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 2013  luglio 22 Lunedì calendario

DALLA CHRYSLER AI RAY-BAN ANCHE L’ITALIA FA SHOPPING


Forse pochi se ne sono accorti perché in quelle settimane, ancora una volta, quasi tutti erano troppo occupati a lamentarsi per gli ultimi acquisti francesi in Italia. Quelli erano i giorni in cui Guggi, marchio fiorentino controllato dai francesi di Kering (ex Ppr) stavano prendendo il controllo della Richard Ginori. Sempre in quel periodo, lo stesso gruppo transalpino controllato da François Pinault stava chiudendo l’accordo sul marchio di gioielleria Pomellato. E in fondo piangere sull’Italia in vendita è più facile che rimboccarsi le maniche. O anche solo che accorgersi come esista anche un’altra Italia che, malgrado tutto, va fuori e compra. Pochi ne hanno parlato, ma negli stessi giorni delle cessioni di Richard Ginori e Pomellato, c’è chi dall’Italia è partito per conquistare il lusso e il design in terra di Francia.
Tamburi Investment Partners, la boutique milanese di investimenti guidata da Giovanni Tamburi, con un’operazione da 35-40 milioni di euro ha rilevato il 20% di Roche Bobois. Lo ha fatto volando sotto il radar, al riparo dal un certo tifo da nazionalismo economico di stampo calcistico. È certo un’operazione di taglia minore, ma niente affatto irrilevante. Roche Bobois, 335 negozi in 40 paesi del mondo, 530 milioni di fatturato, è il leader mondiale dei mobili di lusso: il più grande concorrente di Poltrona Frau, gruppo fondato a fine ‘800 e poi cresciuto fin dagli anni ‘50 con l’acquisto del vecchio teatro di Alexandre Dumas a Parigi. Un’icona francese che acquista in Italia il 60% dei suoi prodotti e ora ha un socio italiano di peso.
È stato solo un episodio, ma il segnale è chiaro. C’è anche un’Italia che compra - e bene non c’è solo quella relegata al ruolo della preda. Certo non sempre i pesi e le misure si equivalgono, ma i flussi non sono mai stati a senso unico. Neppure nei momenti più bui della recessione. Secondo le stime degli uffici milanesi di Kpmg, solo nel 2012 si contano 63 acquisizioni di società italiane su imprese estere, contro 91 acquisizioni dall’estero sull’Italia. Il controvalore l’anno scorso non è stato enorme, operazioni del made in Italy nel mondo per 1,8 miliardi di euro su un totale di 26 miliardi investiti in fusioni è acquisizioni nel paese. Non siamo più ai picchi degli anni di prima della scoppio della bolla, quando per esempio nel 2007 “corporate Italy” spese 59,8 miliardi all’estero (dati influenzati però dall’operazione Enel-Endesa) oppure 29 miliardi nel 2005, e non siamo neppure ai 40 miliardi dell’anno duemila. Quei risultati furono influenzati dall’euforia dell’ingresso nell’euro e dei tassi bassi che portò.
Ma uno sguardo indietro sui cinque anni di questa crisi, rivela anche segni incoraggianti. C’è un’Italia produttiva che non getta affatto la spugna, ma lavora per radicarsi nei mercati globali. È una platea di imprese non numerosa, eppure certamente attenta alle tendenze globali e non priva di coraggio. Certo molte delle più grandi acquisizioni degli ultimi tempi sono state guidate da imprese a controllo pubblico, spesso società di rete o attive nei contratti con e fra governi: Eni, Finmeccanica o la stessa Enel sono in testa alle classifiche per dimensioni delle operazioni all’estero dell’ultimo quinquennio. Dietro di loro però emergono quelle che in Italia vengono chiamate con un certo complesso d’inferiorità “multinazionali tascabili”, anche quando sono in realtà grandi gruppi globali un po’ ignorati in patria. È senz’altro il caso di Prysmian, che con l’aquisizione da circa 900 milioni di euro dell’olandese Draka nel 2011 è diventata il primo operatore al mondo nel settore cavi. Un’operazione dal significato industriale ben maggiore di quella dei francesi di Lvmh su Loro Piana, eppure su di essa nel paese è colato molto meno inchiostro. Se n’è parlato di più in Olanda, in Francia o nei paesi scandinavi. Sarà forse perché Prysmian non è più percepita come una società italiana da quando Pirelli l’ha ceduta dal fondo di private equity di Goldman Sachs. Ma una parte importante dei posti di lavoro, delle competenze, dei cervelli e del valore aggiunto resta in Italia e, fra l’altro, oggi che è diventata una bublic company il primo azionista (al 6,1%) è tornato italiano: la ClubTre, joint venture fra Tamburi, Angelini Partecipazioni e D’Amico Società di navigazione.
Alla frontiera fra il lusso e la meccanica poi quest’anno spicca l’operazione da 190 milioni di euro (anch’essa poco raccontata) della Investindustrial di Andrea Bonomi per il 37,5% del celebre marchio auto inglese Aston Martin. È vero che l’operazione fa seguito alla cessione del 100% di Ducati ai tedeschi di Audi e che Investindustrial stessa, in punta di diritto, altro non è che un fondo chiuso domiciliato in Lussemburgo.
Ma se esistono gruppi industriali italiani che hanno cambiato pelle in questi anni con una strategia di conquiste mirate, fino a diventare protagonisti globali, questi sono soprattutto tre: Campari, che negli ultimi cinque anni di terremoti finanziari ha portato a termine ben nove operazioni, spendendo quasi un miliardo (secondo le stime di Kpmg); Luxottica che nell’occhialeria di lusso, dopo aver inglobato i grandi marchi Usa Oakley e Rayban, dal 2008 in poi ha inglobato altri sette gruppi esteri, inclusa la francese Alain Mikli. E Amplifon, il gruppo di dispositivi medicali.
Quest’ultima azienda, guidata da Franco Moscetti, nel 2010 ha speso 343 milioni di euro per l’australiana Nhc e oggi l’amministratore delegato tiene a sottolineare certe differenze fra le strategie dei manager italiani all’estero e quelle, per esempio, dei francesi in Italia. Niente che riguardi Amplifon più di altre, ma Moscetti osserva: «Quando noi italiani facciamo acquisizioni all’estero, si tratta sempre di iniziative individuali portate avanti malgrado i nostri handicap di sistema - dice il numero uno di Amplifon - quando invece i francesi fanno acquisizioni in Italia, sono operazioni di sistema. È la Francia che si muove, non solo questa o quella azienda».
Resta il fatto che di individualità capaci di iniziativa l’Italia continua a non mancare. Il caso più noto ovviamente è Fiat su Chrysler, con l’azienda di Torino che prende il controllo di uno degli storici marchi Usa in primo luogo grazie al trasferimento di tecnologie dall’Italia agli Stati Uniti. Pochi giorni fa una corrispondenza del New York Times da Detroit sottolineava il ruolo dell’amministratore delegato Sergio Marchionne e come il Lingotto, con i suoi metodi in fabbrica, abbia riportato occupazione in un’icona americana che sembrava ormai pronta per il museo. «Fosse successo lo stesso in Italia, saremmo esplosi in lamenti e proteste», nota Tamburi. «Anche oggi Marchionne è molto più criticato nel suo stesso paese che negli Stati Uniti. Nessuno riflette sul fatto che Chrysler ha ripreso a macinare utili per più di un miliardo l’anno: molte di queste risorse affluiscono in Italia».
Ci sono poi vari altri casi di iniziative individuali d’eccellenza, spesso passate fin troppo sotto silenzio. Nella farmaceutica quest’anno Recordati ha completato (per 59 milioni) la sua settima acquisizione degli ultimi cinque anni, durante i quali nel complesso ha speso 358 milioni di euro. Autogrill in Spagna e Gran Bretagna, Cementerie Barbetti in Turchia, Pirelli ultimamente in Svezia (70 milioni investiti quest’anno su Dakia Holding) sono lì a dimostrare che le imprese italiane sanno anche cogliere i benefici di un euro troppo forte sui mercati dei cambi. Non sono solo destinate a soffrirne le conseguenze per l’export. C’è poi anche chi, come Datalogic, si è spinto fino a conquistare il 100% di un’impresa di software e elettronica come Accu-Sort negli Stati Uniti. La lista degli ultimi anni potrebbe poi continuare con Lavazza su Green Mountain nel settore bevande, De’ Longhi che prende i piccoli elettrodomestici della Braun da Procter & Gamble, Lottomatica su Gtech e tanti altri.
Nel complesso, stima Kpmg, quasi due terzi delle acquisizioni italiane (il 57%) sono state fatte in Europa Occidentale e il 23% in Nord America. I paesi emergenti che contribuiscono a gran parte della crescita globale pesano per appena circa un terzo delle strategie di espansione delle aziende italiane. Un paradosso forse coerente con la natura individualistica e poco sistemica delle operazioni all’estero dei manager tricolori. Ma che una riflessione sui loro successi nel mondo sia talmente più rara di quelle sull’Italia in vendita, dice forse qualcosa sull’immagine che il paese ha di se stesso.