Alessandro Bernasconi, Il Sole 24 Ore 22/7/2013, 22 luglio 2013
LOTTA VARIABILE ALLA CORRUZIONE INTERNAZIONALE
La recente sentenza di condanna in primo grado contro Saipem (società del gruppo Eni), pronunciata dal tribunale di Milano per corruzione internazionale in Nigeria, riporta alla ribalta non poche problematiche connesse al rischio d’impresa, nella fattispecie quello connesso alla commissione di reati - da parte del personale dell’azienda - che avvantaggiano la medesima. Stiamo parlando del decreto legislativo n. 231 del 2001 per il quale i delitti che germinano dall’attività imprenditoriale a danno dell’ambiente (varie tipologie d’inquinamento), dei lavoratori (violazioni della sicurezza in azienda), della pubblica amministrazione (corruzioni, truffe), dei sistemi informatici e, più in generale, della collettività (riciclaggio, finanziamento del terrorismo, abusi di mercato) sono punibili con sanzioni interdittive, pecuniarie e con la confisca.
Se vuole sfuggire a queste conseguenze penali, o attutirne l’impatto, l’azienda deve adottare un modello organizzativo volto a rendere trasparenti e ricostruibili le sue decisioni e, in ultima analisi, a prevenire la commissione dei reati. In altre parole, il legislatore del 2001 perseguiva l’obiettivo della legalità dell’agire imprenditoriale, postulando che fossero le aziende stesse a organizzarsi, predisponendo i modelli di organizzazione e affidando a un organismo di vigilanza interno - un inedito nella legislazione in campo societario - il compito di controllarne il rispetto.
Saipem è stata condannata per (presunte) tangenti distribuite, secondo il tribunale, da suoi ex manager per conquistare un appalto di rilevante entità nel paese africano: 600mila euro di sanzione pecuniaria e 24,5 milioni di euro confiscati quali profitto del reato. I fatti addebitati agli "apicali" della società si erano prescritti e il delitto di corruzione internazionale, di cui i suddetti erano imputati, dichiarato estinto; diversa la sorte per l’azienda, poiché la normativa prevede che se il reato si estingue in un momento successivo alla sua contestazione da parte del pubblico ministero - cioè dopo la richiesta di rinvio a giudizio - la responsabilità dell’ente rimane in piedi.
In attesa della motivazione della sentenza e del preannunciato ricorso in appello, quali riflessioni ispira la pronuncia dei giudici milanesi? La più importante concerne i riflessi che (la necessità di prevenire) il reato di corruzione internazionale - cioè di funzionari Ue e di altri Stati esteri - esercita sul concreto operare delle aziende italiane e di quelle di molti paesi occidentali. La fattispecie incriminatrice tutela - come nel caso in oggetto - il corretto svolgimento delle gare d’appalto e quindi la libertà di mercato: è ovvio che se un’impresa versa mazzette a funzionari pubblici per aggiudicarsi una gara, quest’ultima degenera in farsa. Tuttavia, un conto è contrastare la corruzione nelle democrazie occidentali, ove esistono anticorpi "sociali" suscettibili di interagire con gli strumenti di deterrenza della giustizia penale; altra faccenda è tutelare la corretta competizione, tra aziende straniere, in Paesi in via di sviluppo ove la tangente al pubblico funzionario locale per l’aggiudicazione dell’appalto è più diffusa.
In questa prospettiva, un ruolo decisivo è giocato dalle legislazioni degli Stati cui i singoli competitor appartengono. Se raffrontato con altre esperienze straniere, il nostro ordinamento non allevia la posizione delle imprese italiane impegnate sul mercato internazionale. Vediamo qualche esempio.
Le aziende inglesi sottostanno a una normativa in apparenza rigorosa (il Bribery Act del 2010) ma, nella sostanza, poco efficace. A tacere del fatto che il numero dei reati su cui si aggancia la corporate crime liability è - rispetto al nostro - ridottissimo, il dato centrale concerne l’assenza di autonomia dell’autorità inquirente britannica: serve il benestare, di fatto "politico", del Director of Public Prosecutions per dare avvio a una inchiesta penale per illeciti di particolare rilievo. Il sistema giudiziario statunitense appare invece più incisivo, se si guarda all’entità delle sanzioni irrogate in primo grado alle company; tuttavia, sia la tendenza dei giudici di appello a ridurre l’importo delle pene pecuniarie, sia il fatto che il rito penale più diffuso è quello del patteggiamento, svelano un’attenzione alquanto formale nei confronti dei reati d’impresa (e i critici stigmatizzano questo costume del "to pay lip service"). Se infine esaminiamo la situazione della vicina Germania, scopriamo che la mancata previsione di sanzioni interdittive, il basso livello di quelle pecuniarie nonché il principio di opportunità dell’azione penale, cospirano a favore di una scarsa incisività nel perseguimento della corruzione perpetrata dalle aziende tedesche.
Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Brescia