Sergio Romano, Corriere della Sera 25/07/2013, 25 luglio 2013
L’ORDINATO GRAN CONSIGLIO CHE ESAUTORO’ MUSSOLINI
Le fotografie scattate in Italia negli ultimi giorni del luglio 1943 mostrano manifestazioni di giubilo, fasci scalpellati, teste di Mussolini che rotolano sul selciato. È l’Italia antifascista che esce dalla clandestinità ed è finalmente libera di sfogare la sua rabbia contro il regime? In parte, forse. Ma nella caduta del regime, nonostante gli scioperi scoppiati a Torino e a Milano verso la fine di marzo, il popolo non ebbe alcuna parte. Il fascismo cadde per la spontanea convergenza di alcune trame tessute al vertice dello Stato e soprattutto grazie alla collaborazione della vittima. Non vi sarebbe stato cambiamento di regime se il suo leader, il cavaliere Benito Mussolini, non avesse dato un contributo determinante alla propria uscita di scena.
Occorre fare un passo indietro e ricordare quale fosse la situazione militare dopo l’accerchiamento dell’armata tedesca a Stalingrado nel novembre del 1942. In gennaio gli inglesi erano entrati a Tripoli, in maggio la Tunisia era caduta nelle mani degli Alleati, l’11 giugno le truppe anglo-americane si erano impadronite di Pantelleria e Lampedusa, il 9 luglio era cominciato lo sbarco in Sicilia. Nessuno ormai poteva ignorare che gli Alleati, dopo la conquista dell’isola, avrebbero attraversato lo stretto di Messina e che l’Italia non sarebbe stata in grado di fermarli. Il re, la corte, gli ambienti del fascismo «moderato», qualche monsignore e gli esponenti dell’Italia prefascista, fra cui Ivanoe Bonomi, giunsero tutti, più o meno contemporaneamente, alla conclusione che l’Italia sarebbe sopravvissuta soltanto se fosse riuscita a separare il proprio destino da quello della Germania.
Che quelle idee circolassero al vertice del Paese era noto, beninteso, anche a Berlino. Dopo la lettura di un rapporto sulle condizioni politiche e morali dell’Italia, Hitler convocò Mussolini a Feltre il 19 luglio e gli inflisse una interminabile predica sui doveri del guerriero, che il Duce del fascismo ascoltò in silenzio con una combinazione di fastidio e avvilimento. I tedeschi, tuttavia, non si accontentarono di predicare e si prepararono all’eventualità di un «tradimento» italiano, predisponendo un piano per l’immediata occupazione militare della penisola e la neutralizzazione delle forze italiane.
Mentre ascoltava Hitler a Feltre, Mussolini sapeva che avrebbe avuto nel tardo pomeriggio del 24 luglio un incontro ancora più difficile. Dopo avere lungamente resistito, aveva ceduto alle richieste di un gruppo di gerarchi che chiedevano la convocazione del Gran Consiglio del fascismo. L’organo era stato creato nel dicembre del 1922 e sarebbe dovuto diventare una specie di Politburo del regime. Mussolini lo aveva usato suo piacimento per alcune decisioni importanti (la proclamazione dell’impero nel 1936, le leggi razziali nel 1938, la dichiarazione di non belligeranza nel 1939), senza lasciargli grandi margini di autonomia. Ma il Gran Consiglio era pur sempre il luogo dove sedevano attorno allo stesso tavolo tutti i maggiori esponenti del regime. Dino Grandi voleva servirsene per la presentazione di un ordine del giorno che avrebbe di fatto esautorato il Duce e restituito al re tutti i poteri e le prerogative che gli erano conferiti dallo Statuto albertino. Non sapeva come Mussolini avrebbe reagito nel corso della riunione e mise in tasca, prima di uscire di casa, una bomba a mano.
I suoi timori non si avverarono. La riunione cominciò con una descrizione della situazione militare, che tutti gli intervenuti descrissero con tinte molto fosche. Vi furono parecchi giri di tavolo, durante i quali vennero presentati altri ordini del giorno e Mussolini cercò di controbattere gli argomenti di Grandi. Ma la sua presidenza fu complessivamente impeccabile. Lasciò intravedere segni di stanchezza, ma ascoltò attentamente tutti gli interventi e al momento del voto dette la precedenza al documento preparato da Grandi. I «sì» furono diciannove (fra cui quelli di alcuni pilastri del regime: Bottai, Ciano, De Bono, De Vecchi, Federzoni), i «no» 7; e Mussolini riconobbe la vittoria dei suoi avversari dicendo: «L’ordine del giorno Grandi è approvato… Signori, con questo ordine del giorno voi avete aperto la crisi del regime… La seduta è tolta». Erano le tre del mattino del 25 luglio.
Il giorno seguente Mussolini entrò nel suo studio di Palazzo Venezia alle otto e si comportò per il resto della sua giornata di lavoro come se nulla di quanto era accaduto nelle ore precedenti potesse incrinare la sua autorità. Era convinto di potere riconquistare il controllo della situazione o segretamente contento di avere perduto una partita da cui sarebbe uscito, comunque, sconfitto? Chiese un’udienza con il re per le cinque del pomeriggio, ricevette l’ambasciatore del Giappone, ebbe una lunga conversazione con la moglie Rachele, molto più preoccupata di lui, visitò il quartiere bombardato di San Lorenzo. Certo non si aspettava in quel momento che Vittorio Emanuele, durante l’udienza di Villa Savoia, avrebbe chiesto le sue dimissioni. Fu colto di sorpresa? Poteva reagire, annunciare un appello al partito, invocare l’intervento della milizia, prospettare la possibilità di un intervento tedesco in suo favore. Si piegò invece docilmente alla volontà del sovrano e obbedì senza battere ciglio al capitano dei carabinieri che gli chiedeva di salire su un’ambulanza parcheggiata davanti alla villa. Tutto ciò che accadde da quel momento sino alla liberazione dal Gran Sasso dà l’impressione che Mussolini considerasse conclusa la sua avventura politica.
Il 25 luglio, dopo 21 anni di un regime che si proclamava totalitario, l’Italia aveva dato prova di una certa correttezza costituzionale. Era diventata fascista quando Vittorio Emanuele aveva conferito a Mussolini l’incarico di formare il governo. Era diventata nuovamente «albertina» quando il Gran Consiglio del fascismo aveva chiesto al re di riappropriarsi dei poteri a cui aveva liberamente rinunciato per una intera generazione. Sappiamo come andarono le cose nei mesi seguenti. Il governo Badoglio firmò un armistizio dietro le spalle della Germania, ma non riuscì impedire che i tedeschi, nel frattempo, presidiassero militarmente il Paese. Concordò con gli Alleati un’operazione militare per impedire che Roma cadesse in mano ai tedeschi e che la Germania consolidasse il suo controllo della penisola. Ma gli errori di entrambe le parti ebbero per effetto un’Italia spaccata in due e una lunga guerra civile. Resta il fatto, tuttavia, che la formula utilizzata per la caduta del regime non fu priva, grazie alla collaborazione di Mussolini, di scaltrezza e buon senso. Oggi sappiamo che, dopo la riunione del Gran Consiglio, alcuni fedeli suggerirono a Mussolini un colpo di forza con l’arresto degli oppositori. A quei consigli il capo del fascismo, secondo le memorie di Carlo Scorza (allora segretario del partito), avrebbe risposto: «Arrestarli tutti? Occupare Roma con la divisione M e con l’aiuto eventuale dei tedeschi? Chiedere l’aiuto allo straniero per risolvere le cose interne? E il re come reagirebbe? La possibilità di una guerra civile alle spalle delle truppe schierate contro il nemico? (…) Soluzione da scartarsi anche nel caso dell’esistenza di una congiura, non solo perché delittuosa nei confronti dei soldati che combattono, ma soprattutto perché niente affatto risolutiva nel confronti del problema centrale, del come cioè trarre il Paese fuori da questa situazione… Tutto può essere considerato importante, e forse anche lo è, ma niente è essenziale come il dovere di trarre in porto la barca della nazione che fa acqua da molte parti».
Se i buchi nella barca non li avesse fatti lui, verrebbe voglia di concludere che, fra i molti protagonisti del 25 luglio, Mussolini non fu il peggiore.
Sergio Romano