Oscar Giannino, Il Messaggero 21/7/2013, 21 luglio 2013
SPESA DA TAGLIARE NON SOLO A PAROLE
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha usato parole molto misurate ieri, al termine del G20 a Mosca. Ha confermato che dal quarto trimestre di quest’anno dovrebbero manifestarsi i primi segni non solo di rallentamento di caduta dell’economia, anche di recupero tendenziale di una sia pur risicata crescita. Ma ha aggiunto una frase non di circostanza. Ha ammonito che l’instabilità politica continua a rappresentare un freno oggettivo, perché queste aspettative possano realmente manifestarsi.
Faremmo un torto al governatore, se pensassimo che si tratti di un giudizio rivolto a questo o quel partito, all’incessante travaglio interno del Pd o ai carsici istinti reattivi del Pdl sulle vicende giudiziarie di Berlusconi. Vi sono due dimensioni estranee al gioco dei partiti, che sono invece essenziali per tentare di agganciare la ripresa. Anche se essa si preannuncia contenuta, alla luce del minor aumento del commercio mondiale – dunque del nostro export, la molla più potente dell’economia italiana – prodotto dal rallentamento cinese e brasiliano, e dalla volatilità alimentata dai segnali di allentamento degli acquisti sul mercato da parte di banche centrali come la Fed e la Banca d’Inghilterra. Le due dimensioni estranee al gioco autolesionista dei partiti dipendono entrambe dal governo. La prima è la decisione con cui si muoverà, di qui alla legge di stabilità a fine settembre, dai segnali che manderà all’economia italiana e ai mercati. La seconda è rappresentata dalla qualità ed efficacia delle misure che assumerà, ponendo termine a questi primi 90 giorni di dilazioni e slittamenti.
Sul primo versante, l’errore da evitare è quello delle idee confuse. Valga un esempio storico. Turgot era stato esattore delle imposte a Limoges dal 1761, e per 15 anni aveva toccato con mano la miseria prodotta da tasse, decime e protezionismo, per cui i contadini faticavano a tenersi in tasca un quinto del magro reddito prodotto. Quando divenne controllore generale di Francia, nel 1776, immediatamente emanò i Sei Editti che abbattevano il protezionismo sui grani, diminuivano di un quarto le imposte, abrogavano la corvée per la quale i salariati dovevano regalare ogni anno 14 giorni di lavoro per costruire e manutenere strade e ponti. Ecco, oggi serve la stessa chiarezza di idee e decisione di Turgot. Il governo Letta ha avuto tre mesi, per prendere le misure dei saldi pubblici come dei vincoli europei, leggermente allentati grazie all’uscita dalla procedura d’infrazione. Ora, quel che non serve sono nuovi pasticci. Facciamo qualche esempio.
La liquidità. La leva più potente per dare liquidità a breve alle imprese è il pagamento dei debiti commerciali dello Stato. Lo stesso ministro Saccomanni ha detto di aver sbloccato 10 dei 20 miliardi deliberati per quest’anno, ma lo sblocco non determina pagamenti altrettanto solleciti. Quel che conta è dunque varare una procedura speciale d’emergenza perché le imprese incassino, e per verificare se non si possa anticipare senza effetti sul deficit il pagamento di almeno 40, non di 20, miliardi entro l’anno.
La spesa da tagliare. Non c’è capienza per reali abbattimenti d’imposta senza riduzione di spesa. Dunque la spending review deve giungere entro poche settimane a individuare alcuni punti di Pil di spese tagliabili, senza effetti recessivi e in un credibile percorso pluriennale, a fronte di un vero e proprio patto con i contribuenti, per cui ogni euro di spesa in meno diventa un euro di tasse in meno. Ma perché il risultato sia questo, è il ministro Saccomanni che deve in prima persona intestarsi con il premier Letta l’individuazione dei tagli di spesa. Al contrario, governo e maggioranza sembrano orientati ad attribuire la responsabilità a una figura esterna, contornata da un affollato comitato interministeriale. Così facendo, alla luce di anni di chiacchiere e di pochissimi fatti, si moltiplicheranno ancora una volta i poteri di veto e d’interdizione. E si finirà per dire a parole di aver abolito l’Imu prima casa, per trovarsi con una Tares che ingloba gli oneri della prima e della seconda.
I costi della politica. Non sono certo l’ammontare più rilevante della spesa da contenere, ma sono il simbolo di un’odiosa asimmetria per cui cittadini e imprese hanno pagato dal 2000 228 miliardi di entrate in più allo Stato, mentre la politica spendeva di più e peggio. Se il governo abbassa la guardia sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, già si è capito come finirà in Parlamento: ancora una volta lo schiaffo ai cittadini si rivelerà duro da tollerare. Un altro esempio: venerdì la Corte Costituzionale ha depositato la sua sentenza 219-2013, con la quale ha abrogato quanto era stato disposto dal governo Monti in materia di controlli e sanzioni alle Regioni indisciplinate. Cade così lo scioglimento dei Consigli Regionali, cade l’incandidabilità per 10 anni dei presidenti di Regione finite in default per dolo o colpa grave, cade persino l’obbligo di relazione di fine legislatura per fissare nero su bianco le responsabilità finanziarie di ogni governo regionale uscente. Al di là delle ragioni tecniche addotte dalla Corte – si darebbe un eccesso di potere alla Corte dei Conti – quel che arriva al cittadino è che ancora una volta lo Stato da una parte annuncia controlli e lesine finalmente per sé, dall’altra le abroga facendo marameo, non appena passano pochi mesi e i media son distratti.
Infine, le privatizzazioni. Per riportare il debito pubblico verso quota 80-90% del Pil, l’attuale media europea, procedere per avanzi primari di 5-6 punti di Pil ogni anno significa garrotare un’Italia già all’asfissia. Se si vogliono evitare patrimoniali coattive sul contribuente – uno scenario da guerra sociale – allora le dismissioni pubbliche sono necessarie. Ma visto il coro prevedibile di resistenti e contrari, quel che non serve è cadere in errori mediatici come quello avvenuto a Mosca: la mattina un annuncio di disponibilità anche per le grandi quotate di Stato, il pomeriggio una subitanea marcia indietro.
Non servono pacchetti azionari perché la golden share basta e avanza, per tutelare eventuali “strategicità” in settori come la difesa e la sicurezza nazionale. Le migliaia di società del socialismo municipale vanno ricondotte a efficienza di gestione e ad ambiti ottimali di offerta di servizio, vanno cioè ricondotte al mercato. Chiunque parli di strategicità delle centinaia di miliardi di valore del mattone di Stato ha idee singolari su che cosa sia strategico in un’Italia in ginocchio. Poste e Ferrovie sono quotabili una volta separate le attività di mercato da quelle residue a servizio universale. Dagli errori del passato c’è da imparare. Le privatizzazioni da buone diventano ottime quando il regolatore pubblico evita il trasferimento di monopoli e posizioni dominanti. Chi avesse comprato titoli delle 5 maggiori privatizzazioni della signora Thatcher, dal 1984 a fine giugno scorso ci avrebbe guadagnato l’854%, rispetto al +485% della Borsa di Londra negli stessi anni.
O Turgot, o sor Tentenna. Auguriamoci Letta e Saccomanni facciano la prima scelta, non la seconda. Anche perché dovrebbero ricordare che i contribuenti italiani non danno allo Stato 14 giorni di corvée ma 181 su 365, visto che il totale delle entrare pubbliche giunge al 49% del Pil.