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 2013  luglio 22 Lunedì calendario

LA MIA ULTIMA CENA CON GARDINI

Ieri, mentre leggevo l’intervista su Raul Gardini rilasciata da Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo per il Corriere del­la sera, la memoria, non troppo arrugginita, mi ha restituito ricordi abbastan­za nitidi sulle 36 ore che precedettero il suicidio dell’imprenditore, risalen­te alla mattina del 23 luglio 1993, vent’anni orsono, in piena buriana di Tangentopoli. Il numero uno di Mani pulite nonché fondatore di Italia dei valo­ri, recentemente tornato al lavoro dei campi non per imitare Cincinnato ma perché costret­tovi dalla mancata rielezione in Parlamento alle ultime consul­tazioni (24-25 febbraio scorso), afferma che l’allora padrone della chimica nazionale si spa­rò alla tempia, togliendosi la vi­ta all’istante, «in un moto d’im­peto non preordinato coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso».
Insomma, un suicidio d’istin­to, dettato dalla consapevolezza che quella stessa mattina, do­vendosi recare in Procura per essere interrogato sulla madre di tutte le stecche (Enimont), probabilmente sarebbe stato arrestato e incarcerato. Come tanti prima di lui. Non mi permetterei mai di contraddire l’ex Pm a riguardo dell’inchie­sta, dato che era materia sua, mentre io ne raccontavo gli svi­luppi col distacco tipico di chi è chiamato soltanto a riferire; tut­tavia posso testimoniare che, invece, Gardini non premette il grilletto così, all’improvviso, in un momento di disperazione, ma dopo avere covato il proposito relativamente a lungo: mi­nimo 36 ore, come dicevo so­pra.
Spiego perché. La sera del 21 luglio cenai con lui nella sua ca­sa di piazza Belgioioso (vicino a piazza Meda, dove c’è il Disco dello scultore Arnaldo Pomo­doro). Ignoravo e ancora igno­ro il motivo per il quale mi aves­se invitato. Fui sorpreso, ma ac­ce­ttai la sua proposta senza por­mi problemi: non volevo essere scortese con un uomo che, oltretutto, era stato fra gli azioni­sti del giornale che dirigevo a quel tempo, L’Indipendente, quotidiano dedito alla narrazio­ne dei fatti prodromici alla ca­duta della Prima Repubblica. All’ora convenuta, le 20.30, mi presentai davanti al portone dell’elegante palazzo. Mi rice­vette un garbato signore, sup­pongo il maggiordomo, che mi introdusse nell’austera dimo­ra. Fui fatto accomodare in un salotto e attesi. Ero un po’ agita­to, anche perché non conosce­vo l’ospite illustre. D’altronde, si prova un certo imbarazzo nel­l’inc­ontrare un potente mai fre­quentato in precedenza, spe­cialmente quando non sai che cosa si aspetti da te.
Trascorsi alcuni minuti, il ma­gnate si appalesò: abito grigio antracite, capelli bianchi, espressione severa. Dopo i soli­ti convenevoli - stretta di mano, come sta?, bene grazie, e lei? - si sedette di fronte a me, ma aprì bocca soltanto per ordinare al cameriere di servire l’aperitivo: champagne Veuve Clicquot. Scuro in volto come uno cui sia stato diagnosticato un cancro che non perdona, Gardini bev­ve un sorso, deglutì e si accese una Muratti Ambassador. Gli chiesi se potessi fare altrettan­to. Con la sigaretta tra le labbra mi illudevo di recuperare disin­voltura. Trovai soltanto il corag­gio di rompere il silenzio di tom­ba, rivolgendogli la domanda più cretina in quella circostan­za surreale: «Che ne dice, presi­dente, di questa mattanza di po­litici e imprenditori?».
Tirò un sospiro, aspirò del fu­mo in abbondanza, poi sconso­lato osservò: «Speravo fosse lei a darmi qualche notizia». Rispo­si in automatico: «Tutto quello che so l’ho scritto. Ma ogni gior­no ce n’è una nuova. Ormai i cancelli di San Vittore sono gire­voli, purtroppo solo in entrata, come le porte degli alberghi». Il suo commento fu molto sinteti­co: «Già». Per fortuna si inserì il cameriere con una variante al­la stringata conversazione: «Se lo desiderano, prego, la cena è pronta». Gardini si alzò e mi in­dicò la sala da pranzo. Con sgo­mento constatai che la tavola era apparecchiata per due, dal che ebbi a desumere che per un’oretta, forse di più, sarei sta­to costretto, senza l’ausilio di al­tri commensali, a escogitare un espediente per sciogliere il rigi­dissimo padrone di casa.
Provai in ogni modo a stimo­lare il suo interesse. Non ci fu verso di fargli cambiare espres­sione: occhi fissi sulla minestri­na di alta cucina ospedaliera, la mano destra impegnata col cuc­chiaio, le dita della sinistra che stringevano la sigaretta come fosse l’ultima, quella di un con­dannato a morte. Gardini sorbi­va un po’ di brodino e fumava; ogni tre cucchiaiate e due boc­cate, beveva champagne. Paro­le, zero. Un incubo. Non com­prendevo il senso di quella sera­ta. Perché mi avrà invitato qui per non dirmi niente?, mi do­mandavo.
Di sottecchi controllavo l’oro­logio: le lancette sembravano paralizzate. Ero infastidito ol­tre che stupito. In un obitorio ci sarebbe stata un’atmosfera più serena che in quella sala da pranzo. Per adeguarmi ai ritmi del padrone di casa, bruciai una sigaretta dietro l’altra. Ero al corrente che Gardini non sta­va messo bene: le voci di un suo probabile arresto circolavano da settimane. Per cui non mi fu difficile intuire da che cosa di­pendesse il suo umore tetro. Rimaneva un mistero: perché convocarmi al suo desco? For­se pretendeva da me qualche dritta. Avendogli però detto, non appena giunto in piazza Belgioioso, che non avevo infor­mazioni fresche, egli si rese con­to dell’inutilità della mia pre­senza, e sprofondò nei suoi cu­pi pensieri.
L’ipotesi di spararsi non cre­do gli piacesse, ma gli piaceva ancora meno, evidentemente, quella di subire l’umiliazione del carcere. Mai suicidio fu più meditato, altro che «moto d’im­peto». Di Pietro non deve pen­tirsi di non avere arrestato Gar­dini prima che questi ponesse fine ai suoi giorni. Un Pm fa il suo mestiere secondo coscien­za, se ce l’ha, altrimenti rischia di usare la custodia cautelare (che espressione gentile, ma la galera è galera) quale scorciatoia per arrivare subito al noccio­lo: la confessione. Il sistema è ef­ficace, indubbiamente, ma può provocare disastri. E infatti seguita a provocarne.
Vittorio Feltri