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 2013  luglio 22 Lunedì calendario

PERCHE’ L’UMANITARISMO ROVINA L’IMMIGRAZIONE

Strano Paese il nostro, tutto intento a ponderare le parole e gli aggettivi uti­lizzati con riferimento alla realtà de­gli immigrati, e al contempo totalmente in­capace di vedere e capire, prima che sia troppo tardi, fenomeni macroscopici e dal­la grande potenzialità eversiva. E quand’an­che vede, lo fa con gli occhi del bambino, ripercorrendo fino alla noia luoghi comuni, emozioni, sentimentalismi, sem­pre comunque guardando indie­tro e quasi mai progettando seria­mente per il futuro. È il caso della percezione socio-istituzionale, estremamente variabile ed erra­tica, che sul fenomeno dell’immi­grazione si è avuta nel tempo in Italia. Ciò che manca, anche a li­vello di percezione sociale (per non parlare di quella dei policy maker), è che cosa vogliamo fare della nostra immigrazione dopo gli anni dell’accumulo silenzio­so e prima che sia troppo tardi. Prima, cioè, che si inneschi, più o meno inconsapevolmente, un’esplosione razziale a catena, sull’onda dell’umanitarismo e dell’egoismo miope, che produ­ce razzismo.
Nel caso di migrazione da do­manda prevalgono i lavoratori di­pendenti, in settori manifatturie­ri, a bassa qualifica, in ogni caso pressoché immediatamente in­seriti nelle garanzie di welfare proprie dei paesi di destinazio­ne. Essi hanno alta propensione alla stabilità e trovano di fatto nei paesi ospitanti esplicite strategie assimilative: lingua, scuola, casa, modelli culturali, eccetera. Questi flussi di immigrati entra­no così nel ciclo sociale delle eco­nomie di destinazione attraver­so il lavoro. L’assimilazione è, dunque, solo funzione del tem­po.
Al contrario, nel caso di migra­zioni prevalentemente da offer­ta la ragione del movimento ri­siede nelle condizioni socioeco­nomiche dei Paesi di origine. Non esiste, quindi, nessun at­trattore capace di selezionare i flussi, per cui le tipologie dei mi­granti sanno le più varie: alta sco­larità, bassa scolarità, alta forma­zione, bassa formazione, eccetera. I settori di arrivo non saran­no quelli centrali manifatturie­ri, ma quelli marginali-intersti­ziali-maturi. Ci sarà alta propen­sione al lavoro autonomo, alla clandestinità e al lavoro som­merso. Ne deriva una precarietà generalizzata, nessuna propen­sione alla stabilità e, soprattut­to, nessuna strategia assimilati­va da parte della società di desti­nazione. Il bilancio costi-benefi­ci di questi modelli migratori da offerta è tutto spostato sulla visi­bilità dei costi. Da qui conflitto, razzismo e mancanza di risorse per casa, scuola, lingua, welfare state , eccetera. Non entrando nel ciclo sociale, questi migranti ne rimangono ai margini, por­tando così alla creazione, nel tempo, di pericolose tensioni et­niche e razziali e di discrimina­zioni ghettizzanti. Se la immigra­zione è subìta, infatti, rischia di formarsi un pericoloso mix so­cioeconomico. Anzi, i flussi mi­gratori che si vanno sommando via via nel tempo finiscono per aumentare le segmentazioni nel mercato del lavoro, vanifi­cando le politiche esplicite di flessibilità salariale.
È quello che è avvenuto in Ita­lia, dove la migrazione è stata quasi tutta da offerta e dove gli im­migrati che oggi sono regolari, sia dal punto di vista di permesso di soggiorno sia dal punto di vista lavorativo, sono tali non perché arrivati in periodi in cui il merca­to del lavoro domandava quel ti­po di immigrazione, ma perché regolarizzati nel tempo attraver­so sanatorie e decreti «flusso». Da questa amara constatazione occorre, dunque, partire per svi­luppare adeguate e coerenti ri­sposte per il futuro.
La prima strategia deve riporta­re su un pia­no di visibilità econo­mica i fenomeni migratori. Le so­le risposte umanitarie non solo non bastano, ma rischiano di incancrenire gli squilibri. In altri termini, va perseguita una com­pleta parificazione tra lavoratori immigrati e lavoratori nazionali, così da esplicitare, sia in termini macro che in termini micro setto­riali e di area, la reale attrazione da domanda, relativa, cioè, a po­sti di lavoro non coperti dall’offer­ta interna.
Questo semplice assunto pre­suppone la lotta senza quartiere al lavoro nero, al sommerso, all’il­legale, in quanto questo tipo di at­tività sempliceme­nte scarica sul­la collettività i costi dell’immigra­zione, senza redistribuirne i van­taggi, anzi producendo concor­renza sleale verso quei settori che non utilizzano lavoro irrego­lare.
La seconda strategia va posta a livello geopolitico in termini di solidarietà Nord-Sud, vale a dire aumentando l’impegno di trasfe­rimenti riequilibratori dalle aree ricche del mondo a quelle in via di sviluppo.
La terza strategia deve riguar­dare quantità e qualità di investi­menti, in capitale umano, diretti ai giovani dei paesi in via di svi­luppo: si tratta di avviare uno sfor­zo straordinario e di lungo perio­do nella formazione di base, spe­cialistica e universitaria.
Dal Terzo rapporto annuale Gli immigrati nel mercato del la­vo­ro in Italia a cura della Direzio­ne generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di luglio 2013 emerge che i dati di fonte Nazio­ni Unite c­he riguardano la distri­buzione della popolazione mon­diale hanno stimato per il 2011 una presenza di quasi 7 miliardi di abitanti.
Secondo le statistiche Istat, nel 2011 gli extracomunitari residen­ti in Italia erano 3.214.418, con­tro 1.262.473 del 2003. Mentre so­no circa 500.000 gli irregolari (sti­me Caritas), sia in quanto a sog­giorno che a lavoro. La forza lavo­ro degli immigrati nel 2012 è sta­ta pari a 2,7 milioni, in aumento del +87% rispetto al 2005. Sem­pre nel 2012, gli immigrati occu­pati sono risultati pari a 2,3 milio­ni, e i disoccupati a 382mila. De­gli oltre 3 milioni di immigrati regolari, solo una parte è occupata stabilmente e ufficialmente: so­no 2,3 milioni i posti di lavoro re­golari. Gli altri 382mila o sono di­socc­upati o sono occupati irregolarmente in attività sommerse, soprattutto nelle aree metropoli­tane del Centro-Sud, ma con una qualche stabilità. Poco si sa, invece, dei 500 mila irregolari.
È chiaro che per tale comples­so universo di presenze extraco­munitarie nel­ nostro paese le po­litiche del lavoro e dell’immigra­zione non potranno che essere estremamente differenziate: per prima cosa l’universo dei regola­ri va trattato in maniera specifi­ca. Essi, infatti, hanno accettato una visibilità, per così dire, di cit­tadinanza, ma solo in parte han­no trovato (o potuto trovare) una visibilità economica. Per questi ultimi (i disoccupati) l’unica ve­ra politica è quella di farli emerge­re, intervenendo sia (soprattut­to) sulla domanda (l’economia sommersa) che sulla stessa offer­ta, favorendo l’impiegodi questi extracomunitari in attività di mercato, ancorché non coperte da italiani.
Sugli irregolari-irregolari mol­to probabilmente non è possibi­le alcuna risposta socio-econo­mica, avendo essi già manifesta­to l’a­ssoluta mancanza di volon­tà di stabilità, sia sociale sia lavo­rativa. Il loro numero dovrà esse­re p­ertanto progressivamente ri­dotto, soprattutto attraverso fil­tri all’origine (visti) e fermi con­trolli di polizia (espulsioni). La domanda aggiuntiva esplicita da lavoratori extracomunitari è molto bassa e a malapena è in gra­do di mantenere occupato quel nucleo di 2,3 milioni di regolari­regolari. Sulla base delle attuale previsioni di non crescita del red­dito in Italia, di aumento della di­soccupazione e degli at­tuali squilibri e segmentazioni del merca­to del lavoro tra Nord e Sud, l’uni­co flus­so possibile riguarda quel­lo dell’assorbimento della manodopera regolare disoccupata già presente, attraverso progressive azioni di emersione del sommer­so. Ciò che, invece, è possibile fa­re è migliorare e qualificare la condizione degli extracomunitari già presenti nel nostro paese, differenziando e razionalizzan­do le risposte a seconda delle ti­pologie di presenza e di possibile inserimento nella società italia­na e sviluppando nel contempo, con il concorso di tutti, gli investi­menti e l’assistenza verso i paesi di origine. Non è nell’interesse di nessuno, infatti, accumulare spostati, disoccupati ed emargi­nati: è un costo per i paesi di destinazione e non produce alcun be­neficio ai paesi di origine. Altra via per coniugare efficienza ed equità sinceramente proprio non c’è.
Renato Brunetta