Stefano Carrer, Domenica, Il Sole 24 Ore 21/7/2013, 21 luglio 2013
UN DOLCIASTRO TERRICCIO GIAPPONESE
Mangiare la terra, mangiare con le mani. È possibile che la quintessenza dell’esperienza urbana – la cena in un ristorante stellato nel quartiere trendy/chic della grande metropoli – possa davvero celebrare il ritorno alla natura, spinto fino all’estremo del terriccio che si fa cibo? È questa la scommessa di Yoshihiro Narisawa, chef che festeggia in questi giorni i dieci anni di Narisawa, che ha di recente ottenuto il riconoscimento come ristorante più ecosostenibile del mondo dalla Sustainability Restaurant Association. Un primato che si aggiunge a quello di migliore ristorante dell’Asia e ventesimo a livello mondiale, secondo i Best 50 Awards sponsorizzati da San Pellegrino e AcquaPanna. Del resto, la contraddizione è anche nell’unione tra una filosofia etico-estetica molto giapponese e soluzioni creative di grande appeal internazionale che non si trovano di solito nel Sol Levante, la cui cucina, non a caso, è stata reinterpretata ai massimi livelli globali da alcuni chef che hanno deciso di emigrare (da Nobu a Morimoto).
Narisawa, oggi 44enne, era tornato in patria, dopo un pellegrinaggio di nove anni in Europa tra Francia, (Bocuse, Robuchon), Svizzera (Girardet) e Italia (Antica Osteria del Ponte), iniziato quando aveva 19 anni. Dopo una prima esperienza in provincia, è approdato a Tokyo dieci anni fa, aprendo ad Aoyama un ristorante che ha presto acquisto la fama di un teatro per manifestare in tavola le bellezze naturali del Paese, in giochi di maestria e forte immaginazione tra gli elementi di terra, acqua e fuoco. Non è il Giappone del sushi e del tempura. Qui, pur dentro un contesto astratto bianco e nero (nessuna concessione nell’arredamento a troppo facili richiami "nature") e di tecniche raffinate, si "entra" nella foresta, fino al punto di mangiare una zuppa di terriccio, preso in una località della montuosa provincia di Nagano: bollito, drenato e affogato in un bicchiere. Lo si prova con qualche perplessità, se non apprensione. Non ci sono aggiunte di sale, pepe o altro: il sapore è sorprendentemente dolciastro. Prima, però, si deve proprio fare un ingresso con riverenza nella foresta: su una tavoletta di legno compare uno sfondo di presepe naturale, ovvero una composizione di sottobosco all’inizio dell’estate. Si chiama "scenario Satoyama", parola che dà il nome al tipo di cucina del maestro, che peraltro molti preferiscono chiamare con il suo stesso nome, a identificazione di uno stile. Si beve un sorso di semplice "essenza di foresta" da un piccolo cilindro che è poi un rametto di ciliegio scavato e si prendono con le mani, tra indice e pollice, erbette selvatiche polverizzate e piccole radici. È un tocco di violenza culturale, nei confronti delle consuetudini giapponesi fin troppo urbanizzate: aiuta a lasciarsi andare. Ma si esita a rovinare il paesaggio naturale che sta davanti: del resto non va mangiato tutto, ma solo assaggiato a piccole sfregature di dita, per non sentirsi troppo presto sazi. A pensarci bene, si resta stupiti da un Giappone che si rivela molto meno regolamentato dell’Italia.
Narisawa va da piccoli produttori organici locali e non prende nulla dal più grande mercato del pesce del mondo (quello di Tsukiji), mentre da noi saltare la distribuzione e costruirsi un network informale di un centinaio di fornitori sarebbe un vero problema. Così come offrire in tavola la terra provocherebbe verosimilmente una dura ispezione dei Nas. «Abbiamo fatto fare volontariamente una serie di test, ma non è obbligatorio», dice Narisawa con la sua aria tutt’altro che da star. Poi spiega che la terra – con le minuscole creature invisibili che contiene – viene raccolta solo in inverno in un posto specifico, e congelata, quasi a trattenere la forza creatrice della natura destinata a esplodere in primavera. Intanto il "pane della foresta" con un tocco di castagne completa la sua fermentazione davanti al cliente, per 12 minuti. Il personale è più numeroso dei coperti (30). Ci sono anche stagisti stranieri, il che non succede mai nei templi della cucina nipponica. Ogni nuova portata sorprende, con piatti sempre radicati in una estetica giapponese della natura aderente al "shun" (cattura degli ingredienti, compresi alcuni generalmente trascurati, al vertice della loro stagionalità). Accompagnati per lo più da vini e sake locali. «Non ci consideriamo "kaiseki"» – aggiunge la moglie Yuko –. L’ospite deve "cadere" sotto l’incantesimo della stagione così come è, mentre la cucina stagionale giapponese ha regole formali e di calendario che poco si adattano in modo uniforme a un territorio che va dal freddo Hokkaido alla tropicale Okinawa. Senza contare l’effetto dei cambiamenti climatici. I due figli pre-adolescenti della coppia sembrano destinati a seguire le orme paterne, con un entusiasmo anch’esso naturale che fa loro sacrificare le vacanze scolastiche per i fornelli. Narisawa è coinvolto in vari progetti sulla sostenibilità ambientale, sulla rigenerazione delle foreste e il mantenimento di specie autoctone minacciate. Il motto della sua cucina – "evolvere con la foresta" – e il suo programma secondo cui il cliente non si deve limitare a mangiare ma "assorbire la vita stessa", può apparire retorico.
Eppure, dopo dodici portate, si esce leggeri nella giungla urbana, davvero con la sensazione di aver respirato e assorbito la natura, come quando si ritorna da un trekking nei boschi.