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 2013  luglio 20 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - L’INDIGNAZIONE DI DOLCE E GABBANA


REPUBBLICA.IT
Prima gli insulti, poi le vetrine sbarrate: la protesta di Dolce & Gabbana contro il Comune di Milano sale di tono e in un comunicato stampa gli stilisti spiegano che i nove negozi milanesi resteranno chiusi per tre giorni. Tutto nasce da una dichiarazione dell’assessore al Commercio del Comune di Milano, Franco D’Alfonso: "Niente spazi comunali a chi è stato condannato per evasione fiscale". La reazione di Stefano Gabbana arriva via Twitter ed è pesante: lo stilista posta un messaggio di due sole parole "Fate schifo" seguite da tre punti esclamativi. E la rete si scatena. D’Alfonso tenta una retromarcia, ma ormai la guerra è scoppiata. Arrivano decine di messaggi di solidarietà agli stilisti e attacchi contro Palazzo Marino e il sindaco Giuliano Pisapia.
Pisapia, da parte sua, tenta una mediazione spiegando che le parole dell’assessore sono state inopportune, ma che la reazione degli stilisti
èstata spropositata. I quali, non ci pensano nemmeno a fare un passo indietro rispetto agli attacchi su Twitter e passano all’azione dal mondo virtuale a quello reale. Le vetrine dei negozi di corso Venezia e di via della Spiga, del ristorante Gold in piazza Risorgimento e degli altri esercizi sono chiuse e espongono un cartello gigante con la scritta "Chiusi per indignazione" che rilancia la polemica. Il cartello, tanto per essere compresi da tutti i turisti che sono in questi giorni a Milano per lo shopping, è anche in inglese.
E i due stilisti hanno anche chiesto l’intervento ai tre avvocati che li difendono dall’accusa di evasione fiscale, Massimo Dinoia, Fortunato Taglioretti e Armando Simbari, che in una lunga nota esplicativa affermano: "Incredibile ma vero: stiamo parlando di un reato giudicato in tribunale per due volte inesistente: il fatto non sussiste".
Nella polemica si inserisce anche il governatore lombardo Roberto Maroni: "Se Dolce & Gabbana - ha dichiarato Maroni - avranno bisogno di spazi per le sfilate, siamo pronti a mettere a disposizione gli spazi della Regione". "Il metodo che noi usiamo - ha proseguito il governatore - è il dialogo, sempre e con tutti. Mi ha sorpreso la reazione di Dolce e Gabbana nei confronti del Comune. Mi auguro che nell’interesse di tutti torni il dialogo, poi ognuno è responsabile delle azioni che fa".

Blitz di un gruppo di animalisti davanti al negozio di via della Spiga di Dolce & Gabbana, chiuso ’per indignazione’, una serrata di tre giorni nei confronti del Comune. Cinque persone sono arrivate e hanno attaccato sulle vetrine un lungo striscione con scritto "Indignazione è solo per gli animali che avete ucciso. D&G vergogna" firmato 100% animalisti

REPUBBLICA DI STAMATTINA
ORIANA LISO
MILANO
— TRE giorni di serrata. Negozi chiusi e come avviso, su tutte le vetrine, enormi cartelli che, ieri, hanno catalizzato l’attenzione di passanti e turisti. “Chiuso per indignazione”: così gli stilisti Dolce e Gabbana alzano il tiro nella polemica che da qualche giorno li vede protagonisti assieme al Comune di Milano. In particolare con un assessore della giunta arancione, quello al Commercio, Franco D’Alfonso, reo di aver detto di non considerare giusta l’eventuale concessione di spazi comunali ai due stilisti, vista la loro condanna in primo grado — esattamente un mese fa — per evasione fiscale. La querelle, con l’intervento da pompiere del sindaco Giuliano Pisapia sull’opinione personale espressa dall’assessore, sembrava conclusa giovedì sera: ma ieri mattina, a sorpresa, le nove sedi milanesi del marchio — da via
della Spiga a corso Venezia, più il ristorante Gold di via Poerio — non hanno aperto i battenti.
Dopo i
tweet
di Stefano Gabbana («Fate schifo!!!», indirizzato al Comune) i cartelli di ieri — con l’articolo del
Giornalesulla
vicenda e la traduzione in inglese — sono ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche, con il corollario della minaccia di Gabbana (sempre via Twitter) di restituire l’Ambrogino d’oro ricevuto nel 2009 dall’ex sindaco Moratti. Non meno acceso il comunicato stampa che dettano i due stilisti, mentre la notizia della serrata fa il giro dei siti di tutto il mondo: «La chiusura dei negozi di Milano è un segnale del nostro sdegno, non siamo più disposti a subire ingiustamente le accuse della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle entrate, gli attacchi dei pm e la gogna mediatica a cui siamo sottoposti da anni», scrivono, riferendosi all’inchiesta aperta nel 2010 dalla procura di Milano su una presunta evasione da un miliardo e conclusasi un mese fa con la condanna per entrambi a un anno e otto mesi per omessa dichiarazione. «Negli ultimi trent’anni a questa città abbiamo anche dato tanto: prestigio e visibilità internazionale, posti di lavoro e sviluppo economico», continuano i due, dicendosi «stanchi delle continue diffamazioni e ingiurie che tolgono serenità al nostro lavoro». Parole — accompagnate da una nota dei loro difensori — che hanno acceso l’entusiasmo dei fan e, allo stesso modo, provocato commenti sarcastici in Rete: ma il vero scontro
è, per una volta, nel mondo reale, e mette in conflitto la questione dell’importanza della moda per il
made in Italy
da una parte e il dibattito etico dall’altra.
Una palla incendiaria, tanto che la giunta Pisapia ha un solo ordine: minimizzare l’accaduto, sperando che il caso si sgonfi. A dover esprimere comunque una posizione resta l’assessore alla Moda Cristina Tajani, che da settimane sta lavorando sui progetti legati alla
Fashion Week
di settembre e che ora si augura che «le polemiche di queste ore non offuschino il lavoro positivo che l’amministrazione
sta portando avanti per sostenere il sistema moda e l’immagine della città». Ma salire sul treno delle polemiche, in questi
casi, è sport diffuso: e quindi il governatore lombardo Roberto Maroni si lancia in soccorso di Dolce e Gabbana assicurando
che se c’è bisogno per le loro sfilate «mettiamo a disposizione gli spazi della Regione, il metodo che noi usiamo è quello di dialogare,
sempre, con tutti» (il carico da novanta è dell’assessore regionale Paola Bulbarelli che accusa D’Alfonso di «fare male alla moda con le sue dichiarazioni che violentano il
made in Italy
»). Fuori dalla pugna si mette Mario Boselli, il presidente della Camera nazionale della moda, certo non in buoni rapporti con i due stilisti («che hanno urlato ai quattro venti che non fanno parte della Camera ») ma pronto quando serve a bacchettare il Comune: «È solamente uno scambio di schiaffi tra due realtà che non ci riguardano».

LE GAFFES DI D’ALFONSO
ALESSIA GALLIONE
MILANO
— Alla fine, toccò a Giuliano Pisapia rassicurare i milanesi che avrebbero potuto continuare a mangiare il gelato. Anche dopo mezzanotte. Una vicenda al limite del paradossale, quella dell’ordinanza che avrebbe fatto calare il coprifuoco sui coni da asporto nelle zone della
movida.
Un pasticcio amministrativo poi risolto in extremis che riuscì, però, a scatenare ironie feroci e proteste. Facendo rimbalzare ben oltre i confini dei Navigli l’immagine di una città dei divieti folli. È passato poco più di un mese da quello scivolone. Ma Franco D’Alfonso, l’assessore al Commercio, turismo e marketing che aveva firmato il provvedimento, torna a spaccare. E torna a creare un caso. Proprio lui, il più “arancione” degli uomini di Pisapia. E, questa volta, per una «battuta improvvida», per dirla con il sindaco. Una di quelle sparate a cui, ormai, ha abituato la politica e la città.
Cinquantasette anni, un passato da socialista, manager in Fine,
ninvest e Mediaset dove è arrivato a ricoprire la carica di direttore delle produzioni internazionali, D’Alfonso è uno che, nelle riunioni che contano a Palazzo Marino, in qualche modo c’è sempre. Fin dalla prima ora è stato nel cerchio ristrettissimo dei collaboratori di fiducia di Pisapia, anche perché è stato coordinatore della lista civica con cui l’allora candidato di centrosinistra si presentò alle elezioni del 2011. Eppure, spesso è stato lo stesso sindaco Pisapia a dover rimediare alle sue
gaffe.
Anche se i “bonus”, dicono adesso a Palazzo Marino, non sono infiniti. A maggior ragione in un momento delicato per il Comu-
alle prese con un bilancio da lacrime e sangue e una città da organizzare per Expo. Certe bufere si potrebbero evitare.
La prima smentita ufficiale del sindaco al suo assessore arrivò a
ottobre 2012. E quella sconfessione pubblica fece ancora più rumore perché dettata per prendere le distanze da un’intervista che D’Alfonso fece per vaticinare la presenza di una “lista arancione”
alle Regionali. Sembrava quasi parlare a nome dell’avvocato, lui che si è spesso appuntato sul petto l’etichetta di “ideologo arancione”. Allora criticò De Magistris, cannoneggiò sul solito Pd. Fuoco amico: un’altra tentazione in cui è spesso inciampato, riuscendo nell’impresa di far infuriare opposizione e maggioranza (insieme arrivarono a firmare qualche mese fa una mozione bipartisan per impedire la chiusura anticipata dei chioschi delle salamelle decisa dal solito D’Alfonso). Poi le sparate sul bilancio, le società partecipate, le accuse all’ex collega Stefano Boeri, i giudizi sulle alleanze alle ultime Regionali... Ogni volta un effetto a catena. L’ultima grana, per dire, scoppiò poco prima dell’affaire del gelato. Allora, D’Alfonso si era scagliato contro i consiglieri comunali di maggioranza accusati, più o meno, di essere inadeguati. Un finimondo. I Democratici chiesero spiegazioni, Pisapia pretese le scuse ufficiali, lodò il gruppo. Sarebbe dovuta essere l’ultima volta.

LA STAMPA
SARA RICOTTI
Ecosì Vincent e Vanya, consulenti di Hong Kong, se ne voleranno via da Milano senza essere entrati in un negozio di Dolce & Gabbana. C’è di peggio, di questi tempi, però per loro è un peccato, soprattutto perché pur leggendo con attenzione il cartello bilingue «Chiuso per indignazione» che giganteggia sulle vetrine della boutique di via della Spiga (e di tutti gli store milanesi del marchio, compresa la barberia, il ristorante Gold e l’edicola fashion di corso Venezia) non riescono proprio a capire. «So strange», ripetono, «perché chiudere tutti i negozi è una cosa che fa male soltanto a loro».
Il passaggio in via della Spiga in questi giorni è soprattutto di stranieri, nei monomarca i saldi sono già finiti e in vetrina ci sono già cappotti e pellicce. E a chi viene da lontano questa chiusura «per indignazione» sembra inspiegabile come altre cose del nostro Paese. Non così agli italiani che si soffermano davanti alle vetrine di corso Venezia. Un milanese con la moglie legge tutto e s’indigna a sua volta indirizzando una sentenza lapidaria (ma anonima) alla Giunta comunale: «Tanto gli assessori passano, i Dolce & Gabbana restano!». Passa anche un «collega» che ha una sartoria su misura qualche civico più là, Giuseppe Lo Bosco: «Non entro nel merito, ma per esperienza personale dico che quando ho avuto a che fare con cose organizzate a livello politico ho capito che ci sono... obiettivi diversi».
Ma perché Dolce & Gabbana sono così «indignados»? In estrema sintesi perché l’assessore comunale alle Attività produttive D’Alfonso, prevenendo una richiesta di spazi comunali per le sfilate (peraltro mai avanzata, Dolce & Gabbana hanno ristrutturato per questo un intero cinema con parcheggio sotterraneo in Porta Venezia) avrebbe detto che a «stilisti come Dolce e Gabbana... il Comune dovrebbe chiudere le porte, la moda è un’eccellenza nel mondo ma non abbiamo bisogno di farci rappresentare da evasori fiscali». L’assessore faceva riferimento alla condanna in primo grado della società Gado per presunta evasione fiscale di 200 milioni di euro (da un’altra sono stati assolti perché «il fatto non sussiste»).
Seguono un «Fate schifo» via Twitter di Gabbana al Comune, un mezzo passo indietro dell’assessore («non esprimevo l’opinione dell’Amministrazione») e l’intervento del sindaco Pisapia: «Battuta improvvida ma reazione ingenerosa». E loro, D&G? Chiudono per tre giorni come «segnale di sdegno» e scrivono un comunicato in cui spiegano le loro ragioni: «Siamo nati a Milano e a questa città siamo sempre stati grati. Però negli ultimi 30 anni le abbiamo anche dato tanto: prestigio internazionale, posti di lavoro e sviluppo economico». E allegano la lista dei primi contribuenti di Milano (redditi 2005, sono nella top 5). Agli avvocati lasciano il compito di spiegare le ragioni di un’accusa ritenuta ingiusta, loro si riservano di parlare delle conseguenze delle «continue diffamazioni e ingiurie che stanno togliendo serenità al nostro lavoro... Abbiamo la fortuna di lavorare con persone di rara eccellenza che credono fermamente in noi e per le quali tutto questo è demotivante».

CORRIERE DI STAMATTINA
MILANO — A nulla è servito il tentativo di pacificazione del sindaco Giuliano Pisapia. Né i chiarimenti dell’assessore al Commercio, Franco D’Alfonso. L’ira dello stilista Stefano Gabbana contro Palazzo Marino non si è placata. Tre giorni di sciopero generale del marchio, chiudono tutti i negozi in città. Inaccettabile essere tacciati di «evasione fiscale», nonostante la condanna in primo grado del Tribunale di Milano, riportata da lui e dal socio Domenico Dolce il 19 giugno scorso: un anno e otto mesi per «omessa dichiarazione dei redditi». «Redditi mai percepiti», insistono però dall’ufficio legale.
Alimentata dai tweet di qualche centinaia di migliaia di follower, tra cui un solidale Flavio Briatore, l’ira si è trasformata in «indignazione». La controffensiva studiata nella notte viene messa in atto la mattina.
Nessuno spazio per il dialogo, il Comune ha esagerato, toppato, sbagliato bersaglio. Proprio loro, i creatori del marchio Dolce e Gabbana, «quarto o quinto contribuente della città», oltre 25 milioni di euro, in due, pagati in tasse, trattati così, senza riguardo. E allora giù la saracinesca di tutte le attività e un esplicito cartello bilingue: «Chiuso per indignazione», closed for indignation. L’obiettivo è colpire il Comune agli occhi dei turisti, rendendolo il responsabile della serrata. «Non siamo più disposti a subire le accuse della guardia di Finanza e dell’agenzia delle Entrate — motivano gli stilisti —, gli attacchi dei pm e la gogna mediatica. Negli ultimi 30 anni abbiamo dato prestigio, visibilità, posti di lavoro e sviluppo economico a questa città».
Nove esercizi a luci spente, tanti quanti la somma dei punti esclamativi digitati giovedì mattina da Gabbana — tre per ogni tweet — quando, appena sveglio, l’indignazione era ancora ira, e lo stilista aveva insultato sul social network l’amministrazione, senza margini di fraintendimento: «Comune di Milano Fate schifo!!!», «Fate schifo e pietà!!!», «Vergognatevi!!!». E guai a chiunque altro si fosse permesso di obiettare.
Cartelli su tutte le vetrine, dunque, per tre giorni. L’articolo di giornale «incriminato» che campeggia sulle boutique tra corso Venezia e via della Spiga, dal barbiere al bar Martini, fuori dal ristorante in piazza Risorgimento e addirittura davanti all’edicola griffata del Quadrilatero. Tutti negozi che rimarranno chiusi da ieri fino a domani. È la reazione durissima dei due imprenditori a capo di un impero della moda — accusati di «esterovestizione» nella cessione di alcuni loro marchi generatori di royalties alla società lussemburghese Gado nel 2004, ma non ancora condannati con sentenza definitiva e anzi invece già assolti per dichiarazione infedele dei redditi di oltre 800 milioni di euro — alle dichiarazioni dell’assessore Franco D’Alfonso.
Il titolare del Commercio aveva infatti affermato, mercoledì, a margine di un’intervista, il concetto generale per cui il Comune «non dovrebbe concedere spazi simbolo della città a marchi famosi che abbiano riportato condanne per fatti particolarmente odiosi, come l’evasione». Un concetto mitigato dallo stesso D’Alfonso dopo gli articoli dei quotidiani Il Giorno e Il Giornale giovedì. «La mia frase è stata estrapolata e non esprimeva l’opinione della giunta. Rispetto il principio della presunzione di innocenza e auspico che Dolce e Gabbana riescano a chiarire la propria posizione». Parole sottolineate anche dal sindaco Pisapia, che con un’acrobazia aveva deciso di fare pari e patta. Definendo «improvvide» le affermazioni del suo assessore e «ingenerose» le offese di Gabbana. In un battibaleno, il caso è diventato politico. L’assessore è diventato allo «s-marketing» per l’opposizione e gli stilisti «ricattatori pronti a non dare pubblicità» per la maggioranza. Alla fine, è intervenuto anche il governatore leghista Roberto Maroni che non ha perso l’occasione per «offrire spazi a Dolce e Gabbana».
Ma la lite continua. E quando gli imprenditori minacciano di restituire l’Ambrogino d’oro vinto nel 2009 («rotto a metà perché ce ne diedero solo uno»), il presidente del Consiglio comunale, Basilio Rizzo, commenta: «Vuol dire che avranno letto il regolamento dell’onorificenza in cui si parla di dare lustro alla città e di rispettare le regole».
Giacomo Valtolina

CORRIERE DI STAMATTINA
GIAN LUIGI PARACCHINI
«Che cosa fa Milano per la moda? Zero, zero, zero. Purtroppo questa città si limita a convivere con la moda e non riesce ad andare oltre, anzi spesso dà l’impressione opposta di considerare questa convivenza come qualcosa di forzato, di ingombrante. Non credo faccia bene a nessuno, tantomeno a Milano».
Vecchio problema quello dell’atteggiamento un po’ distratto della metropoli considerata capitale del prêt à porter verso i protagonisti d’un fenomeno che dagli anni ’80 ha cambiato i parametri dell’eleganza e la storia del costume. Ne ha accennato diverse volte Giorgio Armani. Ne ha parlato l’anno scorso da Parigi con insolita veemenza Miuccia Prada, aprendo un dibattito che ha suscitato interesse, ma è rimasto poi monco.
Interviene ora Beatrice Trussardi, 41 anni, presidente del marchio con il levriero, cui non manca la capacità d’una buona visuale sul problema. E non soltanto perché dalla finestra del suo ufficio, sesto piano del Marino alla Scala, vede lo storico Palazzo sede dell’amministrazione comunale.
Beatrice, con i fratelli Gaia e Tomaso, fa parte della nuova generazione del Made in Italy. In più appartiene a una famiglia che ha fortemente marcato il territorio: la prima sfilata trent’anni fa proprio alla Scala, il Palatrussardi dove si è esibita la meglio gioventù rockettara, l’omonima Fondazione diretta da Massimiliano Gorni che ha provocatoriamente esordito con una curiosa installazione (specie di finto incidente automobilistico) nel cuore della Galleria.
Insomma Milano non vuole tanto bene alla moda?
«Mi verrebbe da dire che c’è una diffidenza di fondo a bloccare quella che dovrebbe essere una grande e reciprocamente vantaggiosa collaborazione. Incomunicabilità? Più che altro sembrerebbe un farsi male da soli».
Valutazione che riguarda soltanto l’attuale giunta?
«No, affatto. Il discorso è generale. Forse il sindaco con cui noi abbiamo avuto più occasione di parlare è stato Gabriele Albertini perché la nostra Fondazione è nata quando lui era sindaco. Ma il giudizio è trasversale».
Che cosa c’è di stonato?
«Penso che la prima cosa da chiedersi sia come gli amministratori, anima pubblica della città, guardino a noi della moda che siamo l’anima privata. Ci vedono come imprenditori o come nemici? Come potenziali alleati o come qualcuno verso cui nutrire appunto diffidenza o addirittura ostilità? La moda è fatta da privati che spendono soldi, creano valore, richiamano attenzione, possono essere utili. Non vale la pena di supportarli?».
In che modo?
«Manca una visione alta, la regia e la pianificazione. Purtroppo domina la miopia».
Qualche esempio pratico.
«Partiamo dalle cose più semplici: un po’ di marketing. I francesi sono più bravi di noi, gli americani dei maestri. Ci sono sei giorni di sfilate? Inventatevi una idea al giorno per rendere più attrattiva Milano. Ci sono angoli, case e capolavori artistici stupendi: forza, un po’ di fantasia. Basta guardare vicino».
Vicino dove?
«Lasciamo stare Venezia, dove sono allenati da secoli. Nella cultura Torino ha fatto cose straordinarie con musei e fondazioni. Si sa valorizzare molto bene».
Ed eccoci alla storia degli stranieri che se ne vanno ancora prima dell’ultima sfilata.
«Parigi è Parigi e non si discute. Ma Milano ha 4 straordinari asset: cultura, design, moda, cibo. Con risorse di questo genere è assurdo far scappare la gente. Bisogna però sapere come e dove indirizzarla».
Ma servirebbe a trattenere i giovani stilisti in fuga verso le altre metropoli della moda?
«Non trovo grave che i giovani se ne vadano. È fondamentale fare esperienze all’estero e ampliare gli orizzonti. Succede in tutti i settori. Il fatto grave è che poi non tornino ma al contrario, data la situazione non soltanto milanese ma nazionale, tendano a restare via per sempre. Qui bisognerebbe fare un discorso sulla meritocrazia. Altrove è un valore, qui non so».
Quale ricetta-appello rivolgerebbe agli amministratori?
«Lavoriamo per una autentica condivisione, troviamo un canale comune. Fra due anni c’è l’Expo, sarebbe bello che qualcuno ci avesse prospettato un lavoro comune, data l’occasione. Niente».
Loro i cattivi e voi sempre i buoni? Qualche autocritica?
«Forse la moda italiana è troppo individualista, fatica a fare sistema. Ma qualcosa sta cambiando, ne sono convinta».
Gian Luigi Paracchini

GIANGIACOMO SCHIAVI
Si parte dallo «schifo» e si arriva allo «sdegno», attraverso un iperbolico crescendo su Twitter e Facebook che frulla la moda e Milano, gli stilisti e le tasse, Dolce e Gabbana e il Comune, la frase infelice di un assessore e la reazione indignata della maison. E si finisce con una serrata, tre giorni di chiusura dei negozi con la griffe D&G e un comunicato che diventa un caso, perché fa male all’immagine di una città e di un Paese che di pasticci e figuracce negli ultimi tempi ne ha collezionati fin troppi.
«A stilisti come Dolce e Gabbana il Comune dovrebbe chiudere le porte: non abbiamo bisogno di farci rappresentare da evasori fiscali», ha detto incautamente l’assessore al Commercio Franco d’Alfonso, quello dei comitati per Pisapia, animatore dei gruppi arancioni, ex Fininvest, ex socialista, consigliere tra i più ascoltati dal sindaco, uscito indenne dalla polemica sull’isolamento della giunta («Certi consiglieri del centrosinistra sono inadeguati») e dall’ordinanza che vietava il gelato a mezzanotte. «Fate schifo», gli ha risposto giovedì Stefano Gabbana via Twitter, e subito si è capito che stava per cominciare un cannoneggiamento senza tregua perché fino a sentenza definitiva dovrebbe esserci la presunzione d’innocenza e perché un giudizio così tranchant tira sotto un marchio che di Milano è anche immagine nel mondo.
Ma perché, viene da chiedersi, il Comune si è andato a cercare un’altra grana con il mondo della moda, da tempo inquieto per l’atteggiamento evasivo della giunta sulla concessione degli spazi per le sfilate, in una fase di criticità per la concorrenza sempre più forte di Parigi che vuole riprendersi quel primato che Milano si è conquistata grazie alla creatività e alle intuizioni dei suoi stilisti? Non c’è una risposta, se non la constatazione che quello dell’assessore è semplicemente un autogol, un’uscita politicamente sbagliata, sulla quale si doveva subito mettere un cerotto per evitare il bombardamento in crescendo che adesso mette in mezzo Milano, città che non merita di essere trascinata in una umiliante polemica in cui agli insulti sulla Rete si aggiungono repliche piccate da una parte e dall’altra.
Nell’irrigidimento delle posizioni c’è qualcosa di esagerato che si dovrebbe riportare al più presto a quella normalità di cui la città ha bisogno, tanto più che si prepara alla sfida internazionale dell’Expo e a diventare vetrina di eccellenze. La moda è una di queste: non può diventare terreno di guerra. Ma si avverte un senso di diffidenza che blocca la giunta alle prese con il difficile restyling del centro e della sua Galleria, sulla quale il mondo della moda sta investendo, e tanto. A cominciare dal gruppo Prada, intenzionato a portare nel luogo storico delle origini nuovi spazi di vendita e dal gruppo Altagamma, che offre al Comune l’opportunità di rilevarne la gestione.
Oggi come ieri la moda chiede a Milano inventiva, fantasia, maggior dialogo tra pubblico e privato. Giuliano Pisapia è un garantista prudente che sembra tirato per i capelli in una questione non sua: alle sfilate è andato trascinato dalla moglie, non ha fatto come Gabriele Albertini che di Dolce e Gabbana indossò le ciabatte new look, ma poi dovette mettersi in mutande per Valentino, e in questa brutta polemica si trova tra due fuochi: deve mettere pace e deve difendere l’immagine della città. «La battuta del mio assessore è stata improvvida, ma non si può rispondere offendendo Milano», ha detto con un comunicato. Domenico Dolce e Stefano Gabbana si giustificano alla loro maniera, attaccando: per il modo in cui si sentono trattati dal Comune, per la velenosità delle parole di un rappresentante della città alla quale vogliono bene e dicono di essere grati, per non passare come colpevoli prima di una sentenza definitiva. «Siamo nati a Milano, questa città ci ha dato tanto ma anche noi le abbiamo dato tanto: prestigio internazionale, posti di lavoro, sviluppo economico». E visto che l’assessore d’Alfonso è andato giù duro a proposito di evasione fiscale, ricordano di essere stati tra i maggiori contribuenti, di dare lavoro a 250 persone e di continuare a investire a Milano, nonostante la crisi e i richiami di altri Paesi. Fino a dire: siamo stati noi a prendere il primo schiaffo. Lo hanno restituito: con gli interessi.
È Milano che soffre, adesso, senza mediatori e senza arbitri, che si sorprende, si stupisce, si sente ferita dagli eccessi, annusa il furore politico, si divide e non riesce a trovare un modo per fermare la rissa. «Milano scusa, stavo scherzando», cantava una volta Roberto Vecchioni invocando luci a San Siro. Ecco, servirebbero le stesse parole. Per spegnere la miccia (e anche le offese e le volgarità) prima che tutto questo diventi un inutile incendio.
gschiavi@rcs.it