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 2013  luglio 18 Giovedì calendario

QUANDO NOI VOLAVAMO ALTO


«I colossi in acciaio e cemento dei grattacieli ci vengono incontro, mentre nelle strade tutti guardano verso il cielo» gracchia al magnetofono la voce di Italo Balbo. È il 19 luglio 1933 e nemmeno l’America delle meraviglie aveva mai visto uno spettacolo così. I 25 idrovolanti Savoia Marchetti partiti da Orbetello sorvolano Manhattan. Arrivano da Chicago, dove hanno celebrato il Century of progress, l’esposizione universale. Dall’East River al fiume Hudson è tutto uno sventolio tricolore. Gli atlantici sfilano lungo Little Italy e tra la folla plaudente c’è Primo Carnera, che il 29 giugno ha vinto il campionato mondiale dei massimi.
La crociera del Decennale celebra l’aeronautica e un Paese protagonista fin dalla Grande guerra, quando Gianni Caproni produce il bombardiere trimotore adottato da tutti i membri dell’Intesa. Nel 1934 la stessa Caproni fa decollare il primo jet della storia, progettato da Secondo Campini. Ma non c’è solo l’aviazione. Il secolo scorso ha visto l’Italia superare l’Inghilterra dopo una rincorsa durata oltre 200 anni, battendo record proprio dove oggi è più lontana dai grandi dell’Occidente.
Il declino è colpa dei politici, si dice, di uno stato famelico e inefficiente. Ma gli industriali, i banchieri, i sindacalisti, gli accademici? Ricca è la fiera delle occasioni perdute. La più clamorosa resta il nucleare, dietro il quale c’era la grande scuola di Enrico Fermi. Nel 1966 l’Italia è il terzo produttore per usi civili, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, con tre centrali: Latina, Trino e Sessa Aurunca. Poi il referendum del 1987 le spegne in blocco. Un altro primato, ma negativo. Fino a oggi, nessun paese ha chiuso tutti gli impianti. In Svezia il popolo ha detto no nel 1980, ma la riconversione è cominciata solo pochi anni fa.
Volava alto, un tempo l’Italia, fin nella stratosfera. Luigi Broglio, ingegnere e scienziato, ha dato vita insieme alla Nasa al progetto San Marco, con il lancio del primo satellite tricolore nel 1964. Due anni dopo è stato aperto il centro spaziale di Malindi, in Kenya. Solo Usa, Urss e Canada avevano fatto tanto.
Allora, inglesi e francesi inviavano emissari e scoprivano che molte industrie erano più moderne delle loro, ricorda John A. Davis, direttore del Journal of modern Italian studies all’Università del Connecticut. Nessuno imponeva ricette, anzi molti venivano per imparare.
Nel 1947 Preston Tucker, il più geniale dei costruttori americani di auto, prende a modello una vettura italiana, la Cemsa, prodotta dalla Caproni. Dalle catene di montaggio esce un modello rivoluzionario, troppo avanti per i suoi tempi, boicottato dai concorrenti, lo racconta bene il film di Francis Ford Coppola. Ma le Big three di Detroit si tolgono il cappello, come faceva Henry Ford quando vedeva passare un’Alfa Romeo. Oggi c’è solo la Fiat, che fra poco si chiamerà Chrysler.
Facciamo un salto nel 1965 alla fiera di New York: i visitatori s’affollano davanti al P101 di Pier Giorgio Perotto, il primo calcolatore elettronico costruito dalla Olivetti, un grande nome, e non solo per il design della Lettera 22 esposta al Moma. Proprio negli States, con l’acquisizione della Underwood, il gruppo di Ivrea sfida la Remington e vorrebbe insidiare l’Ibm. Dopo il ciclone De Benedetti, la Olivetti non esiste più.
Le conquiste cadute nella polvere non si contano. I treni veloci, per esempio: la Littorina nel 1932 era l’automotrice più all’avanguardia. O la telefonia: l’Italia introduce la teleselezione integrale nel 1970, quando in Francia bisognava chiamare ancora le centraliniste. Non si tratta di rincorrere il Guinness dei primati. Il Paese sfornava belle cose che piacevano al mondo e nello stesso tempo aveva una leadership intellettuale.
Lo storico Tony Judt giudicava Luigi Einaudi un’icona liberale del Novecento, il vero avversario di John Maynard Keynes, più attrezzato tecnicamente dell’economista e ideologo austriaco Friederich von Hayek. Ormai i suoi insegnamenti sono diventati «prediche inutili». La scuola della «scelta pubblica», per la quale l’americano James Buchanan ha vinto il Nobel nel 1986, è nata cent’anni prima grazie a Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Enrico Barone. In patria nessuno li ha riconosciuti come profeti, se no il debito non sarebbe una macina tanto pesante.
Cibo, moda e turismo non rimpiazzano spazio, energia, alta tecnologia. La cultura non è l’isola pedonale ai Fori Imperiali. I successi del passato nascono dalla combinazione tra pionierismo e università, basti pensare al Politecnico di Torino e poi alla Bocconi. Un altro modello italiano. Altro che Silicon valley, bisogna risalire addirittura all’Accademia dei Lincei: lo ricorda David Landes nel suo Ricchezza e povertà delle nazioni (Garzanti, 702 pagine, 25 euro). Eppure, è stato abbandonato in nome della separazione tra sapere e fare. Ideologie negative sotto il mantello progressista, demagogia al posto del merito, privilegi invece dei risultati, tante riforme sempre incompiute hanno prodotto lo sfascio dell’istruzione.
Poi è arrivata la furia giustizialista e partitoclasta che ha prodotto l’eterogenesi dei fini in versione seriale. Le privatizzazioni hanno consunto la grande industria. Il cambio di regime ha essiccato la politica. La moneta unica ha paralizzato, non disciplinato gli spiriti animali. E gli intellettuali allora plaudenti continuano a dare lezioni. Charles Maier, docente di studi europei a Harvard, invita a non flagellarsi troppo, l’Italia gli ricorda un racconto di Italo Calvino: «Una storia labirintica, ma al tempo stesso ingegnosa, attraente e, in definitiva, piena di speranza». C’è solo da scommettere che abbia ragione.