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 2013  luglio 23 Martedì calendario

NOVANT’ANNI DI AMORE TRA GLI AGNELLI E LA JUVE C’è

un bimbo di neanche cinque anni vestito da marinaretto, suo padre gli tiene la mano, è uno sfolgorante pomeriggio di sole del settembre 1925. Stanno entrando al campo sportivo di corso Marsiglia per andare a trovare la Juventus, che lì si allena. Il padre si chiama Edoardo, il figlio Giovanni, come il nonno.
C’è un ragazzino di dodici anni che va a vedere la prima partita di calcio della sua vita, a Roma, il 28 aprile del 1946: una squadra battezzata “Grande Torino” surclassa i giallorossi per 7-0. Il ragazzino si entusiasma. «Non avevo mai visto una cosa del genere. Poi rientrai a Torino, e mi venne spiegato da che parte dovessi stare». Quel ragazzino si chiama Umberto.
C’è un bambino di sette anni, a Villar Perosa, dove la Juventus giocava sempre la prima partitella estiva contro la squadra Primavera. Si siede in panchina e chiede di stare vicino al suo campione preferito, Paolo Rossi. È il mese di agosto del 1982. Quel bambino si chiama Andrea.
E tutti si chiamano Agnelli. Anche la Juve, da novant’anni esatti, si chiama Agnelli. Sembra solo calcio, è molto di più.
La Juventus, che l’Avvocato pronunciava sempre per esteso, facendosi girare quel nome in bocca come una caramella, esiste dal 1897. Ma si chiama Agnelli dal 24 luglio 1923, quando Edoardo diventa presidente a trentuno anni: è il figlio del senatore Giovanni, il fondatore della Fiat. Edoardo sarà il padre di Gianni e di Umberto, e il nonno di Andrea: tutti maschi Agnelli, tutti presidenti della Juve. «Essere un Agnelli significa avere un impegno da onorare per la vita», dirà Andrea molti anni dopo quel pomeriggio trascorso accanto a Pablito. Ed essere la Juve, cos’è? «Un solo, magnifico destino da oltre un secolo: vincere». In novant’anni spaccati, caso unico al mondo, gli Agnelli sono stati Juventus in molti modi, come diverse sono state le loro personalità e visioni. Ma, alla fine, è come se fossero rimasti una sola persona, anzi una squadra. Anzi, la squadra.
Quando l’avventura comincia con Edoardo, uomo segnato dal destino come non pochi altri della sua stirpe, la Juve ha vinto appena uno scudetto, remotissimo, nel 1905. Lui ci lavora sodo, e ne cava l’inizio di una leggenda: è la squadra dei cinque tricolori consecutivi dal ‘30 al ‘35, quella di Combi/Rosetta/ Caligaris, ma anche di Monti/Cesarini/Orsi: quando il calcio diventa filastrocca, vuol dire che non uscirà più dalla mitologia. Ma Edoardo muore proprio nel 1935 in un incidente aereo, e fino al 22 luglio 1947 non ci sarà un altro Agnelli alla presidenza. Poi toccherà a Gianni, ventiseienne, al comando fino al 18 settembre 1954. L’Avvocato comincia a costruire il suo personaggio ineguagliabile, la Juventus è il suo balocco, è una passione fortissima, è la lettura dei giornali all’alba cominciando dal fondo, per poi avviare il giro di telefonate che svegliano giocatori e allenatori. E presidenti, quando toccherà a Catella e poi a Boniperti governare per conto del sovrano. Perché la Juve è stata anche una monarchia costituzionale.
La storia sta rivalutando grandemente la figura di Umberto, il ragazzino che si trovò a un passo dal diventare granata. Secondo una vecchia e non del tutto ingiustificata boutade, Gianni con la Juventus ci ha giocato, suo fratello Umberto ci ha lavorato. Di sicuro, il Dottore è stato l’uomo di un paio di ricostruzioni, nel ‘55 in prima persona e nel ‘97 inventando la Triade, e di fatto svincolando la Juve dal modello mecenatistico dell’Avvocato. Umberto, l’uomo dei bilanci e del rigore anche formale, fuori dalla luminosità dei riflettori. Fu lui ad acquistare Charles e Sivori per 105 e 180 milioni di lire. «Cosa diranno gli altri? ». Il suo collaboratore Walter Mandelli consigliò cautela. «E io li compro lo stesso», replicò Umberto. Il fratello dell’Avvocato, e padre di Andrea, a 21 anni è diventato il più giovane presidente della storia juventina. Quando ingaggiò Sivori, lo portò in automobile da Novara a Torino, e il fuoriclasse argentino si prese una paura del diavolo. «Non immaginavo che si potesse patire la macchina più dell’aereo». Poi, certo, la presenza di Gianni Agnelli è stata, nell’immaginario di tutti, dirompente e unica. Lui che affascina e seduce Platini con un enorme mazzo di rose rosse per la moglie del campione, lui con il suo Boniek bello di notte, il suo Baggio coniglio bagnato e il suo Pinturicchio, e poi Zidane «più divertente che utile»: anche l’Avvocato ogni tanto toppava, è il destino dei grandi battutisti. La sua è stata la Juve dei nove scudetti di Boniperti e di tutte le coppe, di Trapattoni e del blocco mundial in Spagna, di Zoff e Scirea, Tardelli e Platini, Cabrini e Bettega. La squadra più meridionale d’Italia con i Causio, i Cuccureddu, i Pietruzzu Anastasi, calciatori che il lunedì riempivano d’orgoglio i battilastra in catena a Mirafiori. Ma, nel rispetto della pace sociale, dunque condizionato da quegli stessi battilastra, l’Avvocato decise che non era il caso di comprare Maradona: sarebbe costato troppi miliardi, e la gente non avrebbe capito. «Ma io e mio fratello abbiamo sempre fatto l’impossibile per la Juventus», dirà negli ultimi mesi della sua vita.
L’ultimo Agnelli, il giovane e mordace Andrea, già due scudetti e uno stadio nuovo di zecca, è in linea con i memorabili novant’anni. Nel suo ufficio, nonno Edoardo e il senatore Giovanni lo guardano da una rara fotografia. «Da quando la Juventus è gestita dalla mia famiglia, abbiamo vinto uno scudetto ogni tre». Ed è perfettamente d’accordo con suo zio Gianni, quando un giornalista gli domandò: Avvocato, vinca il migliore o vinca la Juventus? «Sono fortunato, perché spesso le due cose coincidono», rispose il più grande degli Agnelli.