva Newski, all’orlo della fiumana di popolo che scorre lentamente nella grande strada tumultuosa, file interminabili di disertori vendono armi, opuscoli di propaganda, sigarette, semi di girasole. Nella piazza Zuamenskaia, davanti alla stazione di Mosca, la confusione è indescrivibile: la folla ondeggia, cozzano nei muri, si ritrae come per prendere lo slancio, rotola in avanti con degli urli selvaggi, si infrange con un’onda schiumosa sulla resa dei carri, dei camion, dei tram, ammassati intorno alla statua di Alessandro III, con un clamore assordante che, di lontano, sembra il clamore di un massacro. Dopo il ponte sulla Fontanka, all’incrocio con la prospettiva Litenyi le voci degli strilloni annunziano i provvedimenti di Kerenski per fronteggiare la situazione, i proclami del Comitato militare rivoluzionario, del Soviet, della Duma municipale, le ordinanze del colonnello Polkownikow, comandante militare della piazza, per minacciare l’arresto dei disertori e proibire le dimostrazioni, i comizi e le risse. I giornali vanno a ruba. Agli angoli delle strade si formano assembramenti d’operai, di soldati, di studenti, di impiegati, di marinari, che discutono ad alta voce, con grandi gesti. Nei caffè e nelle stalovaie tutti ridono dei proclami del colonnello Polkownikow, che vuole arrestare duecentomila disertori di Pietrogrado e proibire le risse. Davanti al Palazzo d’Inverno sono appostate due batterie di settantacinque. Degli Junker, nei loro lunghi cappotti, passeggiano nervosamente dietro i pezzi. Una doppia fila di automobili militari è schierata innanzi al Palazzo dello Stato Maggiore Generale. Verso l’ammiragliato il giardino Alessandro è occupato da un battaglione di donne, sedute per terra intorno ai fasci dei fucili.
La piazza Mariiuskaia è affollata di operai, di marinai, di disertori cenciosi dai visi pallidi e magri: all’entrata del Palazzo Maria, dove siede il Consiglio della Repubblica, è di guardia un distaccamento di cosacchi, dalle alte sciapke di pelo nero calcate di traverso sopra un orecchio. I cosacchi fumano, parlano ad alta voce ridendo. Chi salisse fino in cima alla cupola della Cattedrale Isaak, vedrebbe ad ovest dense nuvole nere sorgere sulle officine di Putilow, dove già gli operai si preparano a infilar le cartucce nelle canne dei fucili. Più in là è il Golfo di Finlandia, e, dietro l’isola di Kotlin, e il forte di Cronstadt; di Cronstadt la rossa, dove i marinai dai chiari occhi infantili aspettano il segnale di Dybenko per marciare in aiuto di Trotzki, al massacro degli Junker. Dall’altro lato della città una nebbia rossastra grava sulle innumerevoli ciminiere del sobborgo di via borgo, dove si nasconde Lenin, pallido e febbricitante sotto la sua parrucca, che gli dà un’aria di piccolo commediante di provincia. Nessuno potrebbe riconoscere, in quell’uomo senza barba, dai capelli falsi incollati sulla fronte, il terribile Lenin che fa tremare la Russia. È là, nelle officine di Wiborg, che le guardie rosse di Trotzki attendono gli ordini di Antonow-Ovseienko. Nei sobborghi le donne hanno degli occhi duri nel viso triste: verso sera, appena l’oscurità allarga le strade, gruppi di donne armate si incamminano verso il centro della città. Sono i giorni delle migrazioni proletarie: masse enormi si spostano da un capo all’altro di Pietrogrado, tornano ai loro quartieri, alle loro strade, dopo ore e ore di marcia attraverso i meetings, le dimostrazioni e i tumulti. Nelle caserme, nelle officine, nelle piazze, i meetings si succedono al meetings. Tutto il potere ai soviet. Le voci rauche che degli oratori si spengono nelle pieghe delle bandiere rosse. Sui tetti delle case i soldati di Kerenski, seduti sui treppiedi delle mitragliatrici; ascoltano quelle voci rauche mangiando semi di girasole: ne gettano i gusci sulla folla raccolta giù nella piazza.
La notte cade sulla città come una nuvola morta. Nell’immensa Prospettiva Newski la massa dei disertori sale come una marea verso l’Ammiragliato. Davanti alla cattedrale di Kazan delle centinaia di soldati, di donne e di operai bivaccano distesi per terra. Tutta la città affonda nell’inquietudine, nel disordine e nel delirio. Da un momento all’altro degli uomini armati di coltello, ubriachi di sonno, usciranno da quella folla, si getteranno sulle pattuglie di Junker, sul battaglione di donne che difende il Palazzo d’Inverno; altri andranno nelle case, a cercare i borghesi coricati a occhi aperti nei loro letti. La febbre dell’insurrezione ha ucciso il sonno della città. Pietroburgo, come le Lady Macbeth, non può più dormire. L’odore di sangue ossessiona le sue notti.
Durante dieci giorni, metodicamente, nel centro della città, le guardie rosse di Trotzki si sono allenate alla tattica insurrezionale. È Antonow-Ovseienko che in pieno giorno, nel tumulto delle strade e delle piazze, nei pressi dei palazzi che costituiscono i punti strategici della macchina burocratica e politica, dirige le esercitazioni tattiche, quella specie di prova generale del colpo di Stato. La polizia e le autorità militari sono talmente ossessionate dalla minaccia di un’improvvisa sollevazione delle masse proletarie, sono così occupate a far fronte al pericolo, che non si accorgono dell’esistenza delle squadre di Antonow-Ovseienko. In quell’enorme confusione, chi dunque può prestare attenzione a quei piccoli gruppi di operai senz’armi, di soldati, di marinai, che si infilano nei corridoi delle Centrali telefoniche e telegrafiche, del Palazzo della Posta, dei Ministeri, della sede dello Stato Maggior Generale, osservando la disposizione degli uffici, gli impianti della luce elettrica e dei telefoni, fissandosi negli occhi e nella memoria il piano degli edifici, studiando la maniera di potervi penetrare di sorpresa al momento opportuno, calcolando le probabilità, misurando gli ostacoli, cercando nell’organizzazione difensiva della macchina tecnica, burocratica e militare dello Stato, i luoghi di minor resistenza, i lati deboli, i punti sensibili? Chi dunque può notare, nel disordine generale, quei tre o quattro marinai, quella coppia di soldati, quell’operaio dall’aria timida, che girano intorno ai palazzi, entrano nei corridoi, salgono le scale, si incrociano senza guardarsi? Nessuno può sospettare che quegli individui obbediscano a degli ordini precisi e dettagliati, eseguano un piano prestabilito, si allenino a delle esercitazioni tattiche il cui obiettivo è costituito dai punti strategici della difesa dello Stato. Sono delle manovre invisibili, che si svolgono sullo stesso terreno sul quale si accenderà la lotta decisiva. Le guardie rosse agiranno a colpo sicuro.
Trotzki è riuscito a procurarsi il piano dei servizi tecnici della città: i marinai di Dybenko, ai quali si sono aggiunti due ingegneri e degli operai specializzati, sono incaricati di studiare, sul terreno, la disposizione delle condutture sotterranee del gas e dell’acqua, dei cavi di trasmissione dell’energia elettrica, delle linee telefoniche e telegrafiche. Due marinari esplorano le fognature che passano sotto il palazzo dello Stato Maggiore Generale. Bisogna poter isolare un quartiere in pochi minuti, o anche soltanto un gruppo di case. Trotzki divide la città in settori, fissa i punti strategici, istituisce compiti, settore per settore, ha delle squadre composte di soldati e di operai specializzati. Accanto ai soldati occorrono dei tecnici. La conquista della stazione di Mosca è affidata a due squadre formate da 25 soldati lettoni, due marinari e 10 ferrovieri; tre squadre di marinai, d’operai e di ferrovieri, 60 uomini in tutto, sono incaricati dell’occupazione della stazione di Varsavia; per le altre stazioni, Dybenko dispone di squadre di 20 uomini ciascuna. Per il controllo del movimento delle linee ferroviarie, ad ogni squadra è addetto un telegrafista. Il 21 ottobre, sotto gli ordini diretti di Antonow-Ovseienko, che segue da vicino le esercitazioni, tutte le squadre si allenano alla conquista delle stazioni: questa prova generale si svolge con una precisione e una regolarità perfetta. Nello stesso giorno tre marinai si recano alla Centrale elettrica, presso l’entrata del porto. Il direttore della Centrale si rivolge ai tre marinai: "Siete voi" dice "gli uomini che ho chiesto al comando militare della piazza? Sono cinque giorni che mi hanno promesso d’accordarmi un servizio di protezione". I tre marinai bolscevichi si installano nella Centrale elettrica, per difenderla, dicono, contro le guardie rosse, nel caso di un’insurrezione. Nella stessa maniera alcune squadre di marinai s’impadroniscono delle altre tre centrali elettriche municipali.
La polizia di Kerenski e le autorità militari si preoccupano soprattutto di difendere l’organizzazione burocratica e politica dello Stato, i ministeri, il Palazzo Maria, sede del Consiglio della Repubblica, il Palazzo di Tauride, sede della Duma, il Palazzo d’Inverno, lo Stato Maggiore Generale. Trotzki, che si accorge in tempo di questo errore, riduce gli obiettivi della sua tattica ai soli organi tecnici della macchina dello Stato e della città. Il problema dell’insurrezione non è per Trotzki che un problema d’ordine tecnico. «Per impadronirsi dello Stato moderno» egli dice «occorre una truppa d’assalto e dei tecnici: delle squadre d’uomini armati, comandate da ingegneri». (110-120)

«Il suo fanatismo ha dei pudori di donna: è un asceta che non si guarda mai le mani. È morto nel 1926, in piedi, alla tribuna, mentre pronunciava una requisitoria contro Trotzki» (Dzerjinski, futuro creatore della polizia bolscevica, la Ceka poi Gpu 121).

«[Trotski] analizzava la psicologia dei soldati e dei marinai inglesi, per dedurre quale sarà la loro condotta quando riceveranno l’ordine di far fuoco sugli operai, scomponeva il meccanismo di un ammutinamento per mostrare au ralenti i gesti del soldato che si rifiuta di sparare, di quello che esita, e di quello che è pronto a scaricare il suo fucile su un soldato che si rifiuta di far fuoco» (138).

«Cromwell non aveva formato un esercito, ma un partito: il suo esercito era un partito in armi, ed è ciò che faceva la sua forza». I soldati di Crowell avevano ricevuto sul campo il nome di Costole di Ferro. «È sempre utile a una rivoluzione», aggiungeva Trotzki, «avere delle costole di ferro. In quanto a questo, gli operai inglesi hanno molto da imparare da Cromwell». (138)

«Nulla è perduto finché tutto non è perduto» (139)

«Le rivoluzioni non si fanno arbitrariamente» (Trotzki).

«L’insurrezione non si fa con le masse: ma con un pugno d’uomini pronti a tutto, allenati alla tattica insurrezionale, esercitati a colpire rapidamente e duramente centri vitali dell’organizzazione tecnica dello Stato. Questa truppa d’assalto deve essere formata di squadre di uomini armati, di operai specializzati, meccanici, elettricisti, telegrafisti, radiotelegrafisti, agli ordini di ingegneri, di tecnici, che conoscano il funzionamento degli organi tecnici dello Stato. (141)

«Non bisogna contare sui comunisti polacchi» affermava Radek: «Sono dei comunisti, ma non dei rivoluzionari» (142)

«Pagano per gli altri: e gli altri pagano per tutti» (Menjiski 147)

«Zinoview non è un vigliacco», dirà Trotzki di lui: Egli non scappa che di fronte al pericolo» (148)

A Pietrogrado, nel 1917, il giorno in cui Trotzki diede il segnale dell’insurrezione, nessuno si poteva accorgere di ciò che stava accadendo: i teatri, i cinematografi, i ristoranti, i caffè erano aperti; la tecnica del colpo di Stato aveva fatto grandi progressi nei tempi moderni.

L’opinione di Zangwili, benché falsa, era altamente rispettabile come tutte le opinioni inglesi (158).

La naturale inclinazione degli italiani alla retorica, all’eloquenza e alla letteratura (158)

Ogni tanto, camion carichi di camice nere si incrociavano a grande velocità nelle vie del centro: le camice nere portavano elmi d’acciaio, erano armate di fucili, di pugnali e di bombe a mano, e cantavano, sventolando bandiere nere dalle grandi teste di morto ricamate in argento (160)

«Coloro che pretendono di negare la violenza fascista e di far passare le camice nere per discepoli di Rousseau o di Tolstoi, sono gli stessi che, malati di retorica, d’eloquenza e di letteratura, vorrebbero far credere che Mussolini sia un antico romano, un condottiero del quattrocento, o un signore della Rinascenza, dalle mani bianche e dolci di avvelenatore e di platonico» (160)

"Le camice nere avevano occupato di sorpresa tutti i punti strategici della città della provincia, vale a dire gli organi vitali dell’organizzazione tecnica, le officine del gas, le centrali elettriche, la direzione delle poste, le centrali dei telefoni e dei telegrafi, i ponti, le stazioni ferroviarie. Le autorità politiche e militari erano state prese alla sprovvista dall’improvviso attacco. La polizia, dopo qualche vano tentativo di cacciare i fascisti dalla stazione ferroviaria, dalla direzione delle poste, e dalle centrali dei telefoni e dei telegrafi, si era rifugiata nel Palazzo Riccardi, sede della prefettura e antica dimora di Lorenzo il Magnifico, difeso da distaccamenti di Carabinieri e di Guardie Regie appoggiati da due autoblinde. Assediato nella prefettura, il prefetto Pericoli non poteva comunicare né col governo di Roma né con le autorità della città e della provincia: le linee telefoniche erano state tagliate, e mitragliatrici fasciste, appostate nelle case intorno, tenevano sotto la minaccia del loro fuoco tutte le vie d’uscita del Palazzo Riccardi. Le truppe della guarnigione, i reggimenti di fanteria, di artiglieria e di cavalleria, i Carabinieri e le Guardie Regie, erano consegnate nelle caserme: le autorità militari mantenevano per il momento una neutralità benevola. (161)

«Per il ministro della guerra le notizie vere sono sempre premature» (il principe Gonzaga 163)

La libertà di stampa non ha mai impedito ai giornali di pubblicare delle notizie false (163)

La città era deserta. Agli angoli delle strade erano appostate pattuglie di fascisti, immobili sotto la pioggia col loro fez nero messo di traverso sull’orecchio. In via dei Pecorini un camion era fermo davanti all’entrata della centrale dei telefoni: era uno di quei camion armati di mitragliatrici e foderati di lamiera che i fascisti chiamavano tanks. La centrale dei telefoni era stata occupata dalle truppe d’assalto della Giglio rosso, che portavano un giglio rosso sul petto: la Giglio rosso, con la Disperata, era una delle squadre più violente delle legioni fiorentine. Presso la stazione del campo di Marte incontrammo cinque camion carichi di fucili e di mitragliatrici, che le cellule fasciste della caserma di San Giorgio (nelle officine, nei reggimenti, nelle banche, nelle amministrazioni pubbliche, dappertutto vi erano cellule fasciste, che formavano la rete segreta dell’organizzazione rivoluzionaria) avevano consegnato al Comando Generale delle Legioni. Quei fucili e quelle mitragliatrici erano destinati a un migliaio di camice nere della Romagna, malamente armate solo di pugnali e di rivoltelle, e di cui si attendeva da un momento all’altro l’arrivo da Faenza. (163-164)

Un treno arrivava in quel momento in una nuvola di vapore e in un tuono di voci, di canzoni, di rulli di tamburo. «Sono i fascisti di Romagna» annunziò un ferroviere che passava con la sua carabina sulla spalla. Ci trovammo ben presto in mezzo a una folla di camice nere, dall’aria pittoresca e inquietante, con le loro teste di morto ricamate sul petto, elmi d’acciaio dipinti di rosso, e pugnali infilati nelle larghe cinture di cuoio. I loro visi bruciati dal sole avevano i lineamenti duri dei contadini romagnoli: baffi e barbette a punta davano a quei visi un’aria picaresca, ardita e minacciosa, di cui Israel Zangwill non si mostrava molto soddisfatto. Egli si faceva piccino piccino, sorrideva gentilmente, e cercava di aprirsi la strada in quella folla rumorosa con dei gesti cortesi, che attiravano su di lui gli sguardi meravigliati di quegli uomini armati di pugnale. «Non hanno l’aria molto amabile» si lamentava a voce bassa. (165)

Del resto, lo stesso Mussolini non è né vegetariano, né un christian scientist, né un socialdemocratico. La sua educazione marxista non gli permette di avere certi scrupoli tolstoiani. Egli non ha imparato le buone maniere politiche a Oxford, e Nietzsche lo ha disgustato per sempre del romanticismo della filantropia. Se Mussolini fosse un piccolo borghese dagli occhi chiari e dalla voce bianca, i suoi partigiani si allontanerebbero senza dubbio da lui per seguire un altro capo. Si è già visto l’anno scorso, quando egli volle concludere una tregua d’armi con i socialisti: vi furono perfino delle ribellioni e delle scissioni nel fascismo, che si dichiarava all’unanimità per la continuazione della guerra civile. Non bisogna dimenticare che le camicie nere provengono in genere dai partiti di estrema sinistra, quando non sono veterani della guerra, dal cuore indurito da quattro anni di linea, oppure giovani dagli slanci generosi. Non bisogna neppure dimenticare che il dio degli uomini armati non può essere che il dio della violenza. (166-167)

I ponti, le stazioni, gli incroci, i viadotti, le chiuse dei canali, i granai, i depositi di munizioni, le officine del gas, le centrali elettriche, tutti i punti strategici erano occupati da squadre fasciste. Pattuglie sorgevano all’improvviso dall’oscurità: «Dove andate?» Lungo le strade ferrate, ogni duecento metri, era appostata una camicia nera. Nelle stazioni di Pistoia, di Empoli, di San Giovanni Valdarno, squadre di ferrovieri fascisti si tenevano pronte con i loro utensili a togliere i binari in caso di estrema necessità. Tutte le misure per assicurare o per interrompere il traffico erano state prese. Si temeva che rinforzi di carabinieri e di truppa tentassero di scendere verso l’Umbria e il Lazio per prendere alle spalle le colonne di camice nere che marciavano sulla capitale. Un treno di Carabinieri, proveniente da Bologna, era stato fermato presso Pistoia, a qualche centinaio di metri dal famoso ponte di Baglioni: dopo uno scambio di fucilate, poi il treno era tornato indietro, non osando inoltrarsi sul ponte. Scaramucce avevano avuto luogo anche a Serravalle, sulla strada di Lucca: camion carichi di Guardie Regie erano stati presi sotto il fuoco delle mitragliatrici che difendevano l’accesso alla pianura di Pistoia. «Avrete letto senza dubbio nella Vita di Castracane, di Machiavelli, il racconto della battaglia di Serravalle» dissi al mio compagno.

Il liberalismo di Giolitti non era che dell’ottimismo senza scrupoli: cinico e diffidente, specie di dittatore parlamentare che aveva troppa abilità per credere alle idee e troppi pregiudizi per rispettare gli uomini, egli era riuscito a conciliare nel suo spirito il cinismo e la diffidenza con l’ottimismo, ciò che lo portava a creare le situazioni avendo l’aria di disinteressarsene, e a complicarle con ogni sorta di maneggi nascosti, fingendo di lasciarle maturare da se stesse. Egli non aveva nessuna fiducia nello Stato: è nel suo disprezzo per lo Stato che bisogna cercare il segreto della sua politica. (171)

Per avere le mani libere nella sua politica di parlamentarizzazione, cioè di corruzione, del proletariato. (171)

I capi dei sindacati conducevano la lotta a grandi colpi di sciopero: delle città, delle province, delle regioni intiere erano all’improvviso paralizzate da un conflitto che scoppiava in un piccolo borgo qualunque. Al primo colpo di fucile, c’era lo sciopero: al grido di angoscia delle sirene, le officine si vuotavano, le porte e le finestre delle case si chiudevano, il traffico si arrestava, le strade deserte prendevano quell’aria grigia nuda che hanno le tolde delle corazzate che si preparano al combattimento.
Gli operai, prima di abbandonare le officine, si equipaggiavano per la lotta: le armi uscivano da ogni parte, di sotto i banchi dei tornii, di dietro i telai, le dinamo, le caldaie; i mucchi di carbone vomitavano fucili e cartucce; uomini dai visi muti e dai gesti calmi scivolavano fra le macchine morte, gli stantuffi, i magli, le incudini, le gru, si arrampicavano sulle scale di ferro, sulle torrette, sui ponti di caricamento, sui tetti acuti ricoperti di vetro, andavano a prendere posizione per trasformare ogni officina in fortilizio. Bandiere rosse spuntavano in cima ai camini. Nei cortili gli operai si ammucchiavano in disordine, si dividevano in compagnie, in sezioni, in squadre; dei capisquadra dal bracciale rosso impartivano ordini; al ritorno dalle pattuglie inviate in ricognizione, gli operai abbandonavano le officine, camminando in silenzio lungo i muri per andare a occupare i punti strategici della città. Alle Camere del Lavoro affluivano da ogni parte le squadre esercitate alla tattica della guerra di strada, per difendere le sedi delle organizzazioni sindacali da un eventuale attacco delle camice nere: mitragliatrici erano appostate a tutte le uscite e sui tetti, granate a mano erano ammucchiate negli uffici presso le finestre. I ferrovieri staccavano le locomotive e proseguivano a tutta velocità verso le stazioni, abbandonando i treni in mezzo alla campagna. Le strade, nei paesi, erano sbarrate da carri messi di traverso, per ostacolare la mobilitazione fascista e impedire ai rinforzi di camice nere di spostarsi da una città all’altra. Appostate dietro le siepi, le guardie rosse contadine armate di fucili da caccia, di forche, di zappe, di falci, attendevano il passaggio dei camion fascisti. Le fucilate si sgranavano lungo le strade e le ferrovie, di villaggio in villaggio, contro i nemici dello Stato.
Nel vuoto minaccioso che lo sciopero creava intorno a loro, le squadre fasciste specializzate nella guerra di strada si appostavano agli incroci, le sezioni esercitate alla difesa e all’attacco delle case si tenevano pronte a partire per andare a rinforzare i punti deboli, a difendere le posizioni minacciate, a vibrare colpi rapidi e violenti nei nuclei dell’organizzazione avversaria; le truppe d’assalto, formate di camice nere esercitate alla tattica dell’infiltrazione, dei colpi di mano, delle azioni individuali, e armate di pugnali, di granate e di materiale incendiario, attendevano presso i camion che dovevano trasportarle sul terreno della lotta. Erano quelle le truppe scelte destinate alle rappresaglie. Nella tattica delle camice nere, la rappresaglia era uno degli elementi più importanti. Appena l’uccisione di qualche fascista era annunziata in un sobborgo o in un villaggio, le truppe d’assalto partivano a compiere la rappresaglia, all’avvicinarsi delle camice nere, le guardie rosse, i capi socialisti, i segretari dei sindacati, i conduttori di scioperi, fuggivano nelle campagne, si rifugiavano sui monti. Talvolta era la popolazione intera di qualche villaggio, dov’era avvenuta l’uccisione di un fascista, che fuggiva per i campi: le truppe d’assalto arrivando trovavano le case vuote, le strade deserte, e un cadavere in camicia nera disteso sul lastrico. (175-177).

L’ipocrisia dei capi delle organizzazioni dei lavoratori non impediva che ci fossero dei morti anche nelle file delle camice nere. Non bisogna credere che i fascisti non abbiano conosciuto rovesci molto gravi. Talvolta dei quartieri, dei paesi, delle regioni intiere insorgevano in armi. Lo sciopero generale dava il segnale dell’insurrezione. Le camice nere erano assalite nelle loro case, le barricate sorgevano nelle strade, bande di operai e di contadini armati di fucili e di granate occupavano le campagne, marciavano sulla città, davano la caccia ai fascisti. Il massacro di Sarzana basterebbe a mostrare che gli operai non erano così ipocriti come i loro capi. Nel luglio 1921, nella città di Sarzana, una cinquantina di camicie nere furono massacrate; i feriti furono sgozzati sulle barelle, sulla soglia degli ospedali; la cronaca della preparazione del colpo di Stato fascista, è piena di questi episodi di feroce violenza.
Per domare gli scioperi rivoluzionari e l’insurrezione degli operai e dei contadini, che divenivano sempre più gravi fino a paralizzare intere regioni, i fascisti adottarono la tattica dell’occupazione sistematica delle regioni minacciate. Da un giorno all’altro, concentramenti di camicie nere avevano luogo nei centri indicati nel piano di mobilitazione: migliaia e migliaia di uomini armati, qualche volta 15 o 20.000, si rovesciavano sulle città, sui paesi, sui villaggi, spostandosi rapidamente in ferrovia e in camion da una provincia all’altra. In poche ore tutta la regione era occupata e sottomessa allo stato d’assedio. Tutto ciò che restava dell’organizzazione socialista e comunista, Camere del lavoro, sindacati, circoli operai, giornali, cooperative, era disciolto o distrutto metodicamente. Le guardie rosse che non avevano avuto il tempo di prender la fuga, venivano purgate, pettinate e rimesse a nuovo: durante due o tre giorni i manganelli lavoravano su centinaia di kilometri quadrati. Alla fine del 1921 questa tattica, applicata in maniera sistematica su una scala sempre più vasta, aveva spezzato le reni all’organizzazione politica sindacale del proletariato. Il pericolo della rivoluzione russa era allontanato per sempre: il cittadino Mussolini aveva ben meritato della patria: compiuta la loro missione, pensavano i borghesi d’ogni specie, le camice nere potevano andare a dormire. E si dovevano presto rendersi conto che la vittoria del fascismo sui lavoratori aveva spezzato le reni anche allo stato. (178-179)

Giolitti, che aveva giocato contro il fascismo la carta dei sindacati operai, era stato preso alla sprovvista dal crollo improvviso delle organizzazioni dei lavoratori. (182)

Non gli restava che tentare di parlamentalizzare il fascismo, vecchia tattica di quel liberale che aveva dato all’Italia, durante gli ultimi trent’anni, il modello di una dittatura parlamentare al servizio di una Monarchia senza pregiudizi costituzionali. Mussolini, il cui programma politico non impacciava la tattica rivoluzionaria, non si fece prendere nel gioco che un solo dito della mano sinistra. (182)

Il fascismo si trovava nella necessità di fare il vuoto intorno a sé, di far tabula rasa di ogni forza organizzata, politico sindacale, proletario borghese, sindacati, cooperative, circoli operai, camera del lavoro, giornali, partiti politici. (184)

Le truppe d’assalto di Mussolini erano formate in gran parte di operai, di piccoli artigiani e di contadini. (184)

La carta geografica della penisola, questo stivale pieno di città, di borghi ed uomini inquieti. (185).

Non si scrive la storia sulla base delle oleografie d’occasione, né sulla base dei quadri dei pittori ufficiali. (187)

alla vigilia dell’insurrezione, tutti gli avversari del fascismo, le organizzazioni sindacali dei lavoratori, i comunisti, i partiti socialista, repubblicano, cattolico, democratico, liberale, sono fuori di combattimento. (188)

nel termine di 24 ore, tutta l’Italia è occupata militarmente da 200.000 camice nere (189).

Benché il realismo di Mussolini, appoggiato da 200.000 fucili, non abbia ancora avuto il tempo di invecchiare, un re costituzionale lo deve preferire al realismo di un governo disarmato (189).

Basta entrare in qualunque negozio caffè di Brown a uno o di links, in Austria, di passato o di glande asciutto, in Baviera, per accorgersi che tutti commessi tutti camerieri assomigliano a Hitler chiudi". Secondo i suoi avversari, il segreto del successo personale di un uomo che, senza meritare di esser preso per un qualunque commesso di negozio o cameriere di Bra una buco di London shuttle, possiede nondimeno tutti tratti fisici della mediocrità dello spirito borghese tedesco, non sarebbe che l’eloquenza, la seduzione della sua nobile, ardente e virile eloquenza (192-193).

La rete dei nuclei hitleriane, il cui centro è Monaco, si estende di città in città su tutto il territorio della Germania (193).

Depositi di munizioni, di fucili, di mitragliatrice di lanciafiamme sono scaglionate in tutta la Baviera, nell’arenaria e lungo le frontiere dell’est (194)

Un politicante eloquente e cinico (detto di Hitler 194).

Qualche scambio di revolverate nei quartieri proletari delle grandi città (194).

Nell’interno del partito nazionalsocialista la libertà di coscienza, il senso della dignità, l’intelligenza, la cultura, sono perseguitati con quell’odio stupido e brutale che caratterizza i dittatori di terz’ordine (194-195)

Hitler è obbligato di quando in quando a far delle concessioni agli estremisti, tale l’abbandono della Reichstag da parte dei deputati nazionalsocialisti, ma le sue concessioni non fanno mai perdere di vista l’obiettivo del suo opportunismo rivoluzionario, la conquista legale del potere (197-198).

La matraque uno dei suoi peccati di gioventù, uno di quei peccati che fanno le cattive reputazioni ma non impediscono i matrimoni d’interesse (197-198)

La creazione, a Monaco, di una scuola per l’allenamento delle truppe d’assalto alla tattica insurrezionale (198).

Ho udito a Mosca, da un bolscevico che è stato uno degli esecutori più importanti della tattica insurrezionale di Trotzki durante il colpo di Stato dell’ottobre 1917, un singolare giudizio su Hitler: «Egli ha tutti i difetti e tutte le qualità di Kerenski. Anch’egli, come Kerenski, non è che una donna» (201-202)

La dittatura non è soltanto una forma di governo, è la forma più completa della gelosia, nei suoi aspetti politici, morali e intellettuali (202)

Come tutti i dittatori, Hitler non ama che coloro ch’egli può disprezzare (202)

«Il ne cour sur son compte aucune histoire de femme» afferma uno dei suoi biografi. Si dovrebbe piuttosto dire, dei dittatori, che non corre sul loro conto «aucune histoire d’homme» (203).

Una dittatura non si accetta: si subisce (205)