Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 21 Domenica calendario

IL PITTORE CHE SALI’ SULL’AUTO - È

tra i più versatili e originali inventori di forme del nostro tempo. Il suo nome è entrato a far parte dell’immaginario collettivo. Tra le vette del Made in Italy, nel 1999 è stato nominato Car Designer del secolo. Ha disegnato automobili per Fiat, Alfa Romeo, Mazda, Maserati, Lotus, Hyundai, Volkswagen, Lancia, BMW, Audi, Renault, Saab, Seat. Tra i suoi «capolavori»: Alfetta GT, Alfasud, Alfa Spider, Audi 80, BMW M1, Matiz, Panda, Punto, Uno, Croma, Delta, Thema, Prisma, Maserati MC12, Saab 9000, Ibiza, Marbella, Toledo, Golf, Passat. In più, uno sconfinato catalogo di oggetti.
Dietro questa sequenza di «cose»: attenzione alle logiche del mercato, maestria ingegneristico-progettuale. E un inatteso fantasma: l’arte. Una presenza costante sin dagli esordi, come ci racconta Giorgetto Giugiaro. Che ricostruisce il suo itinerario. Una storia da romanzo. Garessio, provincia di Cuneo. Immediato dopoguerra. L’incontro con pratiche artigianali che l’industrializzazione presto avrebbe spazzato via. Il nonno Luigi affresca chiese. Il padre Mario fa decorazioni sacre e dipinti a olio. «Quando si nasce in una famiglia che vive usando pennelli e colori, si rimane influenzati».
Costretto a esercizi quotidiani (il padre lo obbliga a realizzare ritratti e copie dal vero) Giugiaro impara subito a «fare veloce». Acquista una buona manualità. Si iscrive al Liceo artistico e comincia a frequentare un corso serale di disegno tecnico: «È stato allora che ho scoperto la terza dimensione». La sua routine: di giorno, la pittura; di sera, le composizioni «matematiche». L’ambizione: diventare pittore. Nel 1955, la svolta.
Giugiaro si diverte a fare caricature di automobili. Che vengono esposte alla mostra di fine anno del corso di figurinistica. Tra i visitatori, Dante Giacosa, direttore tecnico della Fiat. Il padre della Topolino, della 600 e della 500 apprezza subito il talento di quel diciassettenne. E lo recluta nel Centro Stile della Fiat, dove si studiano nuovi modelli e si perfezionano quelli già in produzione. «Guarda che gli artisti fanno la fame…», gli disse. Ricorda Giugiaro: «Sono entrato in Fiat senza nessun interesse per le auto. Per caso». Pittura e disegno sono le passioni che continuano a orientare il giovane designer, il quale realizza con i pastelli vetture in scala 1/1, mirando a saldare qualità cromatica e sapienza nel calcolare proporzioni, rapporti. Poi, nel 1959, un’altra svolta. Dopo aver visto alcuni suoi schizzi, Nuccio Bertone gli chiede di lasciare la Fiat e entrare nella sua fabbrica. Alla Carrozzeria Bertone il futuro autore della Panda resterà fino a quando — è il 1967 — fonderà l’Ital Styling (divenuta poi Italdesign). Un centro indipendente, che fornisce servizi ad aziende diverse. Uno studio di progettazione organica e integrata, che fonde creatività, design, ingegneria, marketing, costruzione di prototipi, definizione delle strategie di produzione e di montaggio, supporti necessari all’industrializzazione del prodotto.

E l’arte? Resta il segreto di Giugiaro. Che confessa di continuare a fare ritratti da «pittore della domenica». Si descrive come un dilettante che non ha potuto conoscere e frequentare l’ambiente artistico «vero». Per lui, però, dipingere è innanzitutto «un modo di sentire e di pensare». Definisce uno spazio dove ogni visione non deve essere sciolta da vincoli, ma va iscritta dentro regole e simmetrie. È qui il centro della poetica di Giugiaro. Che non crede affatto alla libertà assoluta: «La libertà è sempre condizionata. Sta nel sapersi destreggiare tra condizionamenti, limiti e ostacoli, fino a trovare la soluzione giusta». Spiega: «Un pittore può fare ciò che vuole. Io, invece, per realizzare le mie idee, devo misurarmi con aspetti tecnici, economici, tecnologici. Mediare con ingegneri e manager. La mia attività è la risultante di tante voci».
In questa filosofia, l’arte (nel suo intreccio di fantasia e di geometria) conserva un ruolo decisivo. «In quello che faccio, c’è ancora qualcosa di artistico. Anche se non si tratta della Grande Arte», dice Giugiaro. Il suo obiettivo: portare la pittura verso territori inattesi, aprendola al dialogo con la prototipazione e con la serialità. Un obiettivo che appare in linea con uno dei tratti distintivi del design italiano, la cui specificità risiede nella sua ipertrofia estetica, nel suo ininterrotto confronto con la vicenda delle avanguardie: spesso, i nostri designer sembrano agire come stilisti.
Si pensi alle auto di Giugiaro. Che, sovente, nascono da schizzi o da dipinti. Sono microarchitetture: per dirla con Roland Barthes, potrebbero essere considerate come l’«equivalente abbastanza esatto delle grandi cattedrali gotiche». Sono autentiche sculture viaggianti. «A differenza dei quadri, che restano fermi sulle pareti, le automobili si spostano, corrono. Sono gusci che custodiscono tecnologie avanzate. Mi interessano come prodotti complessi. Favoriscono la massima libertà individuale». Ma, oramai, sono soprattutto scatole magiche, capaci di alimentare affabulazioni senza fine: prodigiose macchine narrative. «Nate per dare un servizio, sono diventate espressioni della nostra voglia di mostrarci. Sono al di là delle nostre stesse necessità. Sono simboli sociali». Le migliori sculture viaggianti? Se si volta indietro, Giugiaro coglie ingenuità e difetti delle sue vetture. In un’ideale playlist, non ci sono le auto «edonistiche», ma quelle più spartane, nelle quali ha dovuto programmare ogni dettaglio: forma, singoli pezzi, saldature, ergonomia. La Uno, l’Alfasud. E la Panda: «All’inizio, mi dissero che era un frigo con le ruote». Car design, ma non solo. Frequenti gli sconfinamenti in altri ambiti.
Ad esempio: la pasta-pneumatico per Voiello, i motoscafi d’altura, gli orologi per Seiko, gli apparecchi per Philips e Sony, le fotocamere per Nikon, le macchine da cucire per Necchi, gli interni dell’airbus A321, la bottiglietta del Sanbittèr, i tralicci della luce dell’Enel, il restyling del Frecciarossa. Come pochi, Giugiaro è riuscito a concretizzare l’utopia del Movimento Moderno: dar vita a una progettazione totale, dalla piccola alla grande scala. I singoli episodi sono solo declinazioni diverse di un unico metodo. Che, nel tempo, è rimasto sempre il medesimo. E si basa sulla centralità del disegno, che non è un luogo in cui far confluire inquietudini interiori, ma territorio dove si può dare disciplina al pensiero. «Il mio modo di lavorare non è mai mutato: con una proiezione ortogonale, porto un punto nei tre piani dello spazio. Sono istintivamente abile nel ragionare in maniera matematica, attento a lunghezze e larghezze. Dopo, mi concedo qualche deformazione».
Ma come nasce un progetto? Da quali necessità? Per Giugiaro, conta solo l’esercizio consapevole. Non l’ispirazione, né l’originalità. «La mia immaginazione viene modellata giorno per giorno. Accoglie cose, situazioni, eventi». Senza mai abbandonare i principi sui quali si fonda lo stile di questo protagonista del Made in Italy. «Voglio — dice — rispettare la logica costruttiva degli oggetti. E rispondere alle esigenze degli individui. Senza trascurare la piacevolezza». Lo «stile Giugiaro» è proprio in questa ostinata ricerca di semplicità, linearità, funzionalità. In quello che, con Edoardo Persico, si definisce «l’orgoglio della modestia».
E dire che tutto era cominciato con un sogno: fare il pittore.
Vincenzo Trione