Marco Consoli, Focus 19/7/2013, 19 luglio 2013
QUELLA FAME SPAZIALE
Yuri Gagarin, il primo uomo ad andare nello spazio nel 1961, aveva a bordo un pasto molto magro: tre tubetti da 160 grammi ciascuno, contenenti carne e cioccolato ridotti in crema. La sua missione in orbita però durava meno di due ore e il cibo era l’ultimo dei suoi pensieri. Cinquant’anni e molte missioni dopo, gli scienziati si preparano a una sfida alimentare di tutt’altra portata: se l’obiettivo è inviare il primo uomo su Marte, è fondamentale ripensare tutta la nutrizione nello spazio.
MENU SPAZIALE. «Le soluzioni attuali non permettono di mantenere il cibo per una missione che potrebbe durare 5 anni» spiega Grace Douglas, responsabile alla Nasa del Progetto per le tecnologie avanzate sul cibo che da Houston cura le tavolate spaziali, ma potrebbe avere molte ricadute sulla Terra. «Il problema non è soltanto quello della stabilità: i valori nutritivi iniziano a degradarsi dopo 18 mesi, 2 anni al massimo. Poi c’è la questione della accettabilità, perché anche il cibo in scatola normale può durare qualche anno, ma una volta aperto non ha più un buon sapore». Dai tempi di Gagarin, la ricerca in questo campo ha fatto enormi passi avanti. I tubetti con le pietanze in crema (utilizzati fino a metà anni ‘60) insieme con i cibi ridotti in cubetti secchi, sono diventati un ricordo. «Già nelle missioni Apollo» spiega Douglas «si usavano cibi liofilizzati, più stabili e sicuri dal punto di vista microbiologico perché, senza umidità, i microrganismi non potevano crescere. I pasti venivano reidratati al momento di consumarli nello spazio. Infine si passò a prodotti termostabilizzati, cioè scaldati prima di essere impacchettati, per eliminare agenti patogeni, microrganismi ed enzimi. Sono utilizzati ancora oggi sulla Stazione spaziale internazionale (Iss), assieme a pochi tipi di carne sterilizzata con radiazioni ionizzanti e bevande pronte o in polvere». Con l’aumentare della durata delle missioni, fino alla media attuale di 6 mesi di permanenza a bordo della Iss, gli astronauti hanno manifestato bisogni profondamente umani. Uno tra tutti: variare la dieta.
LA GIOIA DEL PALATO. «Noi forniamo un menu di circa 200 alimenti diversi, mentre i russi ne hanno soltanto 100» spiega Douglas. «Spesso scambiano il cibo con i nostri astronauti per provare qualcosa di nuovo». Tutti ricevono la stessa valigetta, che contiene in porzioni singole un menu standard, basato su un ciclo di 8 giorni, ma ciascuno ha diritto ad alcuni contenitori "bonus", che contengono cibi a scelta: si tratta anche di prodotti in regolare commercio, come tavolette di cioccolato, burro di arachidi, alimenti in scatola, in lattina o condimenti, che vengono testati e approvati nei laboratori delle agenzie spaziali. Sono inclusi anche (pochi) alimenti freschi o allo stato naturale, come il Parmigiano Reggiano portato per la prima volta dagli italiani Umberto Guidoni e Maurizio Cheli nel 1996 e poi entrato nella dieta dei cosmonauti russi. O le lasagne preparate ad hoc per Luca Parmitano, oggi in missione con l’Esa. Sono piatti speciali che hanno un valore soprattutto come supporto psicologico. Il divieto assoluto riguarda invece gli alimenti altamente friabili: fluttuando per l’assenza di gravita, le briciole possono interferire con gli strumenti scientifici e finire nelle vie respiratorie dell’equipaggio.
CONSERVANTI DEL FUTURO. Una cosa che nella vita di tutti i giorni è banale, come preparare un pasto e consumarlo, nello spazio può diventare uno spartiacque per le missioni future. Il cibo deve essere già pronto, perché in un’astronave non si può cucinare. Il tempo a disposizione è poco, i pasti devono essere preparati velocemente, reidratando gli alimenti con acqua calda o a temperatura ambiente, oppure scaldandoli per 15-20 minuti con una valigetta scaldavivande a conduzione termica. La refrigerazione a bordo di una navicella non è possibile e quindi la conservazione avviene alla temperatura operativa di 22 °C. Ecco perché c’è molto da fare prima di spedire qualcuno su Marte. Sono pochi i cibi in grado di resistere a lungo in queste condizioni: negli esperimenti solo 7 su 65 prodotti termostabilizzati hanno superato il test. Sono a base di pollo, salmone, tonno o maiale. Ma c’è poco da stare allegri. Una volta aperti hanno un sapore pessimo e possono perdere dal 40% al 100% dei nutrienti. La Nasa sta studiando nuovi trattamenti: «Anzitutto» racconta la scienziata «l’uso di microonde per la sterilizzazione a 129 °C per 10 minuti: con una temperatura più alta ma per minore tempo, il processo mantiene i principi nutritivi più a lungo. L’altra tecnica utilizza l’alta pressione per inibire i batteri». Già a 4.100 atmosfere la maggior parte viene stroncata. Alla Nasa trattano i cibi a quasi 6.000 atmosfere.
RIFIUTI. Il confezionamento è un altro problema. Si sperimentano tecnologie di impacchettamento che possano proteggere meglio il cibo da luce, umidità e ossigeno evitandone il deterioramento, che risolvano problemi relativi al peso e al volume occupato a bordo (un costo, in termini di energia e spazio), e semplifichino lo smaltimento dei rifiuti. Se l’introduzione di pacchetti con le pieghe laterali simili a quelli usati per il caffè ha permesso di ridurre la massa del 66%, sui materiali è necessario lavorare ancora: i fogli di alluminio rendono difficile l’incenerimento completo. Oggi i rifiuti della Iss sono caricati sulla navetta russa Progress e disintegrati in atmosfera, ma la prospettiva di viaggi lunghi, senza il servizio di smaltimento, richiede un incenerimento totale.
«L’altra grande branca della nostra ricerca» conclude Douglas «riguarda la possibilità di coltivare piante e nutrienti da elaborare per ottenere cibo. Non è possibile a bordo delle astronavi, ma ci concentriamo sulla eventualità di farlo una volta stabiliti sulla superficie di un pianeta. I benefici sono non solo nutritivi, perché si possono mangiare alimenti freschi, ma anche psicologici, perché coltivare e cucinare riportano a un ambiente con cui si ha maggiore familiarità». Se l’uomo in futuro colonizzerà un altro pianeta, lo dovrà anche a un pasto che gli ricorderà da dove è venuto.
Marco Consoli