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 2013  luglio 24 Mercoledì calendario

Il decreto del fare incassa la fiducia alla Camera con 427 sì e 167 no. Sel, Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno votato contro

Il decreto del fare incassa la fiducia alla Camera con 427 sì e 167 no. Sel, Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno votato contro. E confermano la scelta dell’ostruzionismo, presentando 251 ordini del giorno (circa 200 del solo M5S) che devono essere discussi dopo la fiducia e prima del voto finale. Il timore del governo è che, a causa dell’ostruzionismo annunciato dai grillini, il dibattito richieda parecchie ore. Il che lascia presagire una seduta fiume della Camera. Il provvedimento contiene diverse misure volte a sostenere il flusso del credito alle imprese, semplificare la burocrazia e abbreviare la durata dei procedimenti civili. DICHIARAZIONI DI VOTO - «Noi non vi daremo la fiducia ma vi daremo qualche consiglio, nei prossimi mesi avremo bisogno di un governo che faccia delle scelte più impegnative» dice durante le dichiarazioni di voto il capogruppo di Sel, Gennaro Migliore. «Mi sono chiesto cosa volesse dire decreto del fare. Poi ho capito: voleva dire fare marchette» è invece la dichiarazione di Matteo Bragantini della Lega. M5S - «Con il decreto del fare aumentano le accise sulla benzina ancora una volta. L’ennesima presa in giro per trovare soldi che finanzino questa trovata propagandistica di basso livello» scrive su Facebook il vicepresidente della Camera ed esponente del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio. «Useremo tutti gli strumenti in nostro possesso - prosegue - per far riflettere Parlamento e governo su questa ennesima scelta scellerata». In tarda mattinata, i deputati Nuti, Di Maio, Fraccaro e Vacca tengono una conferenza stampa alla Camera per illustrare «la strategia parlamentare del Movimento 5 Stelle» e denunciare «la sottrazione del Governo agli atti ispettivi, fornendo i numeri di queste mancanze». «Chissà se i militanti e gli elettori del Movimento di Grillo sanno che i loro deputati stanno bloccando il decreto del fare con un ostruzionismo fine a se stesso, messo in campo perché il governo, dopo un ampio confronto in commissione che ha portato ad accogliere anche proposte del M5S, non ha accettato la pretesa di avere approvati ad ogni costo altri loro emendamenti - attacca la vice presidente democratica della Camera, Marina Sereni -. Chissà se sanno che questo atteggiamento sta mettendo a rischio la possibilità che la Camera decida sulla legge contro l’omofobia e sulla riforma che supera il finanziamento pubblico dei partiti». 24 luglio 2013 | 13:37 IL SOLE240RE.COM Dal fisco all’edilizia, dalla nautica alla giustizia, dai lavori pubblici all’energia. Il decreto legge 69/2013, cosiddetto decreto del fare, in vigore dal 22 giugno, interviene su molteplici macro-aree con interventi mirati a rilanciare l’economia del Paese. Nella Guida "Il decreto del fare" gli esperti del Sole 24 Ore spiegano le novità e ne evidenziano le implicazioni. Tra i molteplici interventi ricordiamo la limitazione dei poteri di Equitalia, che non potrà più pignorare la prima casa, l’allungamento della rateazione per saldare i con l’erario; il venir meno della responsabilità solidale per l’Iva negli appalti e il rilancio dei cantieri grazie a un investimento di 2 miliardi e quattrocento milioni di euro. Un ampio spazio è anche dedicato alla giustizia: torna la conciliazione obbligatoria, si ricorrerà ai giudici ausiliari per smaltire le cause arretrate e viene istituito l’ufficio del processo per favorire la formazione sul campo dei giovani. ILSOLE24ORE.COM Con 427 voti a favore e 167 contrari il Governo Letta ha incassato alla Camera il secondo voto di fiducia della sua storia posta sulla conversione in legge in prima lettura del cosiddetto "decreto del fare". Contro la fiducia si erano dichiarati i gruppi di opposizione: M5S, Sel e Lega. È iniziato ora l’esame degli ordini del giorno per arrivare successivamente al voto sul merito del provvedimento. L’esame sarà interrotto alle 15 per il question time in aula con il Governo. Con l’inizio dell’esame degli ordini del giorno inizia anche l’ostruzionismo annunciato da Cinque Stelle e Sel. In conferenza stampa, il capogruppo Riccardo Nuti conferma la linea dura: «Useremo qualunque atteggiamento» per far slittare il Dl, perché, spiega, «Chiediamo da settimane di spostare l’esame della riforma costituzionale a settembre. La nostra strategia, precisa il vicepresidente M5S della Camera, Luigi Di Maio, «partirà da oggi e andrà avanti a oltranza, finché il provvedimento non verrà spostato a settembre. La nostra campagna di ostruzionismo continuerà finché il testo di legge non uscirà dal calendario di luglio e agosto. Non esiste che in piena estate si discuta un ddl così importante». articoli correlati Respinge nettamente l’ipotesi di un cambiamento di programma nei lavori parlamentari il ministro per le Riforme, Gaetano Quagliariello, che arrivando alla Camera spiega ai giornalisti come sui tempi «è difficile transigere», perché Letta «ha preso un impegno sui 18 mesi», e se il ddl sulle riforme costituzionali «non passasse ora, non sarebbe una questione di un mese ma bensì di due-tre mesi», dunque «non si tratterebbe di un rinvio di pochi giorni». «Se ci sono ragioni di merito - aggiunge Quagliariello - siamo disposti a parlarne, ma l’opposizione fa il suo mestiere e sono sicuro che anche la maggioranza farà il suo». «Chissà se i militanti e gli elettori del Movimento di Grillo sanno che i loro deputati stanno bloccando il decreto "del fare" con un ostruzionismo fine a se stesso, messo in campo perche’ il governo, dopo un ampio confronto in commissione che ha portato ad accogliere anche proposte del M5S, non ha accettato la pretesa di avere approvati ad ogni costo altri loro emendamenti», si chiede invece la vicepresidente Pd della Camera, Marina Sereni, che rileva il rischio che la Camera non sia messa in condizione di decidere sulla legge contro l’omofobia e sulla riforma che supera il finanziamento pubblico dei partiti. E conclude: «Alla prova dei fatti il M5S non vuole cambiare nulla. Vuole che tutto resti com’è per poter continuare ad esistere..». ILSOLE24ORE.COM «Sulla competitività dell’Italia pesa l’economia in nero che é quantitativamente importante, distorce la concorrenza e produce inefficienza». È quanto ha sottolineato il premier, Enrico Letta, incontrando i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate insieme al ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. «L’evasione - ha sottolineato Letta - é un problema di concorrenza e competitività, innanzitutto». Le tasse sono troppo alte perché non tutti le pagano In Italia, ha proseguito il premier, «le tasse sono troppo alte perché non tutti le pagano». Il premier ha anche sottolineato che tutti i soldi che saranno recuperati dall’evasione saranno utilizzati per ridurre la pressione fiscale. «È un nostro impegno», ha aggiunto il presidente del Consiglio. video Letta incontra i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate e di equitalia Basta alla faciloneria nell’uso delle risorse pubbliche «Vedo con quanta faciloneria si usano le risorse pubbliche, senza andare a verificare il rapporto tra queste risorse e gli usi, che non possono essere sballati o dettati da qualche lobby o interesse politico che vince alle 2 del mattino di fronte a una Commissione», ha sottolineato il premier, Enrico Letta. «L’impegno che dobbiamo prendere - ha osservato Letta - é quello di essere attenti nell’uso equilibrato e parsimonioso del denaro pubblico, un impegno che prendo di fronte a voi per far sì che l’evasione e l’elusione crollino. Dobbiamo essere in grado di usare bene queste risorse». Il premier ha evidenziato la necessità di rilanciare la spending review e «andare a scovare le tante sacche di improduttività e inefficienza». Lotta senza quartiere per recuperare le risorse, anche nei paradisi fiscali Il governo, inoltre, promette «una lotta senza quartiere per recuperare le risorse ovunque esse siano, in Svizzera o nei paradisi fiscali. Lo faremo e lo faremo con forza e determinazione», ha detto il premier. «Gli italiani che hanno portato i soldi all’estero devono sapere che il clima è cambiato e che conviene anche a loro riportare i soldi in Italia perchè la situazione internazionale non consente più di avere le coperture che hanno avuto finora», ha detto il premier. Enrico Letta, in visita all’Agenzia delle entrate.Fino a poco tempo fa «nel nostro Paese sul lassismo e l’evasione fiscale non si è parlato un linguaggio efficace, solo da poco si parla di urgenza e di impossibilità di perdere tempo», ha detto il premier. L’equità è la base della convivenza civile Bisogna «applicare la Costituzione», che contiene «parole nette». L’equità «é la base della convivenza civile», ha detto il premier Enrico Letta, incontrando i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia. Letta ha espresso «riconoscenza» per «il lavoro oscuro che portate avanti». Il pagamento rapido dei pagamenti dei debiti della Pa, ha detto Letta, «é un messaggio forte: chiediamo il rispetto delle regole ma il primo a rispettarle deve essere lo Stato. Purtroppo sappiamo che non é sempre stato così». Commentando il voto di fiducia al decreto del Fare Letta ha sottolineato come «il voto di fiducia alla Camera è un segnale molto importante». Saccomanni: guardiamo con fiducia ai progressi nella lotta all’evasione «Guardiamo con fiducia al progresso della lotta all’evasione» e alla dimensione «culturale» di questo progresso, ha detto il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, nel corso di un incontro con i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate. Saccomanni: in arrivo un libro bianco sull’evasione Saccomanni ha annunciato che nelle prossime settimane il Ministero dell’Economia, in collaborazione con l’Agenzia delle entrate e la Guardia di Finanza, pubblicherà un libro bianco sulla lotta all’evasione fiscale: «cercherà di spiegare cosa é la lotta all’evasione fiscale e perché si fa». Saccomanni: la Svizzera è pronta a cooperare Anche la Svizzera «é pronta a cooperare» sul fronte della lotta all’evasione, all’elusione e all’erosione fiscale, ha sottolineato il ministro dell’Economia. «C’é un crescente consenso internazionale alla lotta all’evasione, all’elusione e all’erosione fiscale che - ha spiegato Saccomanni - sono pilastri che dobbiamo aggredire». Il ministro ha ricordato che anni fa l’Italia «era abbastanza isolata, ma oggi c’é una sostanziale identità di vedute nel G20 e anche la Svizzera é pronta a cooperare su questo fronte». Befera: l’evasione danneggia la credibilità del Paese L’evasione fiscale «danneggia la credibilità e la competitività dell’Italia». È quanto ha sottolineato il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, aprendo l’incontro del Presidente del Consiglio, Enrico Letta, e del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, con i dipendenti dell’Agenzia ed Equitalia.«La vostra presenza tra noi - ha sottolineato Befera rivolgendosi al premier e al ministro dell’Economia - rafforza la nostra azione per dare risposta all’evasione fiscale che danneggia la credibilità e la competitività dell’Italia». Per Befera «chi ostacola di più il nostro lavoro non sono i piccoli o grandi evasori ma coloro che con la corruzione e l’inefficienza dilapidano il denaro pubblico». PEZZO DEL CORRIERE DI STAMATTINA LORENZO SALVIA ROMA — Da una parte la solita montagna di emendamenti, quasi 800, dall’altra un calendario già fitto con sei decreti da convertire in legge entro l’estate. E alla fine il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, annuncia ufficialmente nell’Aula di Montecitorio quello che già si era capito da qualche giorno: il governo mette la fiducia sul decreto del fare, il provvedimento approvato il 22 giugno dal consiglio dei ministri per rilanciare l’economia e che contiene un’infinità di misure, dall’impignorabilità della prima casa al rilancio dei cantieri con un investimento da 2 miliardi e 400 milioni. Ad essere approvato sarà il testo uscito dalle commissioni Bilancio e Affari costituzionali, con le ultime modifiche sulla liberalizzazione del wi-fi pubblico e sul tetto per gli stipendi dei manager. Un modo per non buttare via tutto il lavoro fatto in Parlamento e una prassi consolidata già con il governo Monti. In tre mesi da presidente del Consiglio Letta arriva stamattina al secondo voto di fiducia. E al di là dello scontato superamento dello scoglio, sarà interessante misurare il suo indice di gradimento che un mese fa, sul decreto emergenze, aveva fatto segnare 383 sì. Con il voto di fiducia cadono tutti gli emendamenti che non saranno messi ai voti. Ma nemmeno così i tempi non si annunciano brevi e il voto finale potrebbe slittare a domani o addirittura a venerdì. Il Movimento 5 Stelle annuncia ostruzionismo e oggi iscriverà a parlare tutti i suoi deputati depositando una montagna di ordini del giorno, che non modificano il testo del decreto ma impegnano il governo ad attuarlo in un certo modo. Poco cambia se questi impegni vengono poi raramente mantenuti, l’obiettivo del movimento di Beppe Grillo è ostacolare il percorso di un testo considerato «impresentabile». La situazione è precipitata a metà mattina. Per sveltire i tempi la maggioranza aveva deciso di ridurre a dieci gli emendamenti da presentare in Aula, anche la Lega e Sel avevano accettato di sfoltire parecchio il pacchetto delle modifiche da proporre. Il Movimento 5 Stelle aveva chiesto al governo di accettare «otto/nove punti qualificanti». Sono loro stessi a fare l’elenco: ridurre gli incentivi per gli inceneritori, togliere la deregulation sulle sagome degli edifici demoliti e ricostruiti, favorire il pagamento degli stagisti del ministero della Giustizia, aprire un fondo di sostegno alle piccole e medie imprese in cui poter versare le eccedenze degli stipendi dei parlamentari, rendere «più aperta e democratica» la gestione della Cassa depositi e prestiti, e altre misure ancora. Durante la riunione del comitato dei 18, l’organo che istruisce i lavori dell’aula della Camera, il governo si era detto pronto ad accogliere quattro richieste: quella sugli stagisti del ministero della Giustizia, quella sul fondo per le Pmi, aprendo poi anche sul divieto di delocalizzazione per le aziende che hanno ricevuto finanziamenti agevolati e sull’estensione della Tobin tax ad alcuni prodotti finanziari. L’accordo, però, non è arrivato e il Movimento 5 Stelle ha insistito sull’intero pacchetto. A quel punto il governo ha deciso di mettere la fiducia e il ministro Franceschini ha dato l’annuncio ufficiale in Aula. Una scelta attaccata da Beppe Grillo che nel suo blog parla di decreto «impresentabile» e di «dittatura governativa». Per il relatore del decreto e presidente della commissione Bilancio della Camera, il Pd Francesco Boccia, il «Movimento 5 Stelle ha perso una grande occasione» e sta «mettendo in atto un vecchio ostruzionismo con volti giovani». Mentre Simone Baldelli, segretario d’Aula per il Pdl, parla di «atteggiamento inutilmente muscolare e politicamente scombinato» dei parlamentari di Grillo. Anche Sel, però, accusa il governo: secondo il coordinatore della segreteria Ciccio Ferrara, la fiducia «serve solo a coprire le crepe nella maggioranza». Qualche tensione c’è stata in effetti. Per capire meglio non resta che aspettare il voto di oggi. L. Sal. ALTRO LORENZO SALVIA SUL CORRIERE DI STAMATTINA ROMA — Il wi-fi pubblico che torna ad essere libero anche se, come per contrappasso, vengono tagliati i fondi per la banda larga. Il caso della norma che avrebbe dovuto estendere il tetto agli stipendi dei manager pubblici. E il giallo sul prelievo forzoso, non sui conti correnti ma sugli immobili dei Comuni, che accusano lo Stato di voler abbattere il debito pubblico mettendo le mani nelle loro tasche. Come per ogni provvedimento non proprio stringato, il fascicolo completo supera le 500 pagine, nel cosiddetto decreto del fare ci sono tutti gli ingredienti tipici delle maratone parlamentari, dalla marcia indietro in zona Cesarini al comma oscuro che poi ognuno tira dalla sua parte. Sugli stipendi dei manager pubblici il caso è l’ultimo di una lunga serie. Era stato il governo Monti, con il decreto salva Italia, ad introdurre il limite dei 300 mila euro lordi l’anno per i vertici delle aziende pubbliche. Ma, dopo un lungo tiro e molla, quel tetto era stato di fatto reso utilizzabile in pochi aziende. Il decreto del fare doveva estenderne il campo di applicazione. E lo fa ma meno di quanto sembrava. Non potranno superare i 300 mila euro i compensi dei manager delle «società che non svolgono servizi di interesse generale, anche di rilevanza economica», come la Sace. Mentre per le società che «svolgono servizi di interesse generale», come le Poste, le Ferrovie o l’Anas, il tutto viene rinviato a «criteri determinati dal ministro dell’Economia e delle Finanze, d’intesa con le amministrazioni vigilanti». Anche se fin da ora si stabilisce che i premi non potranno essere assegnati in caso di bilancio in perdita. A sollevare il caso sono stati quattro deputati della commissione Bilancio della Camera, Simonetta Rubinato e Angelo Rughetti del Pd, Andrea Romano di Scelta civica e Lello Di Gioia, del Gruppo misto. «Si tratta di un errore materiale dovuto alla concitazione per l’approvazione in tempi brevi di un provvedimento complesso», dicono i quattro parlamentari che chiedono di correggere il testo al Senato. Per il governo le cose non stanno così: «Duole rilevare che una norma che introduce elementi di uniformità venga interpretata come tentativo di eliminare il tetto retributivo», dice un comunicato del ministero dello Sviluppo economico, spiegando che non saranno possibili premi per i manager delle società in perdita e nemmeno le maxi liquidazioni in caso di risoluzione anticipata dei contratti. In realtà si tratta di una questione di bandiera. Molte aziende si sono già messe al riparo passando di fatto nella categoria delle società quotate (escluse dal limite ai compensi fin dal decreto salva Italia) grazie all’emissione di titoli. Come le Poste che poco più di un mese fa hanno messo sul mercato un bond da 750 milioni di euro, come stanno per fare anche le Ferrovie, e come si apprestano a fare anche società pubbliche molto più piccole. Situazione da chiarire anche sugli immobili dei Comuni. Dice il decreto che se lo Stato, in base al cosiddetto federalismo demaniale, trasferisce un immobile di sua proprietà ad un Comune e questo lo vende, il 25% della somma incassata deve servire ad abbattere il debito pubblico. Ma secondo il nuovo presidente dell’Anci, Piero Fassino, la formulazione è ambigua e l’obbligo di versare allo Stato un quarto del ricavato potrebbe riguardare tutti gli immobili, anche quelli già di proprietà dei Comuni. È proprio Fassino a parlare di «prelievo forzoso», e forse la questione potrebbe essere chiarita con un ordine del giorno. Risolto, invece, il caso wi-fi. Per la connessione a Internet nei locali pubblici non sarà necessario identificare l’utente. In compenso i fondi per la banda larga scendono da 150 a 130 milioni. Lorenzo Salvia lsalvia@corriere.it LE IDEE DEI PARTITI SULL’IMU MARIO SENSINI ROMA — Con prudenza e molta tattica, perché la partita è cruciale anche dal punto di vista politico, i partiti cominciano a scoprire le carte sulla riforma dell’Imu. Che avverrà in due tappe, con uno sgravio sulla prima casa per il 2013 e la riforma complessiva del fisco immobiliare rinviata al 2014. Ed entro i limiti finanziari offerti dal bilancio pubblico, che sono davvero molto risicati. Per quest’anno, secondo quanto è emerso nei primi incontri della cabina di regia tra il governo e la maggioranza, sul piatto c’è, per ora, 1 miliardo e 800 milioni di euro. Un miliardo sarebbe recuperato con il maggior gettito Iva dovuto alla spinta sul pagamento dei debiti commerciali arretrati dello Stato, il resto da tagli di spesa che il Tesoro ha definito solo a grandissime linee. Mentre la riforma delle tasse sulla casa che scatterà dall’anno prossimo dovrà essere compensativa: il fisco immobiliare vale 40 miliardi l’anno, potranno esserne modificate le poste, ma il gettito dovrà rimanere invariato. I paletti di Saccomanni Almeno questo è quello che il Tesoro ritiene possibile allo stato attuale della situazione. Il che non esclude ipotesi di riforma più ambiziose, come quella alla quale punta il Pdl. L’importante è che ogni sgravio fiscale sia coperto preferibilmente attraverso tagli della spesa pubblica, ha spiegato il ministro Fabrizio Saccomanni a Renato Brunetta del Pdl, Matteo Colaninno del Pd e Linda Lanzillotta di Scelta Civica. La messa a punto delle proposte dei partiti è in corso. Le riunioni si susseguono in vista degli incontri bilaterali che i «registi» della maggioranza avranno già a partire da questa settimana con i tecnici del ministro, cui spetterà la sintesi finale. Che si annuncia davvero non semplice perché per quel che sta emergendo dal lavoro interno dei partiti, i progetti per la revisione della tassa sugli immobili sono completamente diversi l’uno dall’altro. Negli aspetti concreti, ma anche nell’impostazione “filosofica” di fondo. Il Partito Democratico ed il gruppo che fa capo a Mario Monti non ritengono affatto prioritario l’abbattimento delle tasse sulla casa. Almeno non in questo momento. «Se deve esserci un taglio delle imposte la priorità deve andare alla riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese. Poi viene il resto» dice Enrico Zanetti, responsabile della politica fiscale per Scelta Civica. Sulla stessa posizione è il Partito Democratico, che non prende neanche in considerazione l’ipotesi di cancellare il prelievo sulla prima casa per tutti. Completamente diversa l’impostazione del Pdl, che prefigura una riforma più ambiziosa. Renato Brunetta ha già messo nero su bianco la bozza di un articolato di legge di cui sono emersi alcuni elementi. Il punto cardine, in ogni caso, è l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa per tutti. Pdl: bonus prima casa per tutti Il partito di Silvio Berlusconi ne ha fatto lo slogan della campagna elettorale e non è disposto a cedere di un millimetro. L’unica eccezione che il PdL è disposto a concepire riguarda le case extralusso, come ville e castelli. Ma in prospettiva chiede che queste abitazioni siano definite in una categoria catastale ben precisa, comunque diversa dal classamento attuale. L’esenzione totale riguarderebbe anche i terreni e i fabbricati funzionali all’attività agricola, mentre per gli immobili strumentali delle imprese si prevede un’aliquota ridotta allo 0,4 per mille, così come per le case in affitto (0,5 per mille). L’alleggerimento sulla prima casa vale circa 3,5 miliardi di euro. E per il 2014 si ricorre a una delega al governo per introdurre, accorpando Imu e Tares, la nuova Service Tax. Gli sgravi non sarebbero coperti da altre tasse, ma da tagli di spesa, tra i quali quello delle agevolazioni fiscali per le società di investimento e i fondi immobiliari. Pd: nuovi parametri Il Pd, nel frattempo, ha rivoluzionato la sua proposta per la revisione dell’Imu. Fino a pochi giorni fa si ipotizzava semplicemente un aumento della franchigia sulla prima casa dagli attuali 200 a 600 euro, che avrebbe di fatto esentato dalla tassa l’85% delle famiglie. Adesso si ragiona, invece, su parametri del tutto nuovi ai quali agganciare l’imposta. Non più la pura e semplice rendita catastale rivalutata per 160, ma un doppio criterio legato sia al reddito del proprietario che al valore dell’immobile. Sarebbero presi in considerazione sia l’indicatore Isee, utilizzato per misurare la ricchezza, che l’indice Omi, l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate, sul valore degli immobili. E questo almeno finché non si sia varata la riforma del catasto, per la quale occorrono almeno tre anni. Lo sgravio dell’Imu sulla prima casa sarebbe dunque molto selettivo, più intenso per i proprietari di abitazioni modeste e con redditi bassi, che sarebbero di fatto esentati dall’imposta, e nullo per i ricchi proprietari degli immobili di pregio. Una simile manovra, secondo i calcoli che si stanno facendo nel partito in queste ore, costerebbe 2 miliardi di euro. L’ipotesi che sarà discussa nei prossimi giorni con il Tesoro prevede che lo sgravio sia compensato a partire dal 2014 con un incremento delle altre imposte sugli immobili, che andrebbero comunque razionalizzate. Per il Pd, in ogni caso, il peso del fisco immobiliare non dovrà ridursi, nel complesso, rispetto ai livelli attuali. Anche e soprattutto per ragioni di equità. Sc: più peso alla famiglia La manovra forse più articolata è quella messa a punto da Scelta Civica, che tiene in maggior considerazione la componente del nucleo familiare. I parlamentari di Mario Monti suggeriscono un aumento della detrazione fissa sulla prima casa dagli attuali 200 a 400 euro e di quella per i figli a carico da 50 a 100 euro ciascuno. Una famiglia con due figli avrebbe uno sgravio di 600 euro contro i 300 dell’attuale regime. Tornerebbero inoltre ad essere considerate prime case gli immobili concessi in comodato gratuito ai figli, quelli degli anziani nelle case di cura, quelli dei residenti all’estero. La manovra costerebbe 2,2 miliardi, ed escluderebbe totalmente l’Imu per il 55% delle famiglie, percentuale che sale al 75% per le famiglie con due figli. E per il 2014 Scelta Civica vorrebbe la riduzione dell’Imu sulle case date in locazione, recuperando la copertura dalla cancellazione della cedolare secca sugli affitti. Mario Sensini MASSIMO FRANCO Il tentativo di arginare le spinte centrifughe fra gli alleati adesso prende la forma di una serie di consultazioni. È il segno che Enrico Letta vuole evitare al massimo sorprese, misurando preventivamente la disponibilità di Pd, Pdl e Scelta civica. D’altronde, la partenza affannosa del suo governo sta arrivando a uno snodo cruciale. Il calendario dei faccia a faccia con i gruppi parlamentari è significativo. Si inaugura stasera con i deputati del Pd, il suo partito; e si chiude giovedì 1° agosto con i senatori Democratici: due giorni dopo la probabile sentenza con la quale la Corte di Cassazione confermerà o meno la sentenza contro Silvio Berlusconi. A quel punto, infatti, il presidente del Consiglio potrà valutare se e quanto i problemi giudiziari dell’ex premier possono ricadere sulla sua maggioranza anomala; e quale sarà il grado di malumore col quale fare i conti. Può apparire un fattore secondario, ma nella lettura catastrofista che le opposizioni fanno della situazione economica,la fiducia nella possibilità che l’esecutivo regga e possa agire è un elemento non secondario. Letta e la sua coalizione si trovano a dover fronteggiare una campagna insidiosa condotta soprattutto dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e del suo burattinaio Gianroberto Casaleggio. La loro tesi sempre più esplicita e martellante è che l’Italia si avvia verso una sorta di crollo finanziario di qui all’autunno. E l’impressione è che questa sia anche la loro speranza. Solo un fallimento del governo può aprire spazi a un movimento che scommette sul disastro per aumentare un potere eroso dalla capacità del sistema politico di recuperare spazi d’azione e credibilità. Preoccupa il fatto che la vulgata trovi ascolto non solo nelle file del resto dell’opposizione; e che si accompagni a una rinnovata e pericolosa offensiva contro l’euro. Riecheggiando tesi accarezzate in campagna elettorale anche dalla Lega e da una parte del Pdl, Grillo accentua i toni anti-tedeschi e sostiene che presto l’Italia dovrà decidere. Il dilemma, a suo avviso, è «se ristrutturare il debito restando nell’euro o tornare alla lira. Solo così si tornerà a vedere la luce». Si tratta di uno scenario che non tiene conto di una realtà di vincoli reciproci tali da determinare non la fine dell’euro ma della stessa Unione Europea. E sottovaluta il disastro in termini di svalutazione, isolamento finanziario e tensioni sociali che la sola ipotesi di uscire dal sistema della moneta unica provocherebbe. Grillo sembra non sapere, o finge di non conoscere le conseguenze devastanti che il suo schema prepara. Invece della “luce”, l’Italia vedrebbe un calo drammatico del potere d’acquisto soprattutto delle classi più povere; e non sarebbe neppure in grado di pagare la sua bolletta energetica annuale. Ma dire che “la politica italiana ha venduto l’anima al diavolo teutonico” sarebbe uno slogan elettorale facile e orecchiabile, sebbene irresponsabile. Il M5S continua a scommettere sull’impossibilità di stabilizzare il Paese, pur con la regia e l’impegno che ci mette il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Di più: non vuole che si stabilizzi, perché il grillismo perderebbe la sua ragione d’essere che è il rifiuto del sistema. Se il governo dovesse precipitare prima del tempo e si arrivasse in campagna elettorale, la strategia è già abbozzata: gli altri hanno fallito, votate grillino. Si tornerà alla lira e la situazione migliorerà. C’è da chiedersi se questo progetto di sfascio non finisca per incrociare interessi economici e speculativi internazionali, che puntano sul default italiano. L’aspetto che preoccupa un po’ è la timidezza con la quale i partiti di governo, tutti presi da una faticosa mediazione quotidiana, lasciano filtrare questi veleni senza opporre una difesa convinta dell’euro e dell’appartenenza all’Ue. Eppure, il pericolo di una regressione si annida anche in questa cautela nel contrastare i movimenti populisti alimentati dalla crisi. Forse, occorrerebbe una fiducia reciproca che si fatica a vedere. ALESSANDRP TROCINO ROMA — «Sul disegno di legge che abolisce il finanziamento pubblico ai partiti non si torna indietro», giura il presidente del Consiglio Enrico Letta. Che si prepara a una corsa contro il tempo, per varare sei decreti legge in scadenza, avere l’ok al ddl di riforma costituzionale, alla legge sull’omofobia e al testo sul finanziamento. Anche per questo, per mettere tutti davanti alle loro responsabilità, oggi il premier incontrerà il gruppo del Pd e domani quello del Pdl. Letta, in un tweet, pone una domanda retorica: «Abbiamo presentato una buona riforma sul finanziamento. Perché bloccarla?». Il riferimento probabilmente è alle forze che tendono alla conservazione del sistema, con la perpetuazione di un apparato di partiti novecenteschi, caratterizzati da burocrazia elefantiaca e sprechi congeniti. Ma tra gli avversari del ddl c’è anche chi sostiene che l’alternativa offerta, non allettante, è quella di affidarsi in toto ai finanziamenti privati, e quindi a tycoon , poteri forti più o meno legittimi e a lobby. Ma per Antonio Misiani, tesoriere del Pd, quindi parte di una categoria in genere ostile alla riforma, la strada scelta è la migliore: «La cosa peggiore sarebbe lasciare le cose come stanno. Perché anche in quel caso i partiti sono destinati a morire». Eppure il rischio dell’immobilismo c’è. Perché i tempi sono sempre più stretti, la data prevista d’approdo in aula del ddl, venerdì, rischia di saltare. E così il varo entro la pausa estiva dell’8-9 agosto. Si infittiscono le riunioni tra i partiti per cercare di trovare una soluzione. Troppi gli emendamenti sul tappeto, oltre 150, e troppo divergenti tra loro. Per questo anche ieri si sono incontrati i relatori Emanuele Fiano (Pd), Mariastella Gelmini (Pdl) e Renato Balduzzi (Scelta Civica). Difficile districarsi nella matassa di emendamenti: il Movimento 5 Stelle ne ha presentati 58, il Pd 32, il Pdl 26, Sel 15. L’unica cosa certa è il senso del ddl: abolire i finanziamenti diretti dello Stato ai partiti e sostituirli, progressivamente, con una contribuzione privata. I contorni sono tutti da definire. Le due questioni principali vertono sul 2 per mille, il sistema ipotizzato dal ddl, e sulle regole interne dei partiti per aver diritto ai contributi. Il Pdl vorrebbe abolire il 2 per mille ed è per una deregulation sul secondo tema. Ma di questioni da risolvere ce ne sono altre, come il tetto da definire per i finanziamenti privati (per ora non è previsto). Un ostacolo che pare insormontabile, per il Pd, è l’emendamento Pdl sui contributi delle società ai partiti: attualmente è prevista obbligatoriamente una deliberazione del consiglio di amministrazione. Il Pdl vorrebbe depenalizzare il reato di mancata deliberazione. Ma sono anche le divergenze interne a preoccupare. Nel Pd Matteo Orfini è decisamente critico e commenta così il tweet di Letta: «Nei momenti di difficoltà di governo ci si grillizza e si utilizza l’argomento del finanziamento pubblico contro un indistinto partitismo». Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, avverte del rischio di svalutare l’importanza dei partiti. Non solo. Contesta chi «fa finta di non sapere che anche l’uno per mille è un costo pubblico e che, in questo Paese, le lobby non sono regolate e i poteri criminali hanno una tale disponibilità di capitale da fare un sol boccone di un partito intero». Tra chi contesta radicalmente la riforma ci sono i 5 Stelle: «La casta è drogata di finanziamento pubblico — dice Riccardo Fraccaro — Questa riforma è gattopardesca». Per Mario Staderini, segretario dei Radicali italiani, «i blitz partitocratici peggioreranno il ddl, che comunque è un modo per tradire il referendum radicale del 1993». Anche per questo Staderini invita a firmare il nuovo referendum radicale: «Per voltare pagina davvero». Alessandro Trocino ROMA — Approvate otto dei nostri emendamenti. Al massimo possiamo dire sì solo a quattro. Il governo tratta, discute con i grillini, ma alla fine chiede la fiducia sul “decreto del fare” e usa il il testo uscito dalla commissione. Ma scatta l’ostruzionismo del Movimento 5 Stelle. Il voto è infatti previsto per stamattina, ma non si sa quando sarà possibile licenziare il provvedimento e passarlo al Senato perché, dopo la chiamata nominale, i deputati dovranno votare le norme e gli ordini del giorno. Il testo però contiene un “errore materiale” che crea altre complicazioni al percorso del decreto. In un comma che estendeva il tetto agli stipendi per i manager anche agli amministratori di società non quotate che operano nel pubblico, tipo Poste, Ferrovie, Anas, è comparso un “non “che cancella il limite. Vista la fiducia, i deputati del Pd hanno posto il problema e chiesto che il Senato vi ponga rimedio. Ma una nota del ministero dell’Economia sembra “rivendicare” il testo. Si spiega che la norma «in modo fortemente innovativo prevede che il trattamento economico dei manager venga determinato dal ministro dell’Economia», tenendo conto di una serie di parametri ed evitando i casi di superliquidazione. I grillini non credono all’“errore materiale”, parlano di «una manina». Anche per questo hanno scelta la via dell’ostruzionismo. Hanno detto che si prenderanno tutto il tempo a disposizione. Bloccando anche la diretta tv. Fiducia e ostruzionismo fanno però saltare il calendario, mettendo in forse l’approvazione prima delle ferie della legge sull’omofobia che dovrebbe andare in aula venerdì. Questo testo è stato approvato ieri notte in commissione Giustizia, ma il finanziamento pubblico ai partiti, la diffamazione, le riforme costituzionali sono rimasti al palo. La legge sull’omofobia resta comunque sempre più sotto il tiro dell’ala “cattolica” del Pdl. Renato Brunetta e compagni non gradiscono neanche il testo uscito dalla commissione, composto da un solo articolo che prevede di estendere la legge Mancino all’omofobia. Senza previsioni di aggravanti. Hanno votato a favore Pd, Pdl e Sel, mentre la Lega ha detto no. Il Movimento 5 Stelle invece si è astenuto. Di fatto lo scontro è stato rinviato all’aula perché su proposta del presidente della commissione, Donatella Ferranti, non si sono votati gli emendamenti. Il Pd, però ribadisce che la modifica per riportare le aggravanti nel testo, concordato in commissione con Sel e grillini, sarà ripresentata in aula. E così il Pdl continua a opporsi e lacerarsi. Il testo «è irricevibile per coloro che credono nel diritto naturale e nella libertà di opinione», spiega Maurizio Sacconi. Eugenia Roccella accusa i compagni di partito laici di «subalternità alla sinistra». Carlo Giovanardi dice che si tratta di una legge «illiberale di ispirazione comunista ». E allora Gianfranco Galan replica piccato: «Roccella e Sacconi, appartengono ad un fronte talebano perché vogliono imporre la loro linea al partito e questo è inammissibile in un partito che si richiama ai valori liberali».