Nino Sunseri, Libero 24/7/2013, 24 luglio 2013
IL PETROLIO ITALIANO CI FARÀ RISPARMIARE CINQUE MILIARDI
Quindici miliardi pronti per essere investiti, 25mila posti di lavoro, raddoppio della produzione interna di gas e greggio da 12 a 24 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio secondo le indicazioni contenute nel Sen (Strategia energetica nazionale). «La ripresa dell’attività estrattiva in Italia potrebbe dare una svolta alla crisi economica », dice l’amministratore delegato Eni, Paolo Scaroni.
Invece non accade nulla per l’opposizione delle organizzazioni ambientaliste e la lentezza delle amministrazioni pubbliche. Siamo in crisi, con l’economia che affonda ma ci permettiamo di tenere sotterrato un tesoro. Nessun politico, a livello nazionale e locale, che abbia il coraggio di affrontare l’opposizione delle minoranze ambientaliste o vincere l’inefficienza delle amministrazioni locali. Eppure avremmo un gran bisogno di incrementare le risorse nazionali. Siamo uno dei Paesi maggiormente dipendenti dall’estero. La produzione domestica (100 mila barili al giorno) copre appena il 7% del fabbisogno, pari a circa 1,4milioni di barili (un barile corrisponde a 158,98 litri) al giorno. Prima della crisi l’incidenza era del 5%. Il gas si trova al largo delle coste adriatiche: Eni ha cominciato a estrarlo 60 anni fa e, a Ravenna, ha il distretto principale. Ha sviluppato un settore offshore che conta 40 aziende più altre 80 dell’indotto e un miliardo di giro d’affari.
Il petrolio, invece, è nel canale di Sicilia, a Trecate nel Novarese ma soprattutto nella Val D’Agri. È la nostra Lucania Saudita perché ospita il più grande giacimento sulla terraferma dell’intera Europa. Nascosti ci sono circa 1,4 miliardi di barili di oro nero. Secondo gli esperti ce n’è almeno un altro miliardo, ma la situazione non cambia. Almeno fino a quando resteranno le leggi e le procedure attuali.
Scaroni parla chiaro: «Abbiamo bisogno di un sistema autorizzativo che ci consenta di esplorare all’interno delle 12 miglia, in caso contrario non possiamo intervenire. La legislazione va modificata; dopo l’incidente del 2010 del pozzo Macondo nel golfo del Messico, è stato approvato un provvedimento estemporaneo, sull’on - da dell’emozione. È necessario che il sistema sia più praticabile, perché gli idrocarburi sono una risorsa per tutti, per il Paese, per il fisco. Se occorrono otto anni per un’autorizzazione, se diventa una cosa folle, le imprese si trasferiscono».
Ma in Italia non è proprio aria. Quasi tutte le richieste di trivellazione vengono bocciate. A Trecate nel mese di giugno un referendum popolare ha respinto a schiacciante maggioranza (93%) la proposta dell’Eni di trivellare un pozzo: eppure si tratta di un’area dove l’industria petrolifera esiste da decenni portando ricchezza a sviluppo. Sempre nel Novarese la richiesta della britannica Northern Petroleum di estrarre greggio nei dintorni di Borgomanero ha provocato a fine dicembre la lettera di protesta di un gruppo di sindaci.
E non si tratta di casi isolati: in tutta Italia appena si vede in giro un geologo che saggia il terreno fioriscono i comitati del no. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia è tra coloro che darebbero via libera alle trivelle, nel rigoroso rispetto dell’ambiente ma senza cedimenti verso quella sindrome che in America chiamano «nimby» (not in my back yard, «mai nel mio cortile»). Dice: «C’è una dorsale del petrolio e del gas che parte da Novara e si distende lungo l’Appennino fino in fondo alla Calabria e prosegue in Sicilia. Nel Mare Adriatico c’è una dorsale parallela in mare, da Chioggia al Gargano. In un secolo e mezzo in Italia sono stati perforati 7 mila pozzi, di cui 800 ancora attivi. Persino alle isole Tremiti, dove ci sono resistenze a trivellare, c’è già un pozzo, attivo dal 1962 senza danni per l’ambiente. La produzione italiana potrebbe facilmente raddoppiare, come prevede la Strategia energetica nazionale, semplicemente perforando dove già si sa che il petrolio c’è. Invece è tutto bloccato».