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 2013  luglio 19 Venerdì calendario

«SE BRERA MI AZZANNA, CHE MI FREGA?»

[Intervista a Ennio Flaiano] –
Affermano Gianni Brera e Antonio Ghirelli che l’italiano degli sportivi è l’unica lingua viva che esista oggi nel nostro Paese, mentre quella dei letterati è una lingua morta, accademica, che non rispecchia più niente di fronte al “volgare” della lingua parlata del popolo e dello sport.
«Non mi sembra sia vero. Perché è vivo l’italiano degli sportivi? Non lo so. Forse perché lo scrivono loro?».
Perché è l’unico linguaggio che le masse capiscono e che esprime adeguatamente i miti del tempo.
«Ah, ma allora se vogliamo metterci sul metro della massa, la massa non ha mai capito l’italiano: mai, in nessun momento della storia d’Italia. Mi si accuserà di lesa massificazione, come si dice adesso. Ma esistono gli individui: la massa è un’astrazione».
Brera vi accusa d’essere incomprensibili. Gli scrittori italiani sono sperimentali, avanguardisti, il loro latino non arriva a nessuno.
«Ma Gianni Brera fa dell’autobiografia quando dice questo! Perché io quando leggo Brera non lo capisco. Quindi, a questo punto, sono io che rivolgo a lui l’accusa d’incomprensibilità. Ciò che lui dice mi mette in sospetto che in realtà sia la sua un’operazione sperimentale, letteraria: perché fare della critica calcistica è abbastanza assurdo, in quanto significa fare la critica su una cosa che sta avvenendo. Il calcio è un happening. Benissimo. Come si può criticare qualcosa che sta avvenendo? E allora accade che i signori critici del calcio per scrivere su queste cose devono fare del marinismo (stile letterario che si ispira a Giovan Battista Marino, 1569-1625, ndr). Sono costretti a inventare qualche cosa che sostituisca la semplicità, la realtà».
Il dialetto lombardo di Brera, alla Carlo Emilio Gadda, non ha dignità di lingua, di invenzione letteraria?
«Ma a me va benissimo Brera, perché il Brera ha evidentemente delle qualità straordinarie: se non altro le qualità di portata, lui ha una portata come i fiumi, come il Po, superiore a quella degli altri. Lui porta tanti milioni di litri d’acqua al mare, lo fa con un’enorme facilità, ma anche a questa facilità ci dovrebbe essere un freno, est modus in rebus. Lui non scrive: lui ogni volta fa un esercizio di stile, un’acrobazia verbale, perché ha un pubblico che lui deve meravigliare ogni volta. Come il cavalier Marino».
Com’è nata la tua polemica con Brera?
«In modo molto semplice. Un settimanale aveva chiesto ad Antonio Ghirelli, a me e a Giorgio Manganelli se fosse ancora il caso di andare alla partita. Io dicevo, in quell’intervento, che i giornalisti sportivi hanno una tendenza deplorevole alla retorica. Come esempio citavo alcuni titoli. Loro usano continuamente la parola “umiliazione”: “La Samp umiliata”, “In ginocchio”, “Kaputt”. C’è sempre, nella loro prosa, l’aria del disastro, assolutamente non sportiva, perché, se si leggono le cronache del Times, là si vedono i risultati e basta. Non c’è nessun giudizio. Qui invece tutto diventa fatto morale, punitivo. “La squadra agonizza”, “il campionato ha bisogno di ossigeno”, “la Roma è stata umiliata dall’arbitro”. Poi mi era apparso memorabile un titolo su II Messaggero: “Scialba prova del Divino Amore”. Un’altra volta lessi che “il Chinotto Neri era in difficoltà”».
Tu sai che esistono due scuole di pensiero sportivo: Brera-Zanetti, il calcio tattico, difensivistico, atletico, e Palumbo-Ghirelli, il calcio-spettacolo, la lussuria del gol inteso come un orgasmo, l’offensiva e il movimento. Tu quale favorisci?
«Ghirelli scrive abbastanza comprensibile; è quello, credo, che conosco di più. Zanetti chi è, scusa?».
Il direttore de La Gazzetta dello Sport (Gualtiero Zanetti, direttore dal 1960 al 1973, ndr). Esiste, dunque, questa faida dei due giornalismi sportivi. Brera sostiene che noi italiani siamo una razza di rapinatori, quindi dobbiamo praticare il calcio di difesa e rapinare il risultato. Gli altri sono per un calcio aperto, generoso, alla garibaldina.
«Be’, io credo di essere per la seconda tesi. Il calcio-spettacolo, giocato in modo generoso e leale. E poi non è affatto vero che gli italiani sono rapinatori e saccheggiatori. Sono stati rapinati e saccheggiati in tutta la loro storia, semmai: non è la cosa che sanno fare meglio. Anzi, le qualità dell’italiano si ritrovano nei momenti brutti, durante l’occupazione tedesca, nelle crisi, nella sconfitta. Nella vittoria gli italiani sono sempre un po’ offensivi, un po’ arroganti, vanno oltre: è nella sconfitta che, rare volte, sanno essere grandi».
Sì, è un po’ la lotta del Gran lombardo, qual è Gianni Brera, contro i napoletani.
«Be’, qui andiamo a finire sul bagnato, la faccenda delle razze. Allora non c’è più niente da dire. Io non credo nelle razze, credo sempre negli individui. Dice: “Lei darebbe sua figlia in sposa a un negro?”. E io domando: “Ma scusi, che razza di negro? Fascista o no? Se è fascista non gliela do”. La razza si vede da quello che uno esprime, non da quello che uno è. Quindi bisogna che Brera stia attento. Oh, ciò che io trovo in Brera, e gliel’ho detto e forse lui se n’è dispiaciuto, è che ha la tendenza a ostentare una cultura. Brera ha un po’ il difetto dei gastronomi e degli scrittori di cucina: che hanno sempre bisogno di ricorrere alla citazione latina, aulica, per far sapere, insomma, che, siccome la materia appare non grande, bisogna nobilitarla con intromissioni continue di termini togati. Ma in questo lui compie un errore gravissimo: fa del suo stesso scrivere una lingua aulica e cardinale come quelle che critica. La cultura dev’essere solo presupposta, non ostentata. E come un iceberg, la cultura dello scrittore: è la parte che deve stare sott’acqua. E quello che appare dev’essere semplice. Ma Brera è un iceberg che vola addirittura sulle acque, di lui si vede tutto, persino il libro degli esercizi latini delle medie. Tutto».
Brera ha scritto di avere appena letto le Bucoliche nella nuova versione di Agostino Richelmy.
«Splendida. Ce l’ho anch’io. Fa bene Brera a leggerla, ma non a ostentarla. Io, a differenza di lui, la leggo al cesso per essere più segreto e concentrato. Sarebbe bello che delle Bucoliche Brera esprimesse lo spirito in qualche cronaca: ma senza dircelo. Le Bucoliche appartengono oggi allo sport. Gli italiani, l’unica cosa verde che vedono è proprio il rettangolo di gioco. Il verde non lo vedono più. L’ultima cosa bucolica che ci sia rimasta è proprio lo stadio».
Flaiano, che cosa pensi di Gianni Rivera? «So che Brera l’ha battezzato “l’abatino”. Io invece confesso di essere un ammiratore di Rivera, anche se l’ho visto giocare una volta sola, perché mi piace la sua calma e il suo modo di non entrare negli incidenti. Rivera porta nel gioco una misura classica: è un eroe antico. Mi è estremamente simpatico. È stato vittima di un’ingiustizia terribile quando lo fecero entrare negli ultimi sei minuti, ai Mondiali (nel 1970, ndr), come chiamata di correo nella disfatta. Però bisogna stare molto attenti quando si parla di sport e di sportivi in Italia, perché sta diventando un’industria molto grossa».
Tu conosci personalmente Brera?
«Mai visto. Ma credo che la sua aggressività derivi da un sentimento d’inferiorità. Lui attacca per paura di essere attaccato. Lui dice: adesso aggredisco Flaiano, lo azzanno. Ma, a me, che mi frega se lui mi azzanna?».