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 2013  luglio 19 Venerdì calendario

LA LUNGA NOTTE DEL 25 LUGLIO ’43. QUANDO GLI ITALIANI SOGNARONO LA LIBERTÀ. E SI RISVEGLIARONO IN UNA GUERRA CIVILE

LA LUNGA NOTTE DEL 25 LUGLIO ’43. QUANDO GLI ITALIANI SOGNARONO LA LIBERTÀ. E SI RISVEGLIARONO IN UNA GUERRA CIVILE –
Sono veramente tanti i romani che in una tiepida serata di fine primavera del 1943 stanno facendo la coda al cinema per vedere la meravigliosa Garbo in Ninotchka di Ernst Lubitsch. La divina, nei panni di una seducente spia russa in missione a Parigi, indossa abiti che, in tempo di autarchia, le italiane nemmeno se li sognano, morbida seta e cintura dorata fin sotto al seno. Di lì a poco tempo i milanesi si accalcano invece all’Odeon per la première de L’uomo dalla croce, cupa pellicola ambientata sul fronte russo e firmata dal promettente autore di una trilogia sulla guerra fascista, Roberto Rossellini. È terribile la normalità imposta dai tre anni di guerra, quando «nei ministeri si continua a fare anticamera coi pezzi grossi, gerarchi in divisa, ufficiali con decorazioni… però la gente soffre tanto che non teme più nulla», come scrive Piero Calamandrei. Il giurista antifascista che, a fianco del diplomatico e Guardasigilli Dino Grandi, ha redatto il nuovo codice di procedura civile e il 26 luglio diventerà rettore dell’Università di Firenze, aggiunge: «Tutti sanno e hanno capito che molto sta cambiando…».

Lo sbarco delle truppe del generale d’acciaio. È proprio così: molto sta cambiando e la notizia che mette lo Stivale sotto choc arriva all’improvviso. Pantelleria ha dichiarato la resa incondizionata agli alleati. Mussolini non fa in tempo a declamare che i nemici non andranno al di là della «linea che i marinai chiamano del bagnasciuga» e loro l’hanno già oltrepassata: nella notte tra il 9 e il 10 luglio la superano “solo” 160 mila soldati, 4 mila aerei coadiuvati da 285 navi da guerra, due portaerei, 14 mila automezzi, 1.800 cannoni e 600 carri armati. Ad accompagnare lo sbarco delle truppe del “generale d’acciaio”, George Smith Patton, con cintura da cowboy e colt dall’impugnatura in avorio, c’è uno spilungone di oltre un metro e ottanta con indosso il kilt dei Gordon Highlanders, il maggiore Malcolm Munthe. È uno dei più importanti agenti dello Special Operations Executive (Soe) cui Winston Churchill ha ordinato di sparpagliarsi nel “ventre molle d’Europa”, cioè in Italia, insieme a centinaia di altri 007. Sono in circolazione pure gli spioni dell’Oss, l’Office of Strategic Services, i servizi segreti americani, che in Nord Africa lavorano come talpe per l’occupazione della Sicilia. Mussolini, livido in volto e devastato dai suoi terribili bruciori di stomaco, incontra il capo del Terzo Reich a Feltre. Sottomesso alla logorrea del “sentimentalone” (simpatica definizione di Hitler, data dal Duce dopo la conferenza di Monaco del 1938), il 19 luglio viene raggiunto da un tremendo dispaccio: «Roma brucia!». Primo a essere colpito è il popolare quartiere dello scalo ferroviario di San Lorenzo. Il generale Eisenhower è stato esplicito: «Se per salvare un solo americano dovete buttare giù il Colosseo, fatelo pure». Mussolini rientra a spron battuto.
Donna Rachele, la regina incontrastata di casa Mussolini, avverte il consorte che ha dei presentimenti e che gli stanno preparando una trappola. Una volta tanto è in sintonia con l’amante, Claretta Petacci, che il 24 mattina telefona e supplica: «Non andare!». Stanno per cominciare la notte e il giorno più lunghi nella storia della penisola italiana di cui il prossimo 25 luglio celebreremo i 70 anni. Un anniversario che però non è solo una rievocazione.
A partire da questa data, in cui venne messo in minoranza il presidente del Consiglio del Regno d’Italia, che aveva ricoperto questo ruolo ininterrottamente dal 31 ottobre 1922, presero avvio i 45 fatidici giorni che arrivano all’8 settembre, all’annuncio della firma dell’armistizio con gli angloamericani. Due date e un solo destino: questi giorni segnano la transizione della penisola da un prima a un dopo, in un susseguirsi travolgente di avvenimenti e di concause, che vanno dalla costituzione del primo discusso governo di Pietro Badoglio (così cantava la feroce Badoglieide: «Gli squadristi li hai richiamati / gli antifascisti li hai messi in galera / la camicia non era più nera / ma il fascismo restava padron») alla precipitosa fuga dei Reali di casa Savoia, ai bombardamenti su Roma e Milano. Per proseguire con il suggello dell’armistizio di Cassibile, con cui il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze alleate, il crollo dell’esercito, i «soldati passavano come un gregge disfatto» (ha scritto Primo Levi) e la rinascita al Nord del regime-araba fenice in veste repubblicana. Per continuare ancora con la persecuzione razziale, l’avvio della guerra civile e le drammatiche divisioni della memoria non condivisa tra ex fascisti e vincitori che segneranno gli anni a venire.

Il ruolo del re. Tutto cominciava il 25 luglio, ma il via all’operazione che mise in minoranza il Mascellone o Cetriolone (così Carlo Emilio Gadda chiamava Mussolini) fu dato ai primi di giugno. Il piccolo re, Vittorio Emanuele III, sempre incerto e timoroso, dopo un incontro con Grandi finalmente si convinse. Doveva scattare l’ora fatidica. Si era definitivamente reso conto dell’incapacità del Duce a gestire la guerra e il rapporto con la Germania. Sabato 24 luglio, nella sala del Pappagallo a Palazzo Venezia – dove si ritrovarono in sahariana e stivaloni i membri del Gran Consiglio del fascismo –, in un’atmosfera soffocante, con le finestre chiuse e le tende tirate per via dell’oscuramento, Grandi presentò l’ordine del giorno, in precedenza sottoposto anche a Mussolini, in cui i gerarchi si rivolgevano al monarca chiedendogli di applicare l’articolo dello Statuto Albertino che attribuiva al re il comando supremo delle Forze Armate che era stato fino ad allora delegato al Duce. Si invitava dunque «il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re di assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate… quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono». Lo snodo era cruciale: si ripristinavano i poteri costituzionali del re e quest’ultimo poteva togliere le deleghe del comando militare a Mussolini e assegnarle ad altri. La riunione si protrasse nella notte. Donna Rachele preoccupata chiamò più volte. «Sono le due del mattino e questa è la quarta volta che telefono a De Cesare (segretario di Mussolini, ndr), ma ancora niente. Mi tormento: cosa starà succedendo là dentro?», scrive sul diario. Alle quattro sentì il motore dell’automobile che riportava Benito a Villa Torlonia. «Appariva stanco e come ripiegato su se stesso; a me bastò uno sguardo per capire com’erano andate le cose. Gli avevano tolto la fiducia, ne fui certa ancor prima che me lo dicesse. E così, mentre entravo con lui nello studio, gli chiesi: “Almeno, li hai fatti arrestare tutti?”. Lui mi rispose: “No, ma domattina lo farò”». Il pomeriggio successivo sarà Mussolini a essere arrestato. La votazione era terminata ed erano stati 19 i voti a favore di Grandi. In mattinata il 74enne Vittorio Emanuele conferì al 72enne Pietro Badoglio l’incarico di formare il governo. Alle ore 17 del 25 luglio, il primo ministro uscente, in elegante completo blu – gli era stato raccomandato di presentarsi in “borghese” –, era a villa Savoia accolto dal piccolo re in divisa di Primo Maresciallo dell’Impero. Che gli disse che «l’Italia era in tocchi» e che l’esercito era «moralmente a terra». All’uscita dalla riunione, ad aspettare l’ex capo del governo non c’era più l’autista, ma i mitra dei carabinieri che lo spinsero su un’autoambulanza della Croce Rossa. E lo portarono prima alla caserma Podgora, poi in quella di via Legnano. Terminava così il giorno più lungo. Su cui pesano ancora molti interrogativi e incertezze. Che cosa spinse realmente Mussolini a convocare il Gran Consiglio? Quale fu la dinamica che lo fece cadere nella trappola? Perché accettò di discutere la proposta di Grandi? Sull’interpretazione di quell’ultimo atto, di quelle ore che segnarono la fine del ventennio nero, ancora oggi gli storici sono divisi: «Le dittature possono terminare o tramite una rivoluzione o per implosione e questo fu il caso del regime mussoliniano. Accompagnato però da variabili incontrollabili», osserva Lucio Villari, prefatore del libro di Paolo Monelli, Roma 1943 (ristampato da Einaudi). «Mussolini vide arrivare il momento della sua sconfitta perché venne approvato il testo di Grandi che gli sottraeva quel potere totale che aveva esercitato fino a quel momento. Sornione, finse di essere sconcertato. Ma quella soluzione non gli dispiaceva. Il disastro era alle porte e con quella mozione avrebbe condiviso le sorti della guerra con il monarca. Non si aspettava però di essere arrestato». «Quando accettò di convocare il Gran Consiglio, il capo del governo era molto indebolito e doveva fare qualche concessione ai suoi oppositori», afferma Giovanni Sabbatucci, autore con Vittorio Vidotto del più diffuso manuale dedicato alla storia del Novecento (Laterza). «Il re, sempre così prudente, avendo avuto l’avallo delle gerarchie fasciste, giocò le sue carte. Mussolini di lui si fidava. Solo pochi giorni prima lo aveva definito “il mio migliore amico”. Vittorio Emanuele lo colse di sorpresa». Con questa “sorpresa”, iniziava una nuova era. «Quando la notizia viene resa pubblica alla radio», osserva il più importante biografo di Mussolini, Renzo De Felice, «la gioia traboccò da ogni parte d’Italia mentre il governo Badoglio faceva il suo sciagurato esordio». Il maresciallo Badoglio, contro tutte le aspettative, annunciava: «La guerra continua».