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 2013  luglio 19 Venerdì calendario

RE DEL BRIVIDO MA CON UN CUORE D’ORO: PIANGE SE MUORE UN SERPENTE

Ancora gli dispiace di averlo ucciso, con un colpo di pistola alla testa.
Jeffery Deaver, il re del brivido, confessa di avere esitato un istante prima di premere il grilletto. «Ma era davvero pericoloso», invoca la legittima difesa. «Ed è stata l’unica volta in vita mia», assicura. Vorrebbe forse aggiungere che non lo rifarebbe e che ha cercato comunque di risparmiargli sofferenze inutili, con una morte quasi istantanea. Poi però gli secca smascherare troppo quel suo cuore tenero: «Era pur sempre un serpente, come ce ne sono molti qui, nella zona della Virginia in cui vivo. Un serpente velenoso. Avrebbe potuto mordere un bambino o un cane. Ho dovuto farlo: sì, gli ho sparato».
Sorprendente Deaver. Capace di riempire, come minimo, 600 pagine all’anno di sangue e perfidie, lame e catene, esecuzioni e torture, stalker e serial killer; di ingigantire angosce e suspense, di affettare carni e tensioni; di immaginare, tra molte perversioni e varie crudeltà, perfino un Collezionista di ossa. E, nello stesso tempo, capace di commuoversi, in segreto, per l’infelice sorte di un rettile, fosse pure un crotalo, o altre creature: «Soltanto quelle innocenti e indifese», precisa. «Mai, assolutamente mai, nei miei romanzi sarà fatto del male a un bambino o a un animale».

Basta un accenno. Le donne, beh le donne sono una categoria a parte, e non del tutto disarmata o disarmante: eppoi come farebbe un giallista americano a vendere 30 milioni di copie, in 150 Paesi e più di 25 idiomi, senza iniettare un po’ di sesso e violenza nei suoi best seller? «Ho solamente accennato a qualche stupro nei miei primi libri, senza indugiare in dettagli scabrosi», si difende Deaver, «Non penso che servano i particolari raccapriccianti. Non generano suspense ma disgusto nel lettore. Quando scrivo non mostro la brutalità, lascio che si intuisca».
Non che il sangue gli faccia impressione: «Non ho mai assistito a un intervento chirurgico perché non si può entrare in una sala operatoria a curiosare, ma ho visto un’autopsia e deciso che non vale la pena di raccontarne: sono scene ripetitive. E in ogni caso ho una regola ferrea: mai inserire informazioni che potrebbero essere usate o messe in pratica».
Per esempio? «Per esempio io so come si fabbrica una bomba o un gas tossico. Perché mi documento direttamente e dettagliatamente su tutto quello di cui scrivo. Sono istruzioni che certamente chiunque può trovare anche in internet, se vuole. Ma nessuno le apprenderà da me. Non voglio dare cattive idee né cattivi esempi, anche perché so di avere molti teenager tra i miei lettori».
Ecco, dunque, saltare fuori lo scrupoloso uomo di legge. L’avvocato che Jeffery Deaver, 63 anni, fu per un breve periodo della sua giovinezza. Ramo civile, per carità. Niente delitti di sangue o altre efferatezze. Cause di lavoro, per lo più. Questioni che in fondo muovono più interessi pecuniari che coscienze. «Non sempre», sospira lui. «Io sono purtroppo un tipo molto empatico», spiega. «Voglio dire che riesco molto bene a mettermi nei panni altrui». Una dote benedetta per uno scrittore, no?
«Già. Ma meno per un avvocato». E racconta di quella volta, quell’unica volta (pure allora) in cui trafisse – metaforicamente – l’avversario, vinse la causa e si sentì terribilmente in colpa: «La nostra cliente era una grossa società, citata in giudizio da un giovane dipendente. In gioco c’erano poche centinaia di dollari, un migliaio al massimo, che l’ex impiegato reclamava, senza però disporre di ragioni fondate. Così mi limitai a esporre il caso al giudice, che respinse infatti la richiesta. Ma io mi sentii malissimo quando vidi il ragazzo piangere, alla lettura della sentenza. Glieli avrei dati di tasca mia, quei soldi, pur di restituirgli il sorriso. Perché mi ero immedesimato troppo, mi ero messo al suo posto».
Quel che per fortuna non gli capita sempre con i protagonisti dei suoi thriller: «Ma come Hitchcock faceva capolino nei suoi film, i miei preferiti, c’è qualcosa di me nelle pagine dei miei libri. Per esempio, ne La stanza della morte, il personaggio più cattivo di tutti, Jacob Swann, è un ottimo cuoco: le ricette del killer sono le mie. Ed è in un certo senso anche il mio primo thriller politico».
Nel senso che parla di droni, esecuzioni extragiudiziali, omicidi preventivi: «Sì, prende spunto da una storia vera, l’omicidio mirato di un cittadino statunitense, Anvar Al-Avlaki, sospettato di attività terroristica in Yemen, con un drone, di cui il governo statunitense si è assunto recentemente la paternità. Ma non c’è alcun messaggio politico. Non mi interessa se sia giusto o sbagliato. Mi interessa la suspense e il poter sviluppare la storia su un periodo di tempo breve, com’è nelle caratteristiche dei miei romanzi». Dove nulla gli vieta di introdurre una discussione fra i suoi personaggi su questioni etiche controverse come la diffusione delle armi in America: «Con il risultato di scontentare i miei amici di sinistra perché sono titolare di un porto d’armi e rivendico il diritto di possederne, riconosciuto dal secondo emendamento della Costituzione ai cittadini statunitensi. E gli amici di destra, perché credo che ci vogliano norme severe per detenere armi, così come ce ne sono per guidare un’auto o un aereo: una pistola è forse meno pericolosa di un’auto?».

Un giro all’indietro. Il filone “politico” si completerà con una trilogia, nell’arco del triennio, ma la sua prossima creatura criminale è un’acrobazia letteraria: «The October List uscirà in autunno in America, poco dopo in Italia, ed è scritto a rovescio: inizia con l’ultimo capitolo e finisce con il primo». Un giro all’indietro sulle montagne russe, ama definirlo Deaver, in gara con la realtà che, a volte, sembra ispirarsi ai suoi romanzi: Edward Snowden, la “talpa” del Datagate, per esempio, sembra uscito da La finestra rotta, l’ottava avventura del suo detective paraplegico, Lincoln Rhyme, apparsa nel 2008. «Snowden un eroe buono? No, ha svelato le attività illegali del governo americano che però non sembra abbia commesso crimini, in questo caso. Se fosse un mio personaggio, sarebbe alternativamente buono e cattivo, in un susseguirsi di colpi di scena. Come piace a me».