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 2013  luglio 19 Venerdì calendario

WILLIAM FAULKNER - L’ARTE DELLA NARRAZIONE


William Faulkner
L’arte della narrazione

William Faulkner nasce nel 1897 a New Albany, nel Mississippi, dove suo padre lavorava come capostazione della ferrovia costruita dal bisnonno dello scrittore, il colonnello William Falkner (senza la “u”), autore di The White Rose of Memphis. La famiglia si trasferì dopo poco a Oxford, a cinquantasei chilometri di distanza. Qui il giovane Faulkner, nonostante fosse già un lettore vorace, non riuscì a conseguire il diploma presso la scuola superiore della zona. Nel 1918 si arruolò come studente aviatore nella Royal Canadian Air Force. Trascorse poco più di un anno come studente speciale all’università statale. Ole Miss, e dopo lavorò come capo ufficio postale alla succursale dell’università, fino a quando non lo licenziarono perché leggeva sul posto di lavoro.
Grazie all’incoraggiamento di Sherwood Anderson, scrisse La paga del soldato (1926). Il suo primo libro a guadagnare un ampio successo di pubblico fu Santuario (1931), un romanzo sbalorditivo che sostiene di aver scritto per denaro dopo che i diritti per i precedenti libri – fra i quali Zanzare (1927), Sartoris (1929), L’urlo e il furore (1929), e Mentre morivo (1930) – non gli erano stati sufficienti a mantenere la famiglia.
Seguirono una serie di romanzi, la maggior parte dei quali legati a quella che oggi è conosciuta come la saga di Yoknapatawpha: Luce d’agosto (1932), Pilone (1935), Assalonne, assalonne! (1936), Gli Invitti (1938), Palme selvagge (1939), Il borgo (1940), e Scendi, Mosè (1941). Dopo la Seconda guerra mondiale le sue opere principali includono Non si fruga nella polvere (1948), Una favola (1954), e La città (1957). Per Collected Stories gli venne assegnato il National Book Award nel 1951, e lo stesso premio gli venne conferito nel 1955 per Una favola. Nel 1949 vince il Premio Nobel per la letteratura.
Nonostante la sua natura timida e riservata, Faulkner ha da poco cominciato a viaggiare in lungo e in largo, tenendo conferenze per conto dello United States Information Service.
La conversazione che segue ha avuto luogo a New York, all’inizio del 1956.


Jean Stein, 1956



Signor Faulkner, tempo fa lei ha dichiarato che non le piacciono le interviste.
Il motivo per cui non mi piacciono le interviste è che mi sembra di reagire con violenza alle domande personali. Se le domande riguardano il lavoro, allora cerco di rispondere. Quando invece riguardano me, magari sono anche disposto a rispondere, ma il giorno dopo, se mi facessero la stessa domanda, potrei dare una risposta diversa.
Che giudizio ha di se stesso come scrittore?
Se io non fossi esistito, qualcun altro avrebbe scritto quello che ho scritto io, quello che hanno scritto Hemingway e Dostoevskij e tutti gli altri. Ne è una prova l’esistenza di due o tre candidati alla paternità delle opere di Shakespeare. Ma quello che conta è l’Amleto, è il Sogno di una notte di mezza estate; non chi li ha scritti, ma il fatto che qualcuno li abbia scritti. L’artista non ha nessuna importanza. La sola cosa che conta è quello che lui crea, perché non c’è niente di nuovo da dire. Shakespeare, Balzac, Omero, hanno tutti raccontato le stesse cose, e se fossero vissuti mille o duemila anni in più, gli editori non avrebbero avuto bisogno di cercare nessun altro.
Ma anche se sembra non esserci più nulla da dire, l’individualità dello scrittore non è importante?
È molto importante, ma solo per lui. Gli altri dovrebbero essere già abbastanza impegnati dall’opera per preoccuparsi anche dell’individualità.
E i suoi contemporanei?
Nessuno è mai riuscito a essere all’altezza del suo sogno di perfezione, per questo il mio giudizio si basa sul nostro splendido fallimento nella creazione dell’impossibile. Sono convinto che se potessi scrivere di nuovo le mie opere riuscirei a migliorarle, e questo, per un artista, è in assoluto la situazione più positiva. Ecco perché l’artista non smette di lavorare, provare e riprovare; ogni volta crede che sarà quella buona, che ce la farà. È ovvio che non ce la farà, ed è per questo che la situazione è positiva. Se ce la facesse, se riuscisse davvero a portare l’opera all’altezza dell’immagine, del sogno, non gli resterebbe altro che tagliarsi la gola, buttarsi giù da quel pinnacolo di perfezione, verso il suicidio. Io sono un poeta fallito. Forse ogni romanziere attraversa un momento iniziale in cui vuole scrivere poesie, poi scopre che non è in grado di farlo, e allora prova con i racconti, che dopo la poesia sono il genere più impegnativo. E solo allora, dopo aver fallito anche in quello, comincia a scrivere romanzi.
Esiste una formula da seguire per diventare un buon romanziere?
Novantanove per cento talento... novantanove per cento disciplina... novantanove per cento lavoro. Non devi mai essere soddisfatto di quello che fai: potresti sempre farlo meglio. Devi sempre sognare e mirare più in alto di quanto sai di poter fare. Non devi preoccuparti solo di essere migliore dei tuoi contemporanei o dei tuoi predecessori. Cerca di essere migliore di te stesso. L’artista è una creatura guidata dai demoni. Non sa perché questi scelgano proprio lui, e di solito è troppo occupato per chiederselo. È completamente amorale, per cui non esiterà a rapinare, prendere in prestito, elemosinare o rubare da tutto e da tutti, pur di portare a termine la sua opera.
Vuol dire che lo scrittore dev’essere completamente spietato?
La sola responsabilità che ha uno scrittore è nei confronti della sua arte. Se è bravo, allora è completamente spietato. Ha un sogno, e questo lo angoscia così tanto che se ne deve assolutamente sbarazzare. E non avrà pace finché non lo farà. Tutto il resto passa in secondo piano: onore, orgoglio, decenza, sicurezza, felicità. Tutto, purché il libro venga scritto. Se uno scrittore deve rapinare sua madre, non esiterà a farlo: “Ode su un’urna greca” vale un numero infinito di vecchie signore.
Allora la mancanza di sicurezza, felicità, onore, potrebbe essere un fattore importante nella creatività di un artista?
No. Questi fattori sono importanti solo per la sua pace e il suo appagamento, e l’arte non ha niente a che vedere con la pace e l’appagamento.
E allora quale dovrebbe essere l’ambiente ideale per un artista?
L’arte non ha niente a che vedere nemmeno con l’ambiente; il posto in cui ci si trova non ha nessuna importanza. Se si riferisce a me, il miglior lavoro che mi sia mai stato offerto è stato quello di proprietario di un bordello. Secondo me, è il miglior ambiente di lavoro che uno scrittore possa desiderare. Gli dà una perfetta indipendenza economica; lo libera dalle ansie e dalla fame; gli dà un tetto sulla testa e assolutamente niente da fare tranne stilare qualche semplice resoconto e andare una volta al mese a pagare la polizia locale. Durante il giorno, che è il momento migliore per lavorare, il posto è tranquillo. Di sera c’è una discreta vita sociale – se gli va di partecipare – che non lo fa annoiare; gli dà una certa posizione sociale; non deve fare niente, perché la maîtresse si occupa dei registri; tutti gli inquilini sono donne e sono accondiscendenti nei suoi confronti e lo chiamano “signore”. I fabbricanti di liquori clandestini lo chiamano “signore”. E lui può chiamare per nome i poliziotti.
Quindi, l’unico ambiente di cui uno scrittore ha bisogno è un posto dove possa avere, a basso costo, pace, solitudine e piacere. Un ambiente sbagliato non farebbe altro che fargli salire la pressione e fargli passare la maggior parte del tempo in uno stato di frustrazione o rabbia. L’esperienza mi insegna che gli oggetti di cui ho bisogno per il mio lavoro sono carta, tabacco, cibo e un po’ di whisky.
Vuol dire bourbon?
Non sono così esigente. Tra uno scotch e niente, meglio lo scotch.
Ha parlato di indipendenza economica. Uno scrittore ne ha bisogno?
No, uno scrittore non ha bisogno di indipendenza economica. Tutto ciò che gli serve è una penna e un po’ di carta. Non ho mai sentito che nel campo della scrittura qualcosa di buono sia arrivato dall’aver accettato una donazione. Un bravo scrittore non chiede soldi a una fondazione. È troppo impegnato a scrivere. Se non è uno scrittore di prim’ordine, inganna se stesso dicendo di non aver avuto tempo o indipendenza economica. L’arte di qualità può venire fuori anche da ladri, distillatori clandestini o stallieri. La gente ha davvero paura di scoprire fino a che punto è in grado di sopportare privazioni e povertà. Hanno paura di scoprire quanto siano tenaci. Non c’è nulla che possa distruggere un bravo scrittore. L’unica cosa in grado di cambiare un bravo scrittore è la morte. Gli scrittori bravi non hanno tempo per preoccuparsi di avere successo o diventare ricchi. Il successo è femminile, ed è come una donna; se ti pieghi davanti a lei, ti scavalca. Per cui bisogna farle sempre vedere il dorso della mano. E allora, forse, sarà lei a strisciare.
Lavorare per il cinema può danneggiare la sua scrittura?
Niente può danneggiare la scrittura di un uomo, se è uno scrittore di prim’ordine. Se invece non lo è, non c’è molto che lo possa aiutare. In quel caso il problema non si pone, perché di sicuro si è già venduto l’anima per una piscina.
Uno scrittore scende a compromessi, quando scrive per il cinema?
Sempre, perché di per sé un film è una collaborazione, e ogni collaborazione è un compromesso. È il significato stesso della parola: si dà e si prende.
Con quale attore le piace maggiormente lavorare?
Quello con cui mi sono trovato meglio è Humphrey Bogart. Abbiamo lavorato insieme in Acque del Sud e nel Grande sonno.
Le piacerebbe fare un altro film?
Sì, mi piacerebbe farne uno su 1984 di George Orwell. Ho un’idea per il finale che proverebbe la tesi per cui mi batto da sempre: che l’uomo è indistruttibile grazie alla sua semplice voglia di libertà.
Quando lavora per il cinema, in che modo ottiene i risultati migliori?
La mia migliore opera cinematografica, secondo me, l’hanno creata gli attori e lo sceneggiatore gettando via il copione e inventandosi la scena, provando direttamente un attimo prima che accendessero la macchina da presa. Se non avessi preso sul serio il lavoro per il cinema, o avessi pensato di non essere in grado di prenderlo sul serio, con un atteggiamento di semplice onestà nei confronti dei film e anche di me stesso, non ci avrei nemmeno provato. Ma adesso so che non sarò mai un valido scrittore per il cinema; per me, quindi, quel tipo di lavoro non sarà mai così stimolante quanto il mio mezzo espressivo.
Ci racconta la leggendaria esperienza hollywoodiana in cui è stato coinvolto?
Ero quasi in scadenza di contratto con la Metro Goldwyn Mayer e mi preparavo a tornare a casa. Il regista con cui avevo lavorato disse: “Se vuoi lavorare ancora qui, fammelo sapere e io parlerò con la casa di produzione per un nuovo contratto”. Lo ringraziai e me ne tornai a casa. Circa sei mesi dopo telegrafai al mio amico regista e gli dissi che volevo un altro lavoro. Poco dopo ricevetti una lettera dal mio agente di Hollywood che includeva già il pagamento della prima settimana di lavoro. Ne fui sorpreso, perché mi sarei aspettato di ricevere innanzitutto un avviso o una chiamata ufficiale e un contratto dalla casa di produzione. Pensai tra me e me che il contratto era in ritardo e sarebbe arrivato con la posta successiva. Invece dopo una settimana ricevetti un’altra lettera dal mio agente, con il pagamento del mio secondo stipendio. Questa storia cominciò nel novembre del 1932 e andò avanti fino al maggio del 1933. Poi ricevetti un telegramma dalla casa di produzione. Diceva: “A William Faulkner, Oxford, Mississippi. Dove si trova? Metro Goldwyn Mayer”.
Allora anch’io scrissi un telegramma: “Alla Metro Goldwyn Mayer, Culver City, California. William Faulkner”.
La giovane telefonista disse: “E il messaggio, signor Faulkner?”. E io: “È questo”. E lei: “Il regolamento dice che non posso inviarlo senza un messaggio, lei deve dire qualcosa”. Così esaminammo i vari modelli che aveva e poi ne scelsi uno – non ricordo quale – tra quelli di “buon anniversario” già preparati. E lo spedii. L’atto successivo fu un interurbana della casa di produzione che mi diceva di prendere il primo aereo per New Orleans e di presentarmi dal regista Browning. Avrei potuto prendere un treno a Oxford ed essere a New Orleans dopo otto ore, ma feci come diceva la produzione e andai a Memphis, dove gli aerei partivano per New Orleans solo di tanto in tanto. Dopo tre giorni ne partì uno.
Arrivai all’albergo dove stava il signor Browning verso le sei di sera, e mi presentai da lui. C’era una festa in pieno svolgimento. Mi disse di farmi una bella dormita per essere pronto a cominciare presto, la mattina dopo. Gli chiesi della trama. Disse: “Oh, sì. Vai alla stanza numero tot, c’è lo sceneggiatore. Ti dirà di cosa parla”.
Andai nella stanza che mi aveva indicato. Lo sceneggiatore era seduto lì, da solo. Gli dissi chi ero e gli chiesi della storia. Disse: “Quando scriverai i dialoghi ti farò vedere la storia”. Tornai nella stanza di Browning e raccontai quello che era successo. “Torna là”, disse, “e digli questo e quest’altro: non preoccuparti, fatti una buona dormita così possiamo cominciare presto, domani mattina.”
Così il giorno dopo tutti noi, tranne lo sceneggiatore, partimmo con un’elegante lancia a noleggio in direzione di Grand Isle, a più di 150 chilometri da lì, dove dovevano girare il film, e arrivammo appena in tempo per pranzare e poi riuscire a percorrere i 150 chilometri di ritorno a New Orleans prima che facesse buio.
Andammo avanti così per tre settimane. Ogni tanto mi preoccupavo della storia, ma Browning diceva sempre: “Smettila di preoccuparti. Fatti una bella dormita così domani mattina possiamo cominciare presto”.
Una di quelle sere, al ritorno in albergo, appena entrai in camera squillò il telefono. Era Browning. Mi disse di andare subito in camera sua. Ci andai. Mi mostrò un telegramma. Diceva: “Faulkner è licenziato. Metro Goldwyn Mayer”. “Non preoccuparti”, disse Browning. “Chiamerò quel tal dei tali all’istante e non solo ti farò rimettere sul libro paga, ma ti farò anche mandare delle scuse scritte.” Bussarono alla porta. Era un fattorino con un altro telegramma. Questo qui diceva: “Browning è licenziato. Metro Goldwyn Mayer”. Così tornai a casa. Presumo che anche Browning andò via chissà dove. Immagino che quello sceneggiatore sia ancora seduto in una stanza da qualche parte, con l’assegno della sua paga settimanale stretto nella mano. Quel film non l’hanno mai finito. Ma costruirono un villaggio per la pesca dei gamberetti – una lunga piattaforma con i piloni nell’acqua che reggevano le baracche, una sorta di banchina. La produzione avrebbe potuto comprarne a dozzine per quaranta o cinquanta dollari l’una. Invece ne costruirono una in proprio, però falsa. Proprio così, una piattaforma con un’unica parete, di modo che quando aprivi la porta e la attraversavi, facevi un passo direttamente nell’oceano. Il giorno in cui cominciarono a costruirlo, un pescatore Cajun arrivò vogando nella sua piroga stretta e complessa, costruita con un tronco scavato. Restò lì tutto il giorno, sotto il sole che arrostiva, a guardare quegli strani tipi bianchi che costruivano quella strana copia di una piattaforma. Il giorno dopo tornò con la piroga e con tutta la sua famiglia, la moglie che dava da mangiare al bambino, l’altro figlio e la cognata, tutti a guardare per l’intera giornata, con il sole che arrostiva, quel bizzarro e incomprensibile lavoro. Due o tre anni dopo ero a New Orleans, e sentii dire che la gente Cajun arrivava ancora da lontano per vedere quell’imitazione di una piattaforma per la pesca dei gamberi che un mucchio di uomini bianchi aveva costruito in fretta e furia e poi aveva abbandonato.
Lei dice che uno scrittore deve scendere a compromessi quando lavora per il cinema. E per quanto riguarda la scrittura? Ha dei doveri nei confronti dei suoi lettori?
Il dovere di uno scrittore è di portare a termine la sua opera nel miglior modo possibile; dopo averlo fatto, può fare come gli pare con qualsiasi altro dovere gli sia rimasto. Per quanto riguarda me, sono troppo impegnato per occuparmi anche del pubblico. Non ho il tempo di chiedermi chi siano i miei lettori. Non mi interessa il parere di Mario Rossi sulla mia opera, né su quella di altri. Il mio lavoro ha uno standard qualitativo soddisfacente, cioè mi fa sentire come quando leggo La tentazione di Sant’Antonio o il Vecchio Testamento. Sto bene, quando leggo quelle opere. Così come sto bene quando guardo un uccello. Lo sa, se dovessi rinascere, mi piacerebbe essere una poiana. Nessuno odia una poiana, nessuno la invidia o la desidera o ne ha bisogno. E una poiana non ha mai fastidi né corre pericoli, e può mangiare di tutto.
Che tecnica usa per arrivare al suo standard qualitativo?
Se a uno scrittore interessa la tecnica, allora è meglio che vada a fare il chirurgo o il muratore. Non esiste una maniera automatica di scrivere, e non ci sono scorciatoie. Un giovane scrittore sarebbe uno sciocco a seguire una teoria. Che impari dai propri errori. Le persone imparano solo sbagliando. Un buon artista pensa che nessuno sia abbastanza bravo da dargli consigli. È di una vanità suprema. Per quanto ammiri gli scrittori del passato, lui vuole sconfiggerli.
Quindi lei nega la validità della tecnica?
Senza dubbio. A volte succede che la tecnica vada alla carica e prenda il comando dei sogni prima che lo scrittore stesso ci possa mettere le mani. È questo il grosso, e il lavoro finito diventa semplicemente una questione di mettere insieme i singoli mattoni, dal momento che lo scrittore con ogni probabilità conosce ogni singola parola dall’inizio alla fine ancor prima di averne scritta una. Così successe con Mentre morivo. Non fu affatto facile, ma nessun libro genuino lo è. L’aspetto più semplice fu che tutto il materiale era già a portata di mano. Mi ci vollero circa sei settimane, utilizzando il tempo libero che mi lasciava un lavoro manuale di dodici ore al giorno. Immaginai semplicemente un gruppo di persone e gli feci vivere le semplici catastrofi naturali dell’universo, cioè inondazioni e incendi, con un semplice disegno naturale che tracciava la direzione della loro evoluzione. Ma in realtà, quando non interviene la tecnica, scrivere diviene in un altro senso più facile. Perché a me capita sempre di arrivare a un punto del libro in cui i personaggi stessi insorgono, si impossessano del lavoro e lo finiscono – diciamo più o meno a pagina 275. Ovviamente non so cosa succederebbe se concludessi il libro a pagina 274. La qualità di un artista dev’essere l’obiettività nel giudicare il suo lavoro, oltre all’onestà e al coraggio di non ingannare se stessi. Dal momento che nessuna delle mie opere mi ha soddisfatto in pieno, sono costretto a giudicare il mio lavoro sulla base del testo che mi ha causato più pene e tormenti, come una madre che ama il figlio ladro o assassino più di quello che si è fatto prete.
Di che opera si tratta?
Dell’Urlo e il furore. L’ho scritto in cinque momenti diversi, cercando di raccontare la storia, di sbarazzarmi del sogno che ha continuato ad angosciarmi finché non l’ho scritto. È la tragedia di due donne smarrite: Caddy e sua figlia. Dilsey è uno dei miei personaggi preferiti, perché è temeraria, coraggiosa, generosa, garbata e onesta. È molto più coraggiosa, onesta e generosa di me.
Come nacque L’urlo e il furore?
Con un’immagine mentale. Allora non mi resi conto del suo valore simbolico. Era l’immagine di un paio di mutandoni infangati all’altezza del sedere, erano di una bambina che stava su un albero di pere, da dove riusciva a vedere attraverso la finestra la stanza in cui stavano facendo il funerale a sua madre, e lei riferiva ciò che vedeva al fratello che stava ai piedi dell’albero. Mentre spiegavo chi erano quei due, e cosa facevano lì e come si era infangata i mutandoni, mi resi conto che sarebbe stato impossibile mettere tutto in un racconto, e che avrei dovuto farne un libro. E poi mi resi conto del simbolismo delle mutande macchiate, e l’immagine venne rimpiazzata da quella di una ragazza senza padre né madre che scende da una grondaia per scappare dalla sola casa che aveva, dove non le avevano mai offerto amore, affetto o comprensione. Avevo già cominciato a raccontare la storia attraverso gli occhi del bambino idiota, perché sentivo che avrebbe avuto più effetto nel momento in cui veniva raccontata da qualcuno in grado di distinguere solo cos’era successo, ma non perché era successo. Ma capii che non c’ero riuscito. Allora provai a raccontarla di nuovo, la stessa storia attraverso gli occhi di un altro fratello. Ancora non c’eravamo. La raccontai per la terza volta attraverso gli occhi del terzo fratello. Ancora non c’eravamo. Provai a mettere insieme i pezzi e a riempire i vuoti inserendomi come narratore. Ma la storia non era ancora completa, e lo fu solo quindici anni dopo la pubblicazione del libro, quando in un’appendice a un altro libro misi su carta l’ultimo, faticoso tentativo di raccontare quella storia ed eliminarla così dalla mia mente, in modo da trovare finalmente pace. È il libro per il quale provo più tenerezza. Non potevo abbandonarlo, e non sono mai riuscito a renderlo come si deve, nonostante abbia tentato con impegno, e tenterei ancora, anche se probabilmente fallirei di nuovo.
Che emozioni suscita in lei Benjy?
La sola emozione che posso provare per Benjy è un senso di pena e pietà per tutto il genere umano. È impossibile provare qualcosa per Benjy, perché lui non prova niente. Personalmente, posso solo sentirmi in ansia per la sua credibilità in quanto personaggio creato da me. Era un prologo, come il becchino nei drammi elisabettiani. Svolge il suo compito e se ne va. Benjy è incapace di fare del bene o del male perché non sa cosa siano il bene e il male.
Benjy era in grado di provare amore?
Benjy era talmente poco razionale che non riusciva neanche a essere egoista. Era un animale. Riconosceva tenerezza e amore anche se non era in grado di dargli un nome, e fu la minaccia della tenerezza e dell’amore che lo fece urlare quando capì che Caddy era cambiata. Non l’aveva più; il suo essere idiota non gli faceva nemmeno capire che Caddy era scomparsa. Sapeva soltanto che qualcosa non andava, che c’era un vuoto che lo rattristava. E cercò di riempire quel vuoto. La sola cosa che aveva era una delle vecchie pantofole di Caddy. La pantofola era quella tenerezza e quell’amore a cui non sapeva dare un nome, ma sapeva che gli mancava. Benjy era sporco perché era scoordinato e perché la sporcizia non significava niente per lui. Non riusciva a distinguere tra pulito e sporco più di quanto distinguesse tra bene e male. La pantofola gli dava conforto anche se non riusciva più a ricordare a chi fosse appartenuta, così come non ricordava perché si era rattristato. Se Caddy fosse tornata, probabilmente non l’avrebbe riconosciuta.
Il narciso dato a Benjy ha qualche significato?
Gli fu dato per distrarre la sua attenzione. Era solo un fiore facile da trovare il 5 aprile. Non fu fatto di proposito.
Ci sono vantaggi artistici nel disporre un romanzo in forma di allegoria, come l’allegoria cristiana che lei usò in Una favola?
Gli stessi vantaggi di un muratore che costruisce angoli retti per costruire una casa quadrata. In Una favola l’allegoria cristiana era l’allegoria giusta da usare in quel tipo di storia, così come due angoli sfalsati sono quello che ci vuole per costruire una casa rettangolare.
Questo vuol dire che un artista può usare la cristianità come un semplice strumento in più, così come un muratore prenderebbe in prestito un martello?
Al muratore di cui stiamo parlando non manca mai il martello. Nessuno è privo di cristianità, ammesso che concordiamo sul significato di questa parola. È il codice di comportamento individuale di ogni individuo, grazie al quale diventa un essere umano migliore di quello che potrebbe essere se seguisse solo la sua natura. Qualunque simbolo la croce, la mezzaluna, o altro – serve a ricordare all’uomo il suo dovere all’interno della razza umana. Le sue diverse allegorie sono i progetti con i quali lui si misura e impara a capire chi è. La cristianità non può insegnare all’uomo come essere buono allo stesso modo in cui un libro di scuola gli insegna la matematica. Ma gli insegna a scoprire se stesso, a sviluppare per se stesso un codice e una regola all’interno delle sue capacità e aspirazioni, dandogli un ineguagliabile esempio di sofferenza e sacrificio e la promessa di una speranza. Gli scrittori hanno sempre attinto, e sempre attingeranno, alle allegorie della consapevolezza morale, perché sono allegorie senza pari – i tre uomini di Moby Dick, che rappresentano la trinità della coscienza: non sapere niente, sapere senza preoccuparsi, sapere e preoccuparsi. La stessa trinità viene rappresentata in Una favola dal giovane ufficiale pilota ebreo, che dice: “È terribile. Mi rifiuto di accettarlo, anche se questo significa rifiutare la vita”; dal vecchio generale di commissariato francese, che dice:
“È terribile, ma noi siamo in grado di piangere e sopportare”; e dalla staffetta del battaglione inglese, che dice : “È terribile. Dovrò fare qualcosa”.
In Palme selvagge, i due diversi temi sono uniti nello stesso libro a scopo simbolico? È una sorta di contrappunto estetico, come hanno dichiarato alcuni critici, o è un fatto puramente casuale?
No, no. All’inizio si trattava di una sola storia: quella di Charlotte Rittenmeyer e Harry Wilbourne, che sacrificarono ogni cosa per amore, e poi alla fine lo persero. Non sapevo che sarebbero diventate due storie separate, se non dopo aver cominciato a scrivere. Quando raggiunsi la fine di quella che oggi è la prima parte di Palme selvagge, improvvisamente mi resi conto che mancava qualcosa, che c’era bisogno di enfasi, di qualcosa che la sostenesse come in musica fa il contrappunto. Così scrissi il racconto “Il vecchio”, fino a che “Palme selvagge” tornò a un livello più alto. Poi interruppi “Il vecchio” nel punto che oggi corrisponde alla sua prima parte, e ripresi “Palme selvagge” fino a che cominciò di nuovo a perdere interesse. Poi la risollevai riprendendo l’altra parte, che è la storia di un uomo che ha trovato l’amore ma passa il resto del libro a evitarlo, fino al punto di tornare volutamente in prigione, pur di sentirsi al sicuro. Le storie sono due solo per caso, o forse per necessità. Ma la storia è quella di Charlotte e Wilbourne.
Quanto della sua opera è basato su esperienze personali?
Non saprei. Non ho mai fatto un calcolo. Perché “quanto” non è importante. Uno scrittore ha bisogno di tre cose: esperienza, osservazione e immaginazione, due delle quali ma a volte anche una sola – possono sopperire alla mancanza delle altre. Per quanto mi riguarda, di solito una storia comincia con un’idea singola o con un ricordo o un’immagine mentale. Scrivere una storia è solo una questione di arrivare fino a quel momento, di spiegare perché è successo o che cosa ne è venuto fuori in seguito. Uno scrittore tenta di creare personaggi credibili in situazioni credibili e toccanti, e nel modo più coinvolgente possibile. Ovviamente deve usare come strumento l’ambiente che conosce. Credo che la musica sia il mezzo più facile con cui esprimersi, perché è stata la prima ad apparire nell’esperienza e nella storia dell’uomo. Ma poiché le parole sono il mio talento, io devo cercare di esprimere goffamente con le parole quello che la musica esprimerebbe in modo migliore. Cioè, la musica si esprimerebbe meglio e con maggiore semplicità, ma io preferisco usare le parole, così come preferisco leggere ad ascoltare. Preferisco il silenzio al suono, e l’immagine prodotta dalle parole arriva in silenzio. Cioè, il fragore e la musica della prosa arrivano nel silenzio.
Ha nominato l’esperienza, l’osservazione e l’immaginazione come aspetti importanti per uno scrittore. Includerebbe anche l’ispirazione?
Non so niente dell’ispirazione, perché non so in che cosa realmente consista: ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai vista.
Di lei, come scrittore, si dice che sia ossessionato dalla violenza.
È come dire che un muratore è ossessionato dal martello. La violenza è semplicemente uno degli strumenti del muratore. Lo scrittore, così come il muratore, non può costruire con un solo strumento.
Ci può raccontare di come cominciò a scrivere?
Vivevo a New Orleans, facevo ogni genere di lavoro pur di guadagnare un po’ di soldi di tanto in tanto. Conobbi Sherwood Anderson. Di pomeriggio passeggiavamo per la città e parlavamo con la gente. La sera ci incontravamo di nuovo e ci sedevamo davanti a un paio di bottiglie mentre lui parlava e io ascoltavo. Di mattina non lo vedevo mai. Se ne stava chiuso a casa, a lavorare. Il giorno dopo facevamo di nuovo le stesse cose. Decisi che se quella era la vita di uno scrittore, allora la cosa migliore per me era diventare uno scrittore. Così presi a scrivere il mio primo libro. Fin dall’inizio trovai divertente scrivere. Mi dimenticai addirittura che non mi ero visto con il signor Anderson per tre settimane, fino a che me lo ritrovai alla porta: era la prima volta che mi veniva a trovare. Disse: “Qualcosa non va? Sei arrabbiato con me?”. Gli dissi che stavo scrivendo un libro. Disse: “Dio mio”, e se ne andò. Quando finii il libro – La paga dei soldati – incontrai la signora Anderson per strada. Mi chiese come procedeva il libro, dissi che l’avevo terminato. E lei: “Sherwood dice che vuole fare un patto con te. Se non sarà costretto a leggere il tuo manoscritto, dirà al suo editore di accettarlo”. “Affare fatto!”, dissi, ed è così che diventai uno scrittore.
Che lavori faceva per guadagnare “un po’ di soldi di tanto in tanto”?
Quello che capitava. Sapevo fare un po’ di tutto – guidare barche, dipingere case, pilotare aeroplani. Non avevo mai bisogno di molto, perché allora la vita costava poco a New Orleans, e tutto quello che cercavo era un posto per dormire, qualcosa da mangiare, un po’ di tabacco e di whisky. C’erano molte cose che potevo fare per due o tre giorni di seguito, guadagnando denaro a sufficienza per campare fino alla fine del mese. Di temperamento sono un vagabondo, un barbone. Non desidero così tanto il denaro al punto di impegnarmi per guadagnarlo. Secondo me è un peccato che al mondo ci sia così tanto lavoro. Una delle cose più tristi è che la sola cosa che un uomo può fare per otto ore al giorno, giorno dopo giorno, è lavorare. Non puoi mangiare otto ore al giorno, né bere otto ore al giorno, né fare l’amore – l’unica cosa che puoi fare per otto ore al giorno è lavorare. Che è poi il motivo per cui l’uomo rende se stesso e gli altri così miseri e infelici.
Lei deve sentirsi in debito nei confronti di Sherwood Anderson, ma che opinione ha di lui come scrittore?
È stato il padre della mia generazione di scrittori americani e della tradizione di scrittura americana che porteranno avanti i nostri successori. Non ha mai ottenuto la stima che merita. Dreiser è il suo fratello maggiore, e Mark Twain è il padre di entrambi.
Che ne pensa degli scrittori europei di quel periodo?
I due grandi uomini del mio tempo erano Mann e Joyce. Bisogna avvicinarsi all’Ulisse di Joyce come un prete battista analfabeta si avvicina al Vecchio Testamento: con la fede.
Come ha acquisito le sue conoscenze sulla Bibbia?
Il mio bisnonno era un uomo gentile e garbato, anche nei confronti di noi bambini. Voglio dire, nonostante fosse scozzese, non era (nei nostri confronti) né particolarmente pio né severo: era semplicemente un uomo dai principi inflessibili. Uno di questi era che tutti, bambini e adulti, dovessimo tenere pronto un verso della Bibbia a mo’ di scioglilingua quando la mattina ci riunivamo a tavola per la colazione; se non avevi il verso bell’e pronto, non ti veniva data la colazione; ti veniva permesso solo di lasciare la stanza e di tornare quando te n’eri imparato uno (c’era una zia nubile che in quella situazione faceva un po’ da sergente maggiore, si ritirava con il colpevole e gli dava una bella rinfrescata che, la volta dopo, gli avrebbe permesso di superare l’ostacolo).
Doveva essere un verso autentico ed esatto. Fino a quando eravamo bambini poteva essere sempre lo stesso, se lo dicevi veramente bene, mattina dopo mattina; fino a quando non diventavi un po’ più grande, adulto, e un mattino (ormai eravamo piuttosto sciolti, galoppavamo senza neanche sentire quello che dicevamo per cinque o dieci minuti, tra il prosciutto e la carne e il pollo fritto e la polenta e due o tre tipi di pane caldo) improvvisamente ti ritrovavi i suoi occhi addosso – azzurrissimi, molto gentili e garbati, e neanche in quel momento severi o inflessibili; e il mattino dopo ti dava un nuovo verso della Bibbia. In un certo senso, in quel modo scoprivi che la tua infanzia era terminata; eri cresciuto e avevi fatto il tuo ingresso nel mondo.
Qualcuno dice di non riuscire a capire le sue opere, anche dopo averle lette due o tre volte. Che approccio potrebbe suggerirgli?
Leggerle una quarta volta.
Legge i suoi contemporanei?
No, i libri che leggo sono quelli che amavo quand’ero ragazzo e ai quali ritorno come fossero dei vecchi amici: il Vecchio Testamento, Dickens, Conrad, Cervantes – il Don Chisciotte. Lo leggo ogni anno, come fa certa gente con la Bibbia. Flaubert, Balzac – ha creato un suo mondo integro, un flusso sanguigno che scorre per venti libri – Dostoevskij, Tolstoj, Shakespeare. Ogni tanto leggo Melville e, tra i poeti, Marlowe, Campion, Jonson, Herrick, Donne, Keats e Shelley. Leggo ancora Housman. Questi libri li ho letti talmente spesso che non sempre comincio a pagina uno e vado fino alla fine. Leggo solo una scena, o il passo che riguarda un personaggio, come se incontrassi un amico e ci parlassi per pochi minuti.
E Freud?
Quando vivevo a New Orleans, tutti parlavano di Freud, ma io non l’ho mai letto. Neanche Shakespeare l’ha fatto. E dubito anche che Melville l’abbia fatto, e di certo non l’ha fatto Moby Dick.
Ha mai letto romanzi gialli?
Leggo Simenon perché mi ricorda qualcosa di Čechov.
E i suoi personaggi preferiti?
I miei personaggi preferiti sono Sarah Gamp – una donna crudele, spietata, un’ubriacona, opportunista, infida, quasi tutto il suo personaggio era cattivo, ma per lo meno era un personaggio; la signora Harris, Falstaff, il principe Hal, Don Chisciotte, e ovviamente Sancho. Ammiro sempre Lady Macbeth. E Bottom, Ofelia, Mercuzio – sia lui che la signora Gamp hanno tenuto testa alla vita, non hanno mai chiesto favori, non si sono mai lagnati. Huck Finn, certamente, e Jim. Tom Sawyer non mi è mai piaciuto molto – un ladruncolo schifoso. E poi mi piace Sut Lovingood, da un libro scritto da George Harris intorno al 1840 o ’50 sulle montagne del Tennessee. Non aveva illusioni, faceva del suo meglio; qualche volta si comportava da vigliacco, lo sapeva e non se ne vergognava; non imputava le sue sfortune a nessuno e non malediva Dio per questo.
Cosa pensa del futuro del romanzo?
Immagino che fino a quando le persone continueranno a leggere romanzi, gli scrittori continueranno a scriverli, o viceversa; ovviamente a meno che le riviste illustrate e i fumetti non atrofizzino definitivamente la capacità di leggere della gente, e la letteratura non sia davvero sulla strada del ritorno verso la scrittura per immagini dei tempi dell’uomo di Neanderthal.
E cosa pensa del compito dei critici?
L’artista non ha tempo di ascoltare i critici. Quelli che vogliono diventare scrittori leggono le recensioni, quelli che vogliono scrivere non hanno tempo di leggere le recensioni. Anche il critico cerca di dire: “C’ero anch’io”. Non si rivolge davvero all’artista. L’artista è un tantino superiore al critico, perché l’artista scrive qualcosa che commuoverà il critico. Il critico scrive qualcosa che potrà commuovere chiunque, ma non l’artista.
Quindi lei non ha mai sentito il bisogno di discutere le sue opere con qualcuno?
No, sono già troppo impegnato a scriverle. È qualcosa che deve piacermi, e se è così non ho bisogno di parlarne. Se non mi piace, parlarne non aiuterà a migliorarle, perché l’unica cosa da fare per migliorarle è lavorarci sopra un po’ di più. Non sono un letterato, ma solo uno scrittore. Non provo nessun piacere a parlare di lavoro.
I critici affermano che le parentele sono un aspetto centrale dei suoi romanzi.
È solo un’opinione e, come ho detto prima, io non leggo quello che dicono i critici. Dubito che un uomo che sta tentando di scrivere di alcune persone sia interessato più ai rapporti di parentela che alla forma del loro naso, a meno che non siano necessari a mandare avanti la storia. Se lo scrittore si concentra su quello di cui davvero ha bisogno, cioè la verità e il cuore dell’uomo, non gli rimarrà molto tempo per idee e realtà come la forma del naso o le parentele, anche perché secondo me idee e realtà non hanno molto in comune con la verità.
I critici suggeriscono anche che i suoi personaggi non scelgono mai in piena coscienza tra il bene e il male.
La vita non si interessa del bene e del male. Don Chisciotte era sempre impegnato a scegliere tra il bene e il male, ma lo faceva nella sua dimensione di sogno. Era folle. Ritornava alla realtà solo quando era talmente impegnato a tenere testa alle persone che non gli restava tempo per distinguere tra il bene e il male. Poiché le persone esistono solo nella vita, devono dedicare il loro tempo semplicemente a essere vive. La vita è movimento, e il movimento è legato a ciò che fa muovere l’uomo – cioè l’ambizione, il potere, il piacere. L’uomo deve prendere con la forza il tempo da dedicare alla moralità, e quel tempo lo prende dal movimento di cui è parte. È costretto, prima o poi, a scegliere tra il bene e il male, perché è la coscienza morale che glielo richiede, affinché possa convivere con se stesso il giorno dopo. La sua coscienza morale è la maledizione che è costretto ad accettare dagli dei per poter ottenere in cambio il diritto a sognare.
Potrebbe spiegare meglio cosa intende per movimento, quando è riferito a un artista?
L’obiettivo di ogni artista è di arrestare il movimento, cioè la vita, con mezzi artificiali, e tenerlo fermo di modo che un centinaio di anni più tardi, quando un estraneo gli rivolgerà lo sguardo, tutto si muoverà nuovamente, perché è vita. E dal momento che l’uomo è un essere mortale, per lui la sola possibile immortalità è lasciare ai posteri qualcosa che sia eterno perché in continuo movimento. È questo il modo con cui l’artista scarabocchia “C’ero anch’io” sul muro dell’oblio finale e irrevocabile attraverso il quale un giorno o l’altro dovrà passare.
Malcolm Cowley ha detto che i suoi personaggi hanno un senso di sottomissione al destino.
Questo lo dice lui. Io direi che qualcuno ce l’ha e qualcun altro no, come i personaggi di tutti gli altri. Direi che Lena Grove in Luce d’agosto è riuscita a tenere testa al suo destino piuttosto bene. Per lei non aveva davvero molta importanza se l’uomo del suo destino fosse Lucas Burch oppure no. Il suo destino era di avere un marito e dei figli, lei questo lo sapeva, per cui lo affrontò e lo visse senza chiedere aiuto a nessuno. È lei la guida della sua anima. Uno dei discorsi più calmi e lucidi che io abbia mai sentito è quello che rivolse a Byron Bunch, proprio nel momento in cui respingeva il suo disperato tentativo di violenza: “Non ti vergogni? Potresti aver svegliato il bambino”. Mai, neanche per un istante, era confusa, spaventata, allarmata. Non sapeva neanche di non aver bisogno di compassione. Il suo ultimo discorso, per esempio: “Non viaggio da neanche un mese, e già sono nel Tennessee. Mamma mia, quanto può girare un corpo”.
La famiglia Bundren di Mentre morivo è riuscita a tenere testa al suo destino. Il padre, che aveva perso la moglie, aveva naturalmente bisogno di trovarne un’altra, e lo fece. In un colpo solo non soltanto rimpiazzò la cuoca di famiglia, ma acquistò anche un grammofono per regalare un po’ di sollievo a tutti, all’ora del riposo. La figlia incinta in quel caso non riuscì a recuperare la sua situazione, ma non si scoraggiò. Si propose di tentare di nuovo, e anche se tutti, nessuno escluso, fallirono, in fondo si trattò solo di un altro bambino.
E Cowley dice che per lei è difficile creare personaggi di età tra i venti e i quarant’anni ben disposti verso il prossimo.
Le persone tra i venti e i quarant’anni non sono ben disposte. Un bambino può esserlo, ma non riesce ancora a capirlo. Lo capisce solo quando non lo può più essere – dopo i quarant’anni. Tra i venti e i quarant’anni la voglia di fare del bambino diventa più forte, più pericolosa, ma senza avere ancora acquisito la capacità di comprensione. Poiché la sua capacità di fare viene costretta nei canali del male dall’ambiente e dalle pressioni, l’uomo usa la forza prima di usare la morale. L’angoscia che c’è nel mondo la provocano le persone tra i venti e i quarant’anni. Le persone che dalle mie parti hanno provocato tutta quella tensione interrazziale i – Milam e i Bryant (nell’omicidio di Emmett Till), e le bande di neri che hanno rapito una donna bianca e l’hanno stuprata per vendetta, gli Hitler, i Napoleone, i Lenin – tutte queste persone sono simboli di sofferenza e angoscia umana, e hanno tutte tra i venti e i quarant’anni.
Al tempo dell’omicidio di Emmett Till lei consegnò una dichiarazione ai giornali. Oggi ha qualcosa da aggiungere?
No, posso solo ripetere quello che dissi allora: che se noi americani dobbiamo sopravvivere, è perché abbiamo scelto, deciso e difeso di essere innanzitutto americani; di presentare al mondo un solo fronte omogeneo e indistruttibile, fatto di americani bianchi, ma anche neri, rossi, azzurri o verdi. Forse lo scopo di quel tragico e spiacevole errore, commesso nel mio Mississippi da due adulti bianchi nei confronti di uno sfortunato bambino nero, è quello di provare a noi stessi se meritiamo o meno di sopravvivere. Perché se in America, nella nostra disperata cultura, abbiamo raggiunto il punto in cui dobbiamo assassinare dei bambini, non importa per quale motivo o di che colore essi siano, allora non meritiamo di sopravvivere, e probabilmente non riusciremo a farlo.
Che cosa le è successo tra La paga dei soldati e Sartoris – che cosa l’ha spinta, cioè, a iniziare la saga di Yoknapatawpha?
Con La paga dei soldati avevo scoperto che scrivere era divertente. Ma in seguito scoprii che non solo ogni libro doveva avere un progetto, ma che anche tutta la produzione o l’opera omnia di uno scrittore doveva avere un progetto. Con La paga dei soldati e Zanzare avevo scritto per il gusto di scrivere, perché era divertente. A partire da Sartoris scoprii che il piccolo francobollo della mia terra natia era una cosa di cui valeva la pena scrivere, e che non mi sarebbe bastata la vita a esaurirla, e che sublimando il reale nell’apocrifo avrei avuto la totale libertà di usare fino al punto più alto qualsiasi talento in mio possesso. Questo portò alla luce una miniera d’oro di persone diverse tra loro, così da solo creai un universo. Posso far muovere queste persone come se fossi Dio, non solo nello spazio ma anche nel tempo. Il fatto che io abbia mosso con successo i miei personaggi nel tempo, almeno a mio giudizio, prova la mia teoria che il tempo è una condizione fluida che non ha esistenza tranne che nelle apparizioni momentanee degli individui. Era non esiste – c’è solo è. Se era esistesse, non esisterebbero pena o dispiacere. Mi piace pensare al mondo che ho creato come a una sorta di perno dell’universo; è piccolo, quel perno, ma se lo portassero via l’universo stesso crollerebbe. Il mio ultimo libro sarà il Libro del Giorno del Giudizio, il Libro d’Oro, della Contea di Yoknapatawpha. Poi romperò la penna, e sarò costretto a fermarmi.

Numero 12, 1956