Mario Tozzi, La Stampa 22/7/2013, 22 luglio 2013
TERREMOTO, LA LEZIONE IMPARATA
Quando le lance onorarie delle legioni romane tremavano, appoggiate al muro dell’Aula Regia del Palatino nell’Urbe, significava una sola cosa: che un terremoto si era scatenato in Umbria e nelle Marche.
Cicerone (63 a.C.) scrive di quei sismi, allora così lontani dalla capitale, nelle Catilinarie; Tacito (51 d.C.) ricorda che nelle zona «le case crollano per i frequenti terremoti». Tutta la regione è riconosciuta sismica da sempre e, per rimanere agli ultimi tempi, subì oltre 5000 scosse superiori a magnitudo 2,5 Richter dal 1979 al 1997, cioè fra il terremoto della Val Nerina e quello di Colfiorito. Nel 1328 il terremoto durò tre mesi, nel gennaio del 1703 la grande scossa fu preceduta da numerose altre premonitrici, nel 1831 il terremoto di Foligno durò oltre quattro mesi. La sequenza sismica della Val Nerina (1979) aveva raggiunto il IX grado Mcs, intensità superata più volte nella regione attorno. Infine, nel settembre del 1997, una coppia sismica (due scosse in sequenza ravvicinata con la seconda più violenta della prima) fece 11 vittime, distrusse una «vela» di Cimabue nella Basilica di Francesco ad Assisi, danneggiò circa 400 chiese e centinaia di edifici storici e di rilievo. Eppure, oggi, un terremoto di magnitudo rilevante (4,9 Richter) non provoca feriti né sfollati e i danni sono molto circoscritti, quasi da paese normale. Cosa è cambiato?
La vera differenza sta nell’aver imparato da quanto già accaduto in passato e nell’aver ricostruito con accortezza, tenendo conto della progettazione antisismica, scegliendo i materiali giusti e operando, qualche volta, con tecnologie all’avanguardia, come quelle che consentono oggi di assicurare la parte superiore della Basilica di Assisi o di dissipare le scosse sotto la torre campanaria di Nocera Umbra. La ricostruzione post-terremoto del 1997 è stata accurata e molto, molto lunga: ci sono voluti quasi quindici anni per recuperare chiese, case e infrastrutture. E molti investimenti. Questo dovrebbe servire da monito per chi vorrebbe sveltire le pratiche ricostruttive a L’Aquila o nel Ferrarese oltre i limiti tecnici: per ricostruire bene ci vuole tempo, per restaurare anche i palazzi storici e i monumenti ancora di più. Le new town e lo spreco di denari per una ricostruzione fasulla e troppo precoce, come nel caso aquilano, dovrebbero restare un fenomeno isolato. Peraltro la coincidenza oraria con il sisma abruzzese del 2009 (ovviamente una pura coincidenza) porta comunque a un confronto diretto: a L’Aquila la normativa antisismica era lettera di legge dal 1937, ma non se ne è tenuto conto o si è operato fuori dalla legalità. Nell’Umbria e nelle Marche l’esperienza del 1997 non è restata lettera morta. Perché non è mai il terremoto che ti uccide, ma la casa mal progettata o mal costruita che ti crolla in testa.
E non se ne è tenuto conto solo nell’Italia centro settentrionale né soltanto in tempi recenti. Cerreto Sannita è una cittadina del Beneventano apparentemente simile a molti paesi e paesotti dell’Appennino meridionale, ma in realtà diversa dalle fondamenta, nel senso letterale del termine. L’impianto delle abitazioni civili e municipali marca palesemente la differenza rispetto agli altri centri abitati di una terra martoriata dai terremoti e che presenta il più alto rischio naturale fra le regioni italiane. Le fondamenta sono fatte ad arte, i muri si allargano verso il basso per aumentarne la stabilità e sono ben spessi per renderli più resistenti (a volte presentano pietre angolari intagliate in unico blocco di roccia e staffe di rafforzo), le case sono basse e le strade sono larghe, un esempio, insomma, di edilizia antisismica da seguire ed esportare. Ci si potrebbe augurare che sia solo una questione di tempo per fare in modo che anche gli altri Comuni italiani si adeguino alle normative antisismiche: il problema è che di tempo ne hanno avuto sin troppo, se si considera che Cerreto fu completamente ricostruita dopo un terremoto nel XVII secolo ad opera dei Borbone e che il centro storico di oggi è ancora quello tirato su allora.