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 2013  luglio 22 Lunedì calendario

FUGA DA CONFINDUSTRIA LE IMPRESE: COSTA TROPPO


SONO anni che Confindustria chiede al governo di tagliare la spesa, diminuire la pressione fiscale, snellire la burocrazia e attaccare le rendite o, se non altro, ridurre il numero delle Provincie. Ora però la aspetta una prova più difficile: applicare quella ricetta a se stessa. Non sarà una passeggiata. Quando giovedì le prime proposte di riforma arriveranno sul tavolo della giunta in Viale dell’Astronomia, è prevedibile che nell’associazione verranno a galla le stesse tensioni che affliggono il resto Paese.

PER quel giorno è atteso il rapporto della commissione ad hoc presieduta da Carlo Pesenti, una missione che il consigliere delegato di Italcementi ha compiuto volando sotto i radar. Pesenti emerge in questi giorni da un giro nei territori in cui gli associati, le imprese che ogni anno pagano i contributi, hanno chiesto tagli di spesa del 20-25%. Ma sa che i problemi in Confindustria ricordano troppo quelli dell’Italia perché la soluzione possa essere rapida. La lista suona molto familiare: una recessione che rende insostenibili i costi da circa mezzo miliardo delle strutture; amministrazioni e alti burocrati arroccati a difesa dei privilegi; una base di imprese contribuenti in rivolta (e in fuga), irritata dall’opportunismo di chi cerca solo vantaggi per sé a spese dell’associazione.
Non che la “spending review” del club degli industriali non sia già cominciata. Quando per esempio Marcella Panucci si è insediata nell’ufficio di direttore generale, un anno fa, si è trovata di fronte a una novità: il suo salario le avrebbe sempre permesso una vita confortevole, ma sarebbe stato una frazione di quello del suo predecessore. Giampaolo Galli, direttore generale fino al luglio 2012 (oggi deputato Pd), percepiva un compenso lordo stimato attorno agli 800 mila euro l’anno; e la sua buonuscita viene valutata fra i due milioni e i due e mezzo. I dati sono approssimativi perché il bilancio di Viale dell’Astronomia — certificato e pubblico — non scende in questi dettagli, anche se sul 2012 evidenzia un aumento del costo del personale dell’8,4% a 18,8 milioni.
Certo Galli ha un profilo raro in Italia: viene dalla Banca d’Italia e ha un dottorato con i Nobel Franco Modigliani e Robert Solow al Massachusetts Instititute of Technology di Boston. Eppure il tema dei compensi dei dirigenti confindustriali non riguarda solo lui. Anche i direttori generali delle associazioni territoriali percepiscono di solito fra i 250 mila e i 750 mila euro l’anno. E sono centinaia. Mentre infatti l’organizzazione presieduta da Giorgio Squinzi chiede che si aboliscano le Province, deve fare i conti con gli stessi doppioni e sovrapposizioni al proprio interno. Solo sulla Lombardia operano tredici “territoriali”, una per Provincia più la struttura regionale. Il territorio di Monza e Bianza per esempio è coperto ufficialmente sia da Assolombarda sia da Confindustria Monza e Brianza. A queste strutture si aggiungono poi quelle per classificazione merceologica su base nazionale e per ciascun territorio. Solo Confindustria Genova ha 22 segretari di sezione, dalla logistica alla sanità, sovrapposti ai responsabili “orizzontali”.
Un sistema del genere presenta inevitabilmente dei costi per i suoi contribuenti. La struttura centrale di Viale dell’Astronomia nel 2012 ha avuto spese per 40,4 milioni (39,2 nel 2011), mentre Assolombarda pesa per circa 5 o 6 milioni di meno. Dell’intera galassia nazionale non esiste invece un bilancio consolidato e pubblico, anche se le stime lo collocano a circa 500 milioni di euro: una cifra pari a ciò che lo Stato spende in uffici di collocamento mentre i disoccupati nel Paese superano quota tre milioni di persone. Certo non sarebbe del tutto corretto confrontare queste somme con quelle di simili associazioni in Europa, come il Medef francese che costa solo 37 milioni l’anno. Confindustria fornisce ai soci una gran quantità di servizi, dai negoziati sui contratti, alle consulenze legali, fiscali o relative alle buste paga. In qualche modo la sua elefantiasi è frutto anche dell’inefficienza dello Stato, che spinge gli imprenditori a darsi una struttura per tutelarsi. Ma l’equilibrio si sta spezzando. Un’impresa con 50 dipendenti ha oneri di associazione da almeno 15 mila euro, un gruppo di mille addetti può spenderne più di 50 mila e spesso i soci sono soggetti a doppia imposizione: territoriale più merceologica. Non stupisce dunque che, con la crisi, anche nei distretti più sani la morosità e le defezioni raggiungono il 12% delle entrate: molti imprenditori passano a Confartigianato, Confcommercio o LegaCoop, perché chiedono meno soldi e fanno pagare solo i servizi effettivamente offerti. Il bilancio di Confindustria si erode così di anno in anno. Non sono rari i casi di “territoriali” che non riescono a cambiare direttore generale perché non sono in grado di saldare le liquidazioni milionarie ai funzionari in uscita. Squinzi e Pesenti sanno bene che questa è la sfida, con anche un problema in più. Nella crisi il peso contributivo delle imprese pubbliche — Eni, Enel, Terna, Poste, Ferrovie, Finmeccanica — si è fatto sempre più determinante. Ma molti medi imprenditori hanno chiesto che la riforma Pesenti tenga fuori dagli organi statutari i manager pubblici: gli interessi di chi vende e di chi compra energia sono troppo diversi e in contrasto fra loro. Da giovedì, saranno faccia a faccia in Viale dell’Astronomia.