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 2013  luglio 21 Domenica calendario

SE LA GOGNA SU FACEBOOK E’ PIU’ EFFICACE DELLO STATO

La violenza insulta il corpo e in­fanga l’anima. C’è chi la subi­sce fino alla morte e chi reagi­sce con altrettanta violenza. Quando è l’unica possibilità di salvarsi e di punire. Come sembra nel caso di Anna e Massimo, artisti entrambi, che han­no concluso una storia di (mal)amo­re e sangue su Facebook. Lei dice di essere stata selvaggiamente percos­sa e le foto «postate» lo proverebbero con orro­re. Lui nega, forse ha ragione, ma, purtroppo, tutti i violenti negano.
Negano di fronte alle ferite inferte, negano di avere detto parole crudeli, negano perfi­no se hanno ucciso. La violen­za è negazione di per sé: della vita, di un’anima che non c’è più. Chi è violento ha biso­gno delle urla e della sofferen­za di un altro per sentirsi vi­vo.
In questo ennesimo caso di cronaca, c’è violenza in entrambi, se le botte e i pugni ci sono stati. Se Anna subiva vio­lenze, si era tanto progressi­vamente abituata al dolore, da accettarlo nell’apatia. Poi deve averlo sentito più forte, tanto da uscire dall’anestesia emotiva, da avere bisogno lei stessa di infliggerlo all’altro, quasi per esserne risarcita. E allora ha gridato via internet, ha cercato l’aiuto, ha voluto la vendetta.
A che cosa serve denuncia­re, in questo Stato, imbelle e confuso, che rilascia gli assas­sini e incarcera gli imprenditori? La giustizia è il valore più calpestato dagli uomini e dalle donne che malamente rappresentano le istituzioni.
A chi si deve rivolgere la vit­tima della violenza, che qua­si sempre è isolata, non ha amici, non ha alleati, perché ha vissuto all’ombra delle ma­ni cattive del partner? Quan­te vittime hanno sporto que­rela e poi sono state ignorate, trascurate, beffeggiate, mes­se in pericolo dall’ignavia di chi è responsabile di reprime­re e sanzionare i reati? Ecco perché, una giovane di oggi, si rivolge a Facebook, a Twitter, dà le prove fotografiche, denuncia, processa ed emet­te da sé una sentenza in tem­po reale; invece di attenderla per tempi biblici, riuscendo così ad esporre alla gogna pubblica il carnefice. Se è tut­to vero ciò che Anna racconta, ha fatto bene. Anzi benissi­mo. Ha salvato se stessa, ma ha anche condannato alla vergogna mediatica il colpe­vole. Se non è vero, però, è col­pevole lei stessa di avere espresso una violen­za psicolo­gica senza pari, per­ché ha distrutto un uomo che è anche pa­dre di una fi­glia. Ma, se non è vero, sarà punita in modo più grave di quanto prospettano il reato di ca­lunnia o di diffamazio­ne, come meglio do­vre­bbe esse­re inquadra­to. Perderà la dignità e la cre­dibilità per il resto della vita.
La violenza è intollerabile e va repressa con tutti i mezzi più rapidi ed efficaci: le vitti­me non conoscono gli strumenti per difendersi o hanno paura di usarli. Lo Stato deve agire e deve sapere che le fa­miglie si rivelano spesso terri­tori malsani, nei quali germo­gl­iano e proliferano i semi ve­lenosi della violenza, nel de­serto del rispetto di persone e diritti. Le donne sono le vitti­me più numerose; ma non dobbiamo nasconderci, con amarezza, che, grazie alla competizione dei sessi, an­che la violenza non è più appannaggio tendenzialmente maschile.
In un caso e nell’altro, co­me nella vicenda ancora am­bigua di Massimo e Anna, lo Stato, se c’è, deve battere un colpo e reagire. Perché anche il silenzio, quando ci dovreb­be essere l’azione, è una gra­ve forma di violenza.
Annamaria Bernardini de Pace