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 2013  luglio 20 Sabato calendario

ARCIPELAGO PUTIN IN RUSSIA IL GULAG RESISTE ANCORA

Aleksej Navalnyj arriva stamani a Mosca, da Kirov. Lo aspetteranno in centinaia. E chi non sarà nella Piazza delle Tre Stazioni, suonerà il clacson o posterà un messaggio in Rete. Qualcuno teme che il combattivo blogger anti-Cremlino trasformi il rientro in un attacco al regime putiniano. La storia russa ha infatti un illustre precedente, il mitico ritorno in patria di Lenin a San Pietroburgo, trasformato dalla propaganda comunista nella pietra miliare della rivoluzione bolscevica. Aleksej Navalnyj non potrà allontanarsi dalla capitale, ma Mosca è grande come la Valle d’Aosta, non come i quattro metri quadri in media a disposizione di un detenuto russo. Se la procura di Kirov non avesse deciso per la libertà condizionale, in quale infernale prigione sarebbe finito per i prossimi cinque anni il più popolare e amato degli oppositori russi? Forse in Siberia. Certo, il contesto è mutato. I lager staliniani sono stati chiusi, l’universo concentrazionario sovietico è stato per gran parte smantellato, ma la sostanza è rimasta più o meno la stessa. La brutalità delle galere, a sentire le organizzazioni umanitarie, non è poi diversa. E agli oppositori non sono fatti sconti. Anzi.
NE SA QUALCOSA Mikhail Khodorkovskij, l’oligarca del petrolio che entrò in rotta di collisione con Vladimir Putin. Finì in un carcere all’estremo Oriente della Siberia. Oggi sta consumando la pena in una prigione della Carelia, al confine con la Lapponia finlandese, dove l’espressione “essere mandati al fresco” non è solo un modo di dire. Secondo Vladimirt Rizkov, ex deputato della Duma e tra i fondatori del partito di opposizione Rpr-Parnas , “il regime di Putin è più repressivo di quello sovietico. Lo stato di polizia opera nella totale impunità e l’unica opposizione rimasta è quella di un gruppo sempre più ristretto di intellettuali e mezzi d’informazione di orientamento liberale”. Ricordate le Pussy Riot, le ragazze che avevano intonato una canzone anti Putin nella cattedrale del Cristo Salvatore, a Mosca? La cosiddetta “giustizia” russa le ha spedite in una delle 46 colonie penali femminili che dovrebbero ospitare 38.500 donne e invece ne sopportano 49 mila. Maria Aliokhina, 24 anni e madre di una bimba, si è vista rifiutare la libertà condizionale. Deve scontare due anni alla colonia penale 28 di Bereznicki, Siberia. Qualche tempo fa ha scritto una lettera in cui racconta in quali condizioni è costretta a sopravvivere: sembra di leggere quei diari clandestini che riuscivano a raggiungere l’Occidente ai tempi dell’Urss. Maria è arrivata dentro una tradotta coi vagoni privi di finestrini (le malfamate carrozze stolypin). Ogni detenuta ha a disposizione un letto (a castello), una sedia e mezzo tavolino. Ogni quaranta detenute ci sono tre lavandini due water ed è permessa la doccia una sola volta alla settimana. Ogni giorno, le prigioniere vengono convocate nella stanza chiamata “Regolamento interno”. Glielo leggono a fine giornata, dopo che hanno lavorato come schiave per 12 ore (e per una paga mensile di mille rubli, ossia 20 Euro). Se mostrano segni di stanchezza, sono punite. Nadia Tolokonnivoka , altra nota Pussy Riot, è finita nella Mordovia, regione così triste da esser nota solo per le colonie penali.
L’arcipelago gulag di Putin conta, secondo i dati del Consiglio d’Europa, una popolazione di 780.100 detenuti, ma le Ong russe sostengono che sono molti di più, 862 mila. Su una popolazione di 141 milioni di abitanti, significa che ogni centomila russi 540 sono dispersi in 7 prigioni, 62 istituti penitenziari per ragazzi e 657 per adulti, oltre a 160 colonie penali.
IL TASSO di carcerazione femminile è cinque volte quello dei paesi occidentali (dati Ria Novosti 2010). I detenuti vengono spostati il più lontano possibile dale loro famiglie. Era la tecnica punitiva del Kgb. Il “lavoro produttivo”, puro e semplice sfruttamento, è considerato un “fattore correttivo importante”. Lo scorso novembre apparve sul quotidiano britannico Daily Mail una foto subito battezzata “dell’orrore”: mostrava decine di detenuti magri e rapati a zero, senza camicie o canottiere, ammassati come bestie in una stanza dormitorio del carcere moscovita Matriosskaja Tshima che vuol dire “Il silenzio dei marinai”. É lì che nel 2009 trovò la morte, in misteriose circostanze, un altro oppositore di Putin, l’avvocato Sergej Magnitskyj. Aveva denunciato due anni prima la corruzione in seno alla Gazprom, l’arma energetica del Cremlino. Le autorità dissero che si era trattato di infarto. Magnitskyj soffriva di ulcera, i medici del carcere non furono scrupolosi. E forse era stato anche picchiato. L’hanno condannato, ma non hanno avuto il coraggio di riesumare la salma per leggergli la grottesca sentenza. Purtroppo, una delle troppe storie di ordinaria repressione.