Francesco Mimmo, la Repubblica 21/7/2013, 21 luglio 2013
LE VOCI NELL’OMBRA
«Il dottor Krankle non ti sopporta. E neanche io...». L’odioso piccolo robot protagonista dei cartoon parla dal suo mondo di pixel. Ma la sua voce nasce nell’ombra, in uno studio dove, dietro a un microfono, si bilanciano timbro e intonazione. Dove le parole scritte su un copione prendono corpo. E a volte un’anima che nell’originale non avevano. E dove lampi di conversazioni vengono provati, registrati e “incollati” sulla bocca metallica di un robot disegnato al computer, o sulle labbra della star di una major. Così lavora chi doppia quel robot in uno studio di Roma. Così lavorano i doppiatori. Da cento anni. Da quando, nel 1913 e per Regio decreto, si cercò d’imporre l’italiano alla nascente industria cinematografica. Un secolo in cui le “voci nell’ombra” hanno dato vita al “birignao” della Garbo, alle storpiature di Stanlio e Ollio, fino all’“odore del napalm la mattina” e alle “chiacchiere e distintivo” di De Niro. Perché Hollywood ci mette la faccia, noi ci abbiamo messo la voce.
Cent’anni fa il governo Giolitti si trovò di fronte al big bang della celluloide, con lungometraggi destinati alle prime sale di proiezione. Un universo sconosciuto che si decise di affrontare a muso duro. Le regole sulla «vigilanza delle pellicole cinematografiche » vennero inserite, nel giugno 1913, in una legge più ampia che di fatto fece nascere la censura. Le storie degli eroi, allora del muto, dovevano essere controllate e quindi tradotte. Quella legge imponeva che i film stranieri fossero «riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana». Quando il muto venne abbandonato, quindici anni dopo, la legge rimase in vigore facendo esplodere il doppiaggio. Così negli anni le “voci nell’ombra” italiane sono diventate simbolo di maestria e tecnica e anche un business stimato oggi in una settantina di milioni (al netto del nero).
Strana storia quella del doppiaggio. Perché, dopo quel 1913, sembra incrociarsi con quella d’Italia. Nel 1933 è il regime fascista a intervenire. Il cinema ha ormai una diffusione di massa e i gerarchi vogliono avere la certezza che non arrivino messaggi sbagliati. Un pizzico di autarchia ed ecco un’altra legge: il doppiaggio deve essere realizzato in Italia. Così negli anni Trenta nascono i primi stabilimenti, a Roma e Milano. Prima ci si arrangiava. A volte era addirittura il proiezionista a spiegare al pubblico il senso dei dialoghi. Le grandi case cinematografiche avevano tentato esperimenti con risultati grotteschi. Facevano doppiare i film agli stessi attori americani dando loro un copione con la pronuncia da leggere. Un disastro, se non in un caso: il primo film sonoro di Stanlio e Ollio. Quella strana pronuncia amplificava l’effetto delle gag e fu mantenuto anche nelle versioni doppiate. Per gli altri arrivarono attori e attrici di teatro. Tina Lattanzi (la divina Garbo, Rita Hayworth), Lydia Simoneschi (Bette Davis, Vivien Leigh), Romolo Costa (Clark Gable, Gary Cooper). La prima generazione.
Nel dopoguerra le parti si invertono. Questa volta sono gli Usa a investire: ottocento milioni di dollari nel Piano Marshall per la diffusione delle pellicole hollywoodiane. Film che devono diffondere l’american dream, da tradurre e doppiare per un paese a digiuno di lingue straniere. Cominciano così gli anni d’oro del doppiaggio italiano, quelli che hanno fatto la nostra storia del cinema. Grazie alla voce di Emilio Cigoli (John Wayne), Ferruccio Amendola (De Niro, Pacino, Stallone), Claudio Sorrentino (Mel Gibson, John Travolta), Maria Pia Di Meo (Meryl Streep, Audrey Hepburn). O di Tonino Accolla, “inventore” della risata di Eddie Murphy e dei grugniti di Homer Simpson, scomparso proprio pochi giorni fa. Artisti che hanno reso inconcepibili gli esperimenti che in altre parti del mondo sono diventati un’abitudine: la voce fuori campo nei paesi dell’Est, un narratore in sala in Estremo Oriente. O i sottotitoli negli altri paesi europei. Metodi che in Italia non sono mai arrivati: qui c’erano già una serie di case di doppiaggio in grado di affrontare l’ondata di film americani. Come la Fono Roma, nata nel 1930, e oggi lo stabilimento di doppiaggio attivo con maggiore anzianità. Entri e c’è un museo, alle pareti le locandine. Ne ha “viste di cose che voi umani” chi oggi lavora in quei corridoi. Li incroci e subito ti fanno la voce da fumetto o da film horror per raccontare aneddoti. «Ahò, ma te lo ricordi l’elmo finto che gli avevano messo per il Gladiatore?». Verità o fiction? D’altronde il loro è un mondo fatto della materia dei sogni... «La nostra sede storica era in Piazza del Popolo, dove abitava anche Trilussa — spiega il presidente Eugenio Giambartolomei — al bar del piano terra si incontravano i nostri attoridoppiatori. O almeno allora erano quasi tutti attori. Oggi sono nella maggior parte professionisti del doppiaggio. Anche perché ci vuole un’abilità tutta particolare, diversa da quella degli attori. Il doppiatore deve entrare subito nel personaggio, senza scena, senza partner».
La Fono Roma ha cambiato sede, quattro piani di sale per registrare, mixare, sincronizzare. E per tutte le fasi della postproduzione. Compresa la “sala dei rumori”, dove vengono registrati i passi, gli effetti, il suono delle porte che si chiudono. I film arrivano senza sonoro, in alcuni casi le major aggiungono dei sonori obbligati. Altre volte vengono prodotti qui, spiegano i tecnici del mixaggio quasi accarezzando un gigantesco mixer. «Con questo ci abbiamo fatto Titanic», dicono con un certo orgoglio. «Ma il doppiaggio è un lavoro che si realizza in più fasi — spiega nei corridoi Marco De Risi, doppiatore con quasi vent’anni di esperienza tra film, documentari, cartoni animati —. Prima i dialoghi vanno tradotti, poi devono essere adattati al movimento delle labbra degli attori, infine recitati in sala». Poi ognuno ci mette un po’ del suo. «Io per esempio ho lavorato spesso con personaggi di colore — aggiunge ridendo De Risi — ma anche quando l’attore è in sovrappeso mi trovo a mio agio». Doppiare un film hollywoodiano costa tra i settanta e i centomila euro. Per un episodio di una serie americana servono circa settemila euro. «Certo la crisi si fa sentire — dice Giambartolomei — anche perché la tecnologia ha accorciato i tempi e si lavora meno». In compenso il mercato si è allargato. «Oggi si lavora molto su cartoni animati e documentari — dice De Risi — grazie all’arrivo dei canali satellitari».
È in una di queste sale che nasce la voce di quel robot. «Il dottor Krankle...». Una sola frase, ripetuta fino alla perfezione. «Com’è?», chiede la voce nell’ombra. Risponde Lisa Simpson, o meglio, la sua voce. Cioè Monica Ward, oggi anche direttrice di doppiaggio: «Non mi convince, rifacciamola...».