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 2013  luglio 25 Giovedì calendario

GLI ODG CONTANO PROPRIO NULLA

La cronaca parlamentare si arricchisce sempre più di ordini del giorno. Non contano nulla. Il governo, rappresentato quasi costantemente da un sottosegretario, sovente li accetta addirittura in blocco, almeno come raccomandazioni. Spesso sollecita il ritiro di emendamenti sgraditi, con l’offa, per i presentatori, di approvar loro eguali ordini del giorno.

I grillini, bloccati negli emendamenti, mutano gli emendamenti in ordini del giorno, però a fini ostruzionistici. Tutto, ovviamente, resta come prima. Di splendidi ordini del giorno è lastricata la via dell’inferno, e volendo pure quella del paradiso: i concreti risultati sono pari a zero. I parlamentari fingono di appagarsene, per potersi vantare di avere «impegnato il governo», di solito a «valutare l’opportunità di» fare qualcosa che il governo si guarderà bene dal fare.

C’è un’eccezione, in un secolo e mezzo di vita unitaria delle nostre istituzioni, che da sola, in verità, basterebbe a distruggere questo assunto sull’inanità di simili strumenti. È l’eccezione che oggi quasi tutta la stampa ricorda, nel 70° anniversario: l’ordine del giorno Grandi, approvato a larga maggioranza dal Gran Consiglio del fascismo, che il 25 luglio 1943 sancì il crollo del regime.

Vittorio Emanuele era molto ligio alle forme. Le aveva rispettate con la designazione di Mussolini nell’ottobre del ’22. Gli aventiniani si paralizzarono da soli, con la loro assenza dai lavori parlamentari, favorendo il permanere di un presidente del Consiglio cui il parlamento non negava la fiducia (e il sovrano lasciò in carica Mussolini). Dopo la svolta dell’autunno ’42, segnata da Stalingrado ed el Alamein, il re aveva bisogno di un pretesto costituzionale per licenziare il duce. Avrebbe potuto fornirglielo la Camera, come egli fece comprendere a Grandi che la presiedeva (assommando la carica di guardasigilli, fino al febbraio ’43); ma Montecitorio ormai lavorava soltanto tramite le commissioni. Avrebbe potuto elargirglielo il Consiglio dei ministri. In effetti, il 19 giugno ’43 due ministri (Alfredo de Marsico, titolare della Giustizia, e Vittorio Cini, responsabile delle Comunicazioni) sollevarono il problema di dare una soluzione politica alla guerra; ma Mussolini troncò la discussione, asserendo che il Consiglio dei ministri non si occupava di politica.

Venne, allora, l’aggancio costituzionale fornito da un organo dello Stato, quale era divenuto il Gran Consiglio dopo la cosiddetta costituzionalizzazione. Lì si discuteva di politica. La soluzione formale fu data, appunto, dall’ordine del giorno Grandi. Come in tutti i consimili documenti, molte parole erano superflue. Non lo era, invece, sul piano costituzionale, l’invito al governo perché pregasse il re di «assumere con l’effettivo comando delle Forze armate _ quella suprema autonomia di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono». Dunque, il comando «effettivo» delle Forze armate (prima delegato a Mussolini) e la «suprema autonomia di decisione». Non è un caso che la stesura del documento fosse stata rivista dal guardasigilli de Marsico, sul piano giuridico. Il re ebbe quindi, tramite l’ordine del giorno del Gran Consiglio, il motivo fondante per il cambio di governo. Era un ritorno puro e semplice alla lettera del quasi centenario Statuto albertino, esattamente all’art. 5 («Al Re solo appartiene il potere esecutivo»), rinforzato dall’art. 65 («Il Re nomina e revoca i suoi Ministri»: rilevante il possessivo). L’ordine del giorno, non casualmente, faceva riferimento alla necessità di attribuire alle istituzioni «i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali». E, diversamente dagli ordini del giorno parlamentari odierni, ebbe seguito, tanto immediato quanto storicamente decisivo.