Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 24/07/2013, 24 luglio 2013
E IL GIOVANE VERGA INVENTO’ L’AMERICA
Bisogna fare un po’ d’ordine nella vicenda Verga che negli ultimi giorni ha occupato le cronache culturali per via del sequestro di numerosi documenti dello scrittore catanese annunciato venerdì dai carabinieri del reparto Tutela patrimonio artistico di Roma. E per fare ordine è indispensabile risalire ai primi anni Trenta, quando Giovanni Verga Patriarca (detto Giovannino), morto De Roberto nel 1928 (l’amico incaricato da Verga della cura dell’opera e dei diritti), affida al provveditore Vito Perroni e alla sorella Lina tutti i manoscritti dello zio, su sollecitazione dell’allora ministro Giuseppe Bottai. Un prestito per motivi di studio con la promessa di approntare edizioni e lavori critici. I risultati però non arrivano e i Perroni vengono accusati di sottrarre a studiosi più qualificati le carte di Verga. Le inadempienze sono documentate dalla fitta corrispondenza tra l’editore Mondadori e l’erede, che chiede la restituzione del fondo, in modo da procedere a un lavoro sistematico e serio sul piano filologico. Perroni non vuole saperne. Nel ’57 il fatto assume rilevanza pubblica grazie a un’interpellanza parlamentare, seguita da altre richieste ufficiali fino al 1977.
Nel frattempo, la Mondadori procede alla microfilmatura di tutte le carte e le Sovrintendenze effettuano diversi sopralluoghi nella residenza dei Perroni per ripetute notifiche: i detentori «illegittimi» si adoperano però per nascondere intere sezioni dei materiali o smembrarli, cosicché gli elenchi risultano parziali. Nel ’75 il figlio di Giovannino, Pietro Verga, riesce a ottenere dal Tribunale di Catania una sentenza che gli attribuisce il possesso di tutti i manoscritti, sia quelli notificati sia gli altri. Due anni dopo, in tre riprese, Perroni consegna a Pietro una (minima) parte dei materiali, la cui collezione (integrale) è stata venduta per quasi 90 milioni di lire dall’erede alla Regione Sicilia: quella parte (e solo quella, ovviamente) sarebbe poi stata conservata nella Biblioteca Regionale di Catania. E il resto? Niente da fare. Il danno per la Regione, la legittima proprietaria, è enorme: ma nessun funzionario è in grado di ricostruire con esattezza le lacune. È enorme anche il danno per gli studi verghiani che restano appesi alla consapevole sottrazione operata dalla famiglia Perroni.
Ora, tra il dicembre 2012 e il febbraio scorso, dalla felice collaborazione tra Ornella Foglieni, sovrintendente ai Beni Librari della Lombardia, il Comitato per l’Edizione Nazionale delle opere di Verga (presieduto dalle studiose Gabriella Alfieri e Carla Riccardi) e Silvina Bosco (conservatore della Biblioteca Universitaria di Catania) si viene a sapere che presso la sede milanese della casa d’aste Christie’s giace un fondo consistente di manoscritti autografi verghiani (contenuti in una valigia e in una scatola da trasloco), messi in vendita da privati residenti a Roma. Si tratta dei Perroni. Lo stato di conservazione è pessimo e la Sovrintendenza ne dispone il trasferimento cautelativo presso il Centro manoscritti dell’Università di Pavia, dove i documenti vengono sottoposti a condizionamento, conservati in stanza allarmata, oltre a essere catalogati. In giugno, grazie a un sopralluogo dei carabinieri in casa Perroni, vengono sequestrati, per volere della magistratura, altri materiali, tra cui opere autografe e lettere a corrispondenti famosi, sceneggiature e anche reperti archeologici. Si pone così fine a un «rapimento» durato ottant’anni circa, dietro cui si evince una sistematica strategia volta a impedire la completa ricostruzione dell’opera dello scrittore siciliano. A questo punto, i manoscritti notificati non sono più commerciabili e per il momento non si possono consultare.
La Fondazione Verga, che ha finalità di ricerca, tiene tra l’altro a precisare che non ha promosso alcuna iniziativa giudiziaria, ma è coinvolta solo indirettamente nella vicenda, in quanto sede legale del Comitato per l’Edizione Nazionale che ha fornito consulenza alle indagini tramite le studiose Alfieri e Riccardi. Solo adesso si potrà dunque procedere a una ricognizione puntuale dell’intero fondo verghiano, preziosissimo per ricostruire il lavoro di uno dei nostri maggiori scrittori. Va detto che i più seri studi filologici su Verga furono avviati negli anni Settanta da gruppi di lavoro coordinati in un primo momento da Dante Isella e poi in via definitiva da Francesco Branciforti, dando esito a una dozzina di volumi dell’Edizione Nazionale, che dovevano fare i conti con le lacune procurate dall’occultamento. L’elenco degli autografi rimasti in cattività per decenni è sterminato. Il fondo (a questo punto ex) Perroni contiene stesure inedite di una dozzina di romanzi, decine di novelle e di testi teatrali, migliaia di lettere, appunti di lavoro vari, lastre fotografiche. Tra l’altro, ci sono redazioni ignote del Mastro don Gesualdo e i primi abbozzi dei Malavoglia (oltre duecento carte in tutto), che testimoniano la genesi del capolavoro e del progettato «ciclo dei Vinti», sin dalla sua idea primitiva racchiusa nel titolo La marea: per fortuna, grazie ai microfilm conservati alla Mondadori, Ferruccio Cecco, autore dell’edizione critica, ha potuto seguire l’intero percorso elaborativo di un romanzo inizialmente concepito come bozzetto.
Tra le carte occultate vengono alla luce anche le 672 pagine manoscritte (e ingiallite) del primo romanzo verghiano, Amore e Patria, scritto a sedici-diciassette anni, tra il 23 dicembre 1856 e il 26 agosto 1957 (ne pubblichiamo in questa pagina alcuni passi), inedito e considerato disperso. Federico De Roberto ricorda che l’amico, il quale usava distruggere le opere di cui non era convinto, custodì quell’opera come un «ricordo d’infanzia», facendola leggere ad alcuni intimi il giorno del suo ottantesimo compleanno. L’ispirazione del romanzo, suddiviso in quattro quaderni (probabilmente messi insieme a cose fatte), gli venne dal suo maestro Antonino Abate, patriota ribelle e secessionista, autore a sua volta di mediocri romanzi storici. Abate un giorno rivelò ai suoi allievi di voler scrivere un libro sulla storia di Washington, e il giovane liceale raccolse la suggestione. Forse documentandosi attraverso un trattato dello storico Carlo Botta sulla rivoluzione americana, ma avvalendosi anche di tante letture romanzesche del tempo (Guerrazzi, Dumas padre e altri, senza dimenticare il patronato manzoniano), Verga cominciò a scrivere una storia avventurosa di impianto politico-militare dai mille risvolti amorosi. È lo stesso De Roberto a darne conto in un saggio scritto tra il ’22 e il ’23. «Non un’opera dal grande valore estetico — avverte Gabriella Alfieri — ma certamente interessante per certe costanti che poi emergeranno nello scrittore maturo». Una vicenda di guerra in cui la lotta tra genio del bene (i patrioti americani «intenti a spezzare le loro catene») e genio del male (gli inglesi «ingordi e spietati» associati con i mercenari tedeschi).
Di «effetti d’orrore e di pietà» parla De Roberto. Protagonista Eduardo di Walter, magnifico soldato e «fulmine di guerra», che ama di amore intenso la tenera Eugenia, figlia del duca di Redwald, la quale pur con qualche resistenza lo incita infine al sacrificio della guerra, mentre gli inglesi assediano Filadelfia. Tra loro si inserisce Clary di Bratfort, una «creatura perversa», che vorrebbe conquistare l’eroe Eduardo, ma venendone respinta affida la vendetta all’ufficiale inglese Butchilid. Sarà il brigante «buono» Pierotto Walff, personaggio bifronte, a salvare i due amanti, mentre Butchilid finirà trafitto da Ugo, il padre di Eduardo, in una scena madre ricca di colori romantico-cavallereschi, in cui quest’ultimo si incarica di giustiziarlo (si veda il secondo brano pubblicato nel box). Per non dire della fine brutale di Clary, il «serpente dal viso d’angelo», «anima di fango sotto sembianze angeliche», che si darà la morte in un ennesimo colpo di scena. I titoli dei capitoli sono significativi di atmosfere e generi che confluiscono nel romanzone: «La Spia», «Miseria e rassegnazione», «Il Corsaro», «Pentimento ed Espiazione»...
La Alfieri, che è storica della lingua, sottolinea la precisione già acquisita del lessico nautico e marinaresco, i sicilianismi che poi verranno al pettine in modo consapevole («suona la pentola» invece della pendola), l’attenzione al parlato e il tentativo in erba di trascrivere l’oralità (un uso che sarà una delle ossessioni del Verga maggiore), le allusioni raffaellesche in certi ritratti femminili, soprattutto lo sguardo parallelo verso le classi agiate e verso il popolo prostrato dei vinti, senza dimenticare alcune sequenze narrative che torneranno nelle opere più note (il «volto dominato dalla rassegnazione» che rivedremo in Rosso Malpelo). De Roberto segnalava la perizia del giovane scrittore nel «mandare avanti di pari passo la storia e il romanzo», nonché l’eco di certe letture occultistiche verghiane che emergeranno in diverse novelle, ma faceva notare anche le soluzioni ancora di scuola, ben lontane dalle magistrali invenzioni che verranno con i capolavori della maturità, e non esitava a parlare da par suo (che gran genio critico, De Roberto!) di «estremo e boccheggiante romanticismo». Verga muoveva allora i primissimi passi nella letteratura, misurandosi anche con i narratori siciliani di romanzi storici che gli stavano intorno, non solo Abate ma Domenico Castorina, autore epico-patriottico e suo lontano parente. Quelle «sinistre influenze» erano un passaggio quasi obbligato per liberare la forza ancora in nuce dell’autentico genio.
Paolo Di Stefano
«L’ESERCITO ANGLO – ALEMANNO... » ECCO L’INCIPIT SEPOLTO DAL 1856 - Ecco l’incipit del romanzo Amore e Patria, inedito e considerato disperso. Si tratta di una narrazione storica sulla rivoluzione americana, scritta da Giovanni Verga tra i sedici e i diciassette anni. Il primo capitolo è intitolato «La Spia» e risale al 23 dicembre ’56. Si notino le italianizzazioni frequenti di toponimi e nomi propri americani.
Era il 1776; l’esercito Anglo-Alemanno sotto gli ordini dei generali Howe e Ralk aveva invasa la Cesarea; dopo la battaglia dell’Isola-Lunga vincitore aveva marciato di vittoria in vittoria su Nuova-York ed altre città inseguendo Washington che con poche migliaja di soldati scoraggiti (sic!) dalla sconfitta, decimati dal vajuolo, mancanti di provvisioni, d’armi, di bagagli, si ritirava sulla Delawara, tentando di salvare ad ogni costo Filadelfia, ben conoscendo che atterrato il vessillo dell’indipendenza, nessuno si radunerebbe a rialzarlo, o si raccoglierebbe sotto altra bandiera.
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Questo secondo brano prende avvio da un’esclamazione di Ugo, padre del protagonista Eduardo, nell’atto di uccidere il «cattivo» Butchilid.
«Oh anima beffarda, lo senti finalmente lo strazio dell’agonia! Conosci alfine i terrori di quella morte che tu spargevi col sorriso del cinismo senza comprenderla?...». Butchilid ancora in piedi come una visione infernale, coi capelli irti sulla fronte, coi lineamenti spaventevolmente alterati, si lacera con un moto convulso i panni verso la ferita che avevagli spezzato il petto. Poscia cadde al suolo.
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Questo terzo passaggio dà conto della personalità del «brigante buono» Pierotto Walff, il cui ruolo nel romanzo sarà risolutivo.
Egli non era stato tanto scellerato quanto infelice... Ma la intrepida audacia del brigante si arrestò innanzi l’ombra nuda e squallida dell’eternità... Il sorriso del cinismo aveva segnato la prima ora del delitto. La lagrima del pentimento ne aveva segnata l’ultima, la prima d’una vita rigenerata... Dove sempre aveva trovato rimorsi e memorie di sangue, un’arcana confidenza, una speranza suprema colorava tutto di pace e di quiete... - Vi offesi, mio Dio! Vi offesi ma ve ne domando perdono… Ora se io mi sacrifico alla patria non è più per cercare una morte come termine all’inferno che mi divorava, ma come un lavacro alle mie colpe, e come un tributo alla terra che mi vide nascere… Allora, sulla foce della Delawara, nel mare sconvolto della (sic!) tempesta egli caccia il brulotto sotto un altro vascello britannico e lo fa saltare in aria.
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Tra le lettere ritrovate, si segnalano alcune missive dell’amico Federico De Roberto a Verga in cui il tono è tra l’ironico e il duro nell’invitarlo a procedere nel lavoro o nel constatare la «pigrizia» del «maestro» durante gli anni del ritiro catanese.
Caro Giovanni, Che cosa te ne fai? Sei capacissimo di correggere ancora Mastro-don Gesualdo? Infatti, Treves nei suoi giornali, non dà ancora l’annunzio della pubblicazione. Sai bene che l’Italia, anzi l’Europa, mi ha dato l’incarico di disciplinare il tuo genio. Mi raccomando: non mi fare restare troppo male. (Lettera senza data).
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Caro principale, (...) mi arriva l’altro giorno una lettera di Gualdo, il quale dice che dopo la mia partenza, non ti ha visto mai più. Che cazzo te ne fai? Sotto quali guai vai a cacciarti? Perché non finisci Don Candeloro? Perché non scrivi commedie, drammi, novelle, romanzi, libretti, capolavori? (11 ottobre 1891).
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Certo Pirandello produce ancora, mentre tu ti sei lasciato prendere dalle intellettuali compagnie del Circolo dell’Unione, e quindi hai smesso di lavorare. Questa circostanza fa che Pirandello commercialmente valga più di te per tutto quello che può fare ancora e che certamente farà; ma, per il già fatto, la tua produzione vale commercialmente almeno quanto la sua. (28 novembre 1920).