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 2013  luglio 21 Domenica calendario

IL TRIONFO DELLA FIERA DEL LUOGO COMUNE


La verifica chiesta venerdì dal segretario del Pd, Guglielmo Epifani, è la numero 2 mila 767 degli ultimi trentadue anni. Il dato risente di qualche limite di calcolo: si sono usati gli archivi Ansa e solamente nei casi in cui il termine compariva nel titolo del dispaccio. La leggendaria verifica di governo: richiesta 2 mila 767 volte, voluta da Bettino Craxi, pretesa da Ciriaco De Mita, sollecitata da Giovanni Spadolini e che sia «seria», come precisava il socialdemocratico Pietro Longo. È necessaria una verifica, oppure un «tagliando», secondo la lenta evoluzione linguistica della politica, ed è necessaria se si «registra un impasse dell’esecutivo». Sarebbe, pare, il modo migliore di favorire «un cambio di passo». Il celebre «pungolo». Poiché con la «cabina di regia» - magica aspirina dei governi di coalizione - non si è portato a casa nulla.

Il pigro lessico di palazzo è un argomento ricorrente sulle pagine dei giornali. S i compilano i glossari, gli agili vocabolari, le istruzioni per l’uso: roba umoristica già trita. Ma stavolta pare di cogliere un aspetto ulteriore. Il latinorum della Prima repubblica non è più fra di noi: quell’indecifrabile alfabeto farfallino delle tribune elettorali, strumento per parlare ore e non dire nulla, ma mandare messaggi precisi, è morto stecchito. La Seconda repubblica non l’ha preso e ammodernato, anche a scopi di raggiro dell’elettore. Ha giusto conservato quelle quattro paroline buone per la ricetta stanca e inconcludente, in assenza di soluzioni nuove. Però il cervellotico gergo delle «convergenze parallele» e della «centralità democratica», che sottintendeva una strategia, non è stato ereditato. È rimasto soltanto il piccolo frasario polveroso del luogo comune, della tattica miserella. Lo si è colto nella seduta di venerdì al Senato - ma se ne potrebbe prendere un’altra qualsiasi delle ultime legislature - dove si è ingaggiato un dibattito povero di contenuti e, infatti, povero linguisticamente. «L’effetto evidente e contingente è il groviglio delle matasse di questioni» proposto dal socialista Riccardo Nencini è stata un’astrusità rara, come le «responsabilità consustanziali alle funzioni» di Vannino Chiti (Pd). Si è invece gustato il trionfo del «quadro a tinte fosche» (del cinque stelle Mario Giarrusso: ma Beppe Grillo direbbe mai «quadro a tinte fosche?»), delle «ombre» che «sono ancora tante e fosche» di Felice Casson (Pd). Della «zona d’ombra» di Peppe De Cristofaro (Sel). Del «ben lungi» di Luigi Zanda (Pd).

Il verbo più usato (sei o sette volte) è stato «stigmatizzare». «Non possiamo che stigmatizzare» (Gianluca Susta, Scelta civica) o meglio «stigmatizzare fortemente» (Enrico Cappelletti, M5S). Ma anche «stigmatizzare ancora una volta» (di nuovo Susta). E il vulnus? Poteva mancare il vulnus? «Verificatosi un vulnus» è il capolavoro di De Cristofaro, che poi ha anche «alzato il sipario». Ma si è anche «determinato un vulnus» secondo la collega di partito Loredana De Petris. Per Pierferdinando Casini «il disagio» era «palpabile» così come per Anna Maria Bernini (Pdl) il «meccanismo» era «perverso», la «campagna» era «mediatica» ed era stata «orchestrata». Il «gioco», diceva Nencini, era naturalmente «al massacro» (e tuttavia «vogliamo chiarezza» o, meglio ancora, «esigiamo un colpo di reni»). Lo «sdegno» era «legittimo», nel giudizio di Francesco Russo (Pd). Di conseguenza «esprimiamo inquietudine», aggiungeva un altro del Pd, Stefano Lepri. E pertanto «sottoposte al vaglio» (Karl Zeller, autonomista), o «restare nel novero» (Sustia), o «staccare la spina» (Sergio Divina, Lega). Non c’è sforzo espressivo. I vocaboli finiscono sulla carta ed escono dalla bocca in automatico, prefabbricati come le posizioni sostenute. Non c’è nessuno che parla bene perché non c’è nessuno che pensa bene, come diceva Nanni Moretti in Palombella rossa : «Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti». Invece siamo stati seppelliti da ovvietà eterne: «Assicurare continuità all’azione di governo» (Zanda), «nuovo slancio all’azione di governo» (Bernini), «fiducia che ribadiamo in maniera convinta e responsabile» (Renato Schifani).

Anche il premier, Enrico Letta, era preso dal «senso di ineluttabilità», da un «doveroso sovrappiù d’ascolto», dal «manifestato auspicio». E per concludere in pirotecnia, a voi il «tempo concessomi» di Casson, il «rivelatosi» di Schifani, «l’impegno solennemente richiestoci» di Russo. Prendete queste frasi, questi termini, e usateli al telefono con vostra zia, al bar con gli amici, e vedete l’effetto che fa. «Immolatevi sull’altare», come suggerito da Nencini: provate a non dire niente e a dirlo malissimo.