Sergio Romano, la Lettura (Corriere della Sera) 21/07/2013, 21 luglio 2013
GENEALOGIA POLITICA DEL DISSIDENTE
Dissenso e dissidente sono parole che ritornano frequentemente nella storia dei conflitti religiosi. Erano chiamati «dissidenti», in Inghilterra, i cristiani protestanti che non accettavano i principi e gli articoli di fede della Chiesa anglicana. Erano dissidenti in Polonia, prima della spartizione alla fine del Settecento, i luterani e gli ortodossi. Il dissidente quindi è molto più spregevole dell’infedele. Mentre questi è un estraneo, il dissidente è il membro della famiglia che ha tradito il suo sangue e lanciato una sfida all’ortodossia. Non è sorprendente che la parola sia stata molto usata nella lunga guerra ideologica che si è combattuta fra gli eredi di Marx con una impressionante sequenza di scismi e scomuniche, da quella che colpì il revisionista Bernstein a quella che si abbatté sul capo del «rinnegato Kautsky», per non parlare di Trockij, Boris Souvarine, Victor Serge o, per restare in Italia, Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Ignazio Silone, Angelo Tasca, Altiero Spinelli e forse, se non fosse morto nel 1937, Antonio Gramsci.
Gli scontri fratricidi assumono una nuova dimensione durante la Guerra fredda quando ogni nuovo dissidente della famiglia comunista è una vittoria del campo democratico e ogni democratico convertito alla fede di Mosca è una vittoria del proletariato. Il caso più clamoroso del primo dopoguerra fu quello di Viktor Kravcenko, un funzionario sovietico che chiese asilo agli Stati Uniti e denunciò in un libro (Ho scelto la libertà) il sistema repressivo dell’Urss e i suoi campi di concentramento. Quando «Les Lettres Françaises», il settimanale culturale del Partito comunista francese, scrisse che il libro era un cumulo di menzogne, Kravcenko lo querelò di fronte a un tribunale di Parigi, vinse la causa e ottenne un simbolico indennizzo.
Grande successo editoriale ebbe nello stesso anno (1949) il libro di sei personalità del mondo della cultura — Arthur Koestler, Ignazio Silone, Richard Wright, André Gide, Louis Fischer, Stephen Spender — che erano state comuniste o «simpatizzanti» e avevano clamorosamente «abiurato». Era inevitabile, nel clima della Guerra fredda, che i dissidenti di una parte e dell’altra divenissero corteggiati e ambiti. Non appena fu costituita a Berlino, nel 1950, l’Associazione per la libertà della cultura, la Central Intelligence Agency degli Stati Uniti (la Cia) ne finanziò segretamente le attività e contribuì così alla pubblicazione di alcune fra le migliori riviste degli anni Cinquanta e Sessanta: «Encounter» diretta da Stephen Spender in Gran Bretagna, «Preuves» diretta da François Bondy in Francia, «Tempo presente» diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone in Italia.
Lo scandalo dei finanziamenti scoppiò verso la metà degli anni Sessanta e permise ai partiti comunisti di sostenere che dietro alla propaganda anticomunista e l’incitazione al dissenso vi era il denaro dei servizi d’intelligence degli Stati Uniti. Ma in quegli stessi anni stava prendendo forma in Unione Sovietica un nuovo dissenso, molto più diffuso e spontaneo di quello degli inizi della Guerra fredda. La morte di Stalin, il rapporto di Krusciov al Ventesimo congresso del Pcus e la pubblicazione su una rivista sovietica («Novyi Mir») di una breve opera di Aleksandr Solženycin sulla vita nei gulag (Un giorno nella vita di Ivan Denisovic) avevano suscitato molte speranze, soprattutto negli ambienti culturali. Krusciov non aveva intenzioni liberali e la pubblicazione del libro di Solženycin era stata autorizzata soltanto per meglio liquidare il gruppo stalinista al vertice del partito. Quando visitò un’esposizione d’arte moderna organizzata nel Manege di Mosca in occasione del trentesimo anniversario del Sindacato degli artisti, il segretario del partito fece commenti insolenti e volgari. Ma la destalinizzazione aveva creato attese con cui l’Urss avrebbe dovuto fare i conti sino all’avvento di Gorbaciov.
Il regime cercò di soffocare il dissenso, ma non osò usare contro i «reprobi» i metodi con cui Stalin si era sbarazzato di un grande poeta, Osip Mandel’štam, di un grande narratore, Isaak Babel, e di uno straordinario regista teatrale, Vsevolod Mejerchold. Vi furono alcuni processi che ebbero una grande risonanza in Occidente, come quello di Julij Daniel e Andrej Sinjavskij nel 1966 che si concluse con la condanna di entrambi gli imputati a cinque anni di carcere. Ma i dissidenti erano troppo numerosi e le loro opere circolavano nella rete clandestina del samizdat (letteralmente «autopubblicazione») per finire, prima o dopo sul tavolo di un editore europeo o americano. La prima edizione nel mondo del Dottor Zivago di Boris Pasternak fu quella di Feltrinelli nel 1957. Il viaggio nella vertigine di Evgenija Ginzburg fu pubblicato nel 1967. I racconti di Varlam Šalamov apparvero a Londra nel 1978. I due volumi delle memorie di Nadežda Mandel’štam, vedova di Osip, apparvero in inglese nel 1970 e nel 1974. Il libro profetico di Andrej Amalric (Esisterà ancora l’Unione Sovietica nel 1984?) fu pubblicato in alcuni Paesi occidentali nel 1970, Il documento di Vladimir Bukovskij sull’uso degli ospedali psichiatrici contro i dissidenti giunse in Occidente nel 1971. Cime abissali di Aleksandr Zinov’ev apparve in alcuni Paesi occidentali nella seconda metà degli anni Settanta. Le maggiori opere di Solženycin, da La casa di Matrjona a Divisione cancro, da l’Arcipelago Gulag a Agosto 1914 furono pubblicate negli anni Settanta. Non tutti i dissidenti però avevano, nella logica della Guerra fredda, la stessa utilità. Finché restavano in patria ogni loro battaglia risvegliava l’interesse della pubblica opinione mondiale ed era una spina nel fianco del regime sovietico. Quando l’Urss decideva di espellerli, gli esuli perdevano una parte della loro utilità e potevano divenire addirittura ingombranti. È il caso di Solženycin. Quando arrivò negli Usa, gli americani non tardarono a scoprire che aveva scarse simpatie per l’Occidente e che era l’ultimo rappresentante del nazionalismo slavofilo con qualche imbarazzante vena di vecchia giudeofobia russa.
Il fenomeno del dissenso sovietico contribuì a intaccare l’immagine dell’Urss anche negli ambienti dove il culto della «patria del socialismo» era più tenace e contribuì indirettamente alla breve popolarità dell’eurocomunismo negli anni Settanta. Se i moti studenteschi del ’68 erano stati un processo alla democrazia borghese, le opere dei dissidenti dimostravano che il comunismo non era più un’alternativa. I premi Nobel conferiti a Pasternak, Solženycin e Brodskij, rispettivamente nel 1958, nel 1970 e nel 1987, dimostrarono contemporaneamente la vitalità della cultura russa e la superiorità morale dell’Occidente.
Nell’uso politico del dissenso vi è anche un interessante capitolo italiano. Quando era presieduta da Carlo Ripa di Meana, la Biennale di Venezia decise di dedicare al dissenso, soprattutto nei Paesi dell’Est, l’edizione del 1977. L’iniziativa seminò il panico fra gli intellettuali che non volevano mancare di lealtà verso il Pci e provocò una sorta di fuggi-fuggi tra coloro che avrebbero dovuto collaborare alla realizzazione del programma. Ripa di Meana reagì creando un comitato di consulenti di cui fecero parte tre dissidenti cecoslovacchi (Jiri Pelikan, Antonin e Mira Liehm) e un intellettuale polacco, Gustaw Herling, per cui l’Italia era divenuta una seconda patria. Due anni dopo, nel 1979, il segretario del Psi, Bettino Craxi, offrì a Pelikan un posto nella lista del suo partito per le elezioni del Parlamento europeo. Quando era arrivato esule in Italia dopo l’invasione sovietica del suo Paese, Pelikan aveva scritto una lettera a Enrico Berlinguer, ma non aveva ricevuto risposta. Accettò l’offerta di Craxi e rappresentò l’Italia a Strasburgo per due legislature.
Sergio Romano