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 2013  luglio 20 Sabato calendario

Caro direttore, tra le tante «frasi fatte» che, specie in questi tempi inquieti, si sentono continuamente ripetere ad ogni occasione, anche da personalità di alto prestigio, vi è quella secondo cui «le sentenze si rispettano, non si commentano»

Caro direttore, tra le tante «frasi fatte» che, specie in questi tempi inquieti, si sentono continuamente ripetere ad ogni occasione, anche da personalità di alto prestigio, vi è quella secondo cui «le sentenze si rispettano, non si commentano». Se è consentito interloquire a chi per oltre un mezzo secolo si è dedicato allo studio del processo, vengon subito a profilarsi alcuni rilievi. Il primo: che le sentenze, condivisibili o non che a prima vista possano apparire, siano comunque da rispettare è cosa semplicemente ovvia, come rispetto è sempre dovuto a ogni giudizio, valutazione, opinione altrui. Quel che diversifica le sentenze da ogni altra forma di giudizio, è che esse sono espressione di una alta, forse la più alta funzione di uno Stato-ordinamento, manifestazione della civiltà giuridica di ogni aggregazione sociale. Il vero problema è un altro: come va inteso, e in che cosa ha da concretarsi il doveroso rispetto. Sovente si sente affermare che le sentenze "si accettano"; e questo è vero, nel senso che esse ci sono, con la loro efficacia imperativa; senza però dimenticare che il fatto stesso che ogni ordinamento offre un più o men vasto sistema di mezzi di impugnazione sta a palesare che è scontata l’eventualità che la decisione resa possa esser censurabile da chi non vi si acquieti. Come dire che la doverosità dell’accettazione è legata al carattere definitivo che la pronuncia abbia acquisito; il che, naturalmente, nulla toglie al fatto che anche alle sentenze oggetto di impugnazione sia dovuto il necessario rispetto. Ma è la seconda delle riferite enunciazioni («le sentenze non si commentano») che merita maggiore attenzione. E la merita perché va decisamente respinta, come quella che senza nulla aggiungere al già rilevato doveroso rispetto appare (sia detto senza voler mancare di riguardo verso chicchessia) una sciocchezza. Che cosa si vorrebbe far intendere? Che il rispetto ha da manifestarsi solo con il silenzio? Ma le sentenze sono pubbliche, e per ciò stesso si possono, anzi verrebbe da dire si devono commentare, per esprimere plauso o perplessità, o anche critiche da chi ritenga di non poterle condividere; certo, sempre con toni pacati, ma anche con schiettezza, mentre è poi dalla bontà degli argomenti addotti che ne andrà considerata la valenza. E proprio dai commenti, di cui ormai da secoli sono piene in particolare le riviste giuridiche, ben può accadere il ripensamento di valutazioni e criteri di decisione che risultino non saper reggere alle osservazioni espresse. Vi si può aggiungere una ulteriore considerazione. «Le sentenze non si commentano»: nemmeno ai tempi di Giuseppe II poteva valere una tale enunciazione! Proprio a quei tempi risale invero la sempre più avvertita esigenza che il giudicante abbia a render pubblico conto «des causes qui l’y ont déterminé» (per usar parole di un philosophe di oltre due secoli addietro); e ciò per renderne partecipe l’intera collettività, così chiamata a essere altresì partecipe dell’amministrazione della giustizia, del «come» essa si svolge, anche esercitandone adeguata forma di controllo. Assurto a livello di principio costituzionale l’obbligo di esporre e render pubbliche le ragioni del decidere, parrebbe del tutto evidente non solo e non tanto che chiunque ha facoltà di esprimere i commenti che vuole, ma finanche che tali commenti posson dirsi in certo senso sollecitati, perché l’operato di chi è chiamato a giudicare ha da trovar riscontro, e sperabilmente conforto, nel comune sentire. E i commenti ben possono essere di varia natura: per lo più "tecnici", nell’apprezzamento del se e come la volontà di legge abbia trovato concretezza nelle singole vicende o anche nell’eventuale dissenso a fronte delle scelte operate; ma talora, fermo ovviamente il rispetto della legge, pur di diversa indole da chi comunque se ne assume la responsabilità. L’unico limite, è fin superfluo ripeterlo, è rappresentato dal "modo" onde il commento vien formulato: sempre e in ogni caso «colorato» dal rispetto dovuto alla nobile funzione che nelle decisioni rese trova espressione. Emerito di diritto processuale civile Università Cattolica di Milano