Alessandro Barbera, La Stampa 20/7/2013, 20 luglio 2013
Vendere gioielli, soprattutto se gli ultimi della famiglia, non è mai affar semplice. Ne sanno qualcosa i premier che negli ultimi vent’anni hanno dormito a Downing Street
Vendere gioielli, soprattutto se gli ultimi della famiglia, non è mai affar semplice. Ne sanno qualcosa i premier che negli ultimi vent’anni hanno dormito a Downing Street. Della privatizzazione di Royal Mail, l’ultimo baluardo dello Stato imprenditore d’Oltremanica, si è parlato inutilmente per vent’anni. Nemmeno la Thatcher - che pure riuscì a vendere British Petroleum e i binari delle ferrovie - arrivò a tanto. Ma quando è venuto il momento di decidere, il governo di David Cameron non si è fatto spaventare. Aveva promesso decisioni concrete per l’autunno di quest’anno, e così sarà. La settimana scorsa il ministro delle Attività produttive Cable si è presentato ai Comuni con il progetto di vendita del 49%, più la cessione a titolo gratuito del 10% ai 150mila dipendenti della società; frutterà fra i due e i tre miliardi di sterline, al cambio tre miliardi e mezzo di euro. Non molto per ridurre in maniera sensibile il debito pubblico inglese, molto - dicono a Downing Street in chiave strategica: «Poiché il settore è liberalizzato, dobbiamo mettere Royal Mail nelle condizioni di investire e competere». Al Tesoro e a Palazzo Chigi, dove la pratica privatizzazioni è aperta ormai da qualche settimana, vorrebbero in parte imitare la strada inglese: separare il servizio universale dall’attività bancaria - Bancoposta è una banca a tutti gli effetti - offrendo ai clienti più affezionati - i milioni di pensionati italiani - la possibilità di sottoscrivere una quota della società a un prezzo di favore. Non c’è invece il progetto di cedere azioni ai dipendenti: non è un caso se il leader della Cisl Bonanni (il cui sindacato tessera nove dipendenti su dieci delle Poste) ha reagito sdegnato: «Siamo del tutto contrari all’ipotesi di vendere le quote pubbliche di aziende nel mirino degli appetiti famelici e speculativi degli investitori stranieri». Se la priorità non è attirare capitali stranieri in Italia, il discorso non fa una grinza. Fu la strada scelta ai tempi di Telecom, quando pur di non cedere il controllo all’estero, si decise di vendere ad una cordata di soci nostrani i quali, più che di capitali freschi, caricarono la società di nuovo debito. «Evitiamo gli errori del passato», dice l’ex ministro Lanzillotta. La marcia indietro di Saccomanni, che a Bloomberg aveva parlato chiaramente della possibilità di accelerare la vendita di società e immobili, nasce dal timore di aver spinto troppo in là un tema che nella maggioranza può essere più esplosivo della maldestra espulsione di una signora kazaka. «Le grandi aziende pubbliche sono leve fondamentali per la politica industriale», dice il Pd Matteo Colaninno. «Agli attuali valori di mercato vendere non sarebbe nemmeno conveniente». Eppure nei piani del governo la questione è meno improvvisata di quanto si possa immaginare. Anzitutto la costituzione della società delle reti - la scatola pubblica della Cassa depositi e prestiti che ingloberà le reti di Snam, Terna, Ferrovie e Telecom - dovrebbe rendere più semplice mettere sul mercato aziende (è il caso di Trenitalia nei confronti di Italo) ancora proprietarie della rete in cui operano in condizioni di vantaggio indebito. Né c’è l’intenzione di cedere davvero le quote dei tre veri gioielli della Repubblica, Eni, Enel e Finmeccanica perché ritenuti - non da ieri - «strategici per gli interessi nazionali». La parola d’ordine è «collateralizzazione», un’operazione astrusa che possiamo riassumere così: il Tesoro «impacchetta» le sue quote di azioni delle società in un fondo o in una società di gestione del risparmio, la quale a sua volta emette obbligazioni garantite dalle azioni delle aziende pubbliche. Il ricavato della vendita delle obbligazioni andrebbe a riduzione del debito, lo Stato continuerebbe a incassare i lauti dividendi delle tre grandi società. Resta da capire se l’Europa accetterà un simile meccanismo, se i mercati lo prenderanno sul serio - alleggerendo l’onere che pesa sul nostro debito - e soprattutto se a conti fatti non si tramuterà nell’ennesimo e inutile tentativo di far digerire ad una maggioranza troppo divisa un compromesso in qualche modo coerente.